Mario Calabresi ha ricoperto un ruolo professionale che gli ha reso molta notorietà, ma è in possesso di un cognome la cui fama lo precede. Figlio del commissario Luigi, assassinato da un commando alle 9:15 del 17 maggio 1972 a pochi metri dalla sua abitazione, Mario è stato per tre anni direttore di «La Repubblica», fino a febbraio 2019.
Non ha ancora compiuto cinquanta anni ed è già in possesso di una lunga e articolata carriera. Le occasioni professionali non gli sono mancate in passato e, presumibilmente, non gli mancheranno neanche in futuro. Eppure ha vissuto in maniera molto tragica il repentino allontanamento dalla carica di direttore del quotidiano nazionale. Una decisione che, a suo dire, lo ha colto di sorpresa. Inaspettata e, stando a quanto racconta nel libro, devastante.
Avendo molto più tempo a disposizione, quello che egli indicata come “vuoto”, lo dedica a fare tutte quelle cose a lungo rimandate e a scrivere un libro. Dichiara di non potersi permettere “un tempo vuoto” perché il dolore provato nel sentire che quello che aveva sempre fatto e pensato di fare per sempre era all’improvviso sfumato, sparito, finito.
Rincara ulteriormente la dose quando sostiene che non esiste alcuna gradazione del dolore, della sofferenza e del vuoto. Non si può fare un paragone né una scala del dolore. E ne elenca le più comuni declinazioni: la prima delusione d’amore, una bocciatura, un fallimento o licenziamento, la morte di un congiunto o di un amico…
L’impressione è che, forse, l’ex direttore Calabresi confonda dolore e sofferenza con i sintomi della malinconia o depressione come dir si voglia. Solo in quest’ottica le sue parole acquistano maggiore senso. Una depressione che può originarsi da uno dei suddetti dolori o esserne pregressa. La malinconia, quella sì che può avere la medesima intensità, qualunque cosa accada, anche in maniera indiretta o trasversale a chi ne soffre.
Per arginare o prevenire il “dolore da vuoto”, Calabresi già la mattina dopo il licenziamento parte per l’estero, poi ritorna in Italia e successivamente riparte ancora, si dedica a tutte quelle visite e commissioni rimandate a causa dei troppi impegni e scrive anche un libro. La mattina dopo che uscirà con Mondadori ai primi di settembre è una sorta di romanzo di formazione scritto per ricordare a se stesso e agli altri i traguardi raggiunti, la carriera notevole, il superamento di tanti momenti difficili. Utile forse più come mantra personale per l’autore che per il lettore. Si raccontano per esteso le visite all’estero agli amici di vecchia data, con tanto di dettagliata descrizione del momento in cui li ha conosciuti. Aneddoti della sua infanzia. Il ricordo dei nonni e dei luoghi natii. La carriera di giornalista, corrispondente e direttore. L’assassinio del padre e l’incontro con l’omicida. Ricordi vicini e lontani che spaziano dalla mente dell’autore alla carta stampata nel fulgido tentativo di riempire il vuoto profondo dovuto all’eccesso di tempo a disposizione. A causa del licenziamento.
Un libro scritto in breve periodo, di getto, d’impulso, come si evince anche dallo stile narrativo utilizzato. Una scrittura semplice, priva di periodi e termini ricercati, con una sintassi e un piglio quasi colloquiale e rivendicativo.
L’autore sostiene nel libro di aver sempre ben guardato alla competenza professionale e, ogni qual volta gli è capitato di incontrarla, incarnata in diverse persone che praticavano le più svariate professioni, l’ha sempre apprezzata.
La competenza potrebbe anche essere intesa come la capacità che un vero professionista ha di riempire i vuoti temporali con azioni, proposte, decisioni, azioni di qualità. Operazioni propositive che possano avere anche una qualche utilità sociale.
Per esempio, ma questa è soltanto l’umile opinione di chi scrive, un grande giornalista che afferma di essere stato improvvisamente e ingiustamente rimosso dall’incarico dirigenziale occupato potrebbe “sfruttare” quanto accaduto per rendere pubbliche tutte quelle dinamiche ingiuste viste e vissute nel proprio campo professionale, potrebbe essere o diventare la autorevole voce di chi staziona sui gradini inferiori della piramide professionale e subisce ingiustizie magari anche peggiori ma non ha modo di farsi ascoltare e, oltretutto, non può neanche permettersi il lusso di viaggiare e pubblicare libri per colmare quel vuoto che non è solo di tempo ma anche economico. Potrebbe diventare il vero e concreto volto di un cambiamento per certo necessario oppure scegliere di riempire i vuoti come meglio crede in attesa magari di una congrua e alternativa offerta professionale. Sono scelte e come tali vanno comunque rispettate indipendentemente dalle personali opinioni che ognuno ha o può avere al riguardo.
Ma questa è un’altra storia, di fantasia con ogni probabilità. Quella raccontata da Mario Calabresi ne La mattina dopo è quella di un uomo che si è sentite ferito dal trattamento professionale subito e che ha cercato, nelle amicizie nei ricordi e nella scrittura, conforto per il torto subito e il danno psicologico che ne è derivato.
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