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Irma Loredana Galgano

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Archivi tag: Mondadori

Maria Elisa Aloisi, Sto mentendo.Un caso per Ilia Moncada

15 martedì Ott 2024

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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MariaElisaAloisi, Mondadori, recensione, romanzo, Stomentendo, thriller

In epoca di fake news, di post-verità e di nuovo realismo, il tema della verità, e per contro della menzogna, è diventato talmente centrale da essersi imposto negli ultimi anni come oggetto di riflessione e indagine. Bugie, inganni e menzogne in letteratura abbondano in tutte le forme e sfumature. La lista di bugiardi e mentitori sembra davvero infinita: l’Odisseo omerico, il Miles Gloriosus latino, i bugiardi di Dante del canto XXX dell’Inferno, quelli di Boccaccio e di Chaucer, i mentitori di Corneille e di Goldoni. Per citarne alcuni. Menzogne, inganni, bugie e bugiardi, solitamente condannati tanto dalla morale filosofica quanto da quella comune, sono in letteratura così onnipresenti non solo o non soltanto perché la menzogna è un fenomeno umano rivolto agli umani, come è pure la letteratura, bensì perché strutturalmente, e da un punto di vista squisitamente narrativo, essi sono indispensabili e irrinunciabili affinché la storia stessa, il plot dell’opera, si avvii o si complichi, proceda o si risolva, o comunque si concluda; affinché, insomma, l’opera stessa diventi in qualche modo, e nel suo specifico modo, possibile.1

Maria Elisa Aloisi sembra aver costruito l’intera struttura portante del suo legal-thriller intorno al bisogno o necessità o volontà di mentire di ognuno dei protagonisti che, a vario titolo, entrano nella scena principale dell’opera, ovvero il tribunale dove si svolge il processo per omicidio, vero palcoscenico di tutta la narrazione. Ognuno di loro sembra avere un buon motivo per mentire. Per certo, Ilia Moncada ha la determinazione per costringere tutti e ognuno di loro a dire la verità. 

Sovente l’opera stessa può esistere solo grazie alle bugie che essa contiene e su cui si basa, e questo vale addirittura per il genere letterario di appartenenza e le convenzioni che lo regolano, se solo si pensa al thriller, al detective story. Anche da una prospettiva ermeneutica, inoltre, credere o non credere a bugie e bugiardi da parte degli altri personaggi in senso intradiegetico e da parte dei lettori in senso extradiegetico, oppure essere in grado di smascherare o meno menzogne e mentitori, implica importanti e talvolta decisive conseguenze sia a livello di storie e narrazioni, sia – in maniera molto più complessa – a livello di interpretazione del testo.2

«Però quando credi che il tuo cliente sia innocente, anche senza volerlo ti impegni di più. O no? – È vero – Fui costretta ad ammettere mio malgrado». Sono Ilia Moncada e sua zia Ofelia a raccontarsi gli sviluppi sul caso di omicidio che la ragazza sta seguendo come legale dell’imputato. Al quale non crede. Il quale non le piace. Eppure svolge lo stesso il suo lavoro. Non con lo stesso impegno di quando segue un cliente che ritiene innocente ma lo fa, ponendo in essere, in un certo qual modo, un grande inganno basato sulla menzogna. 

Ogni avvocato, nell’esercizio della sua professione, mente. Ciò accade tutte le volte che sostiene le ragioni del proprio assistito che sa essere dalla parte del torto. 

«Cicerone dopo dato un consiglio al senato o al popolo, da mettersi in opera anche il medesimo, dopo perorata e conchiusa una causa, ancor di una piccola eredità, si poneva a tavolino, e dagl’informi commentari che gli avevano servito a recitare, cavava, componeva, limava, perfezionava un’orazione formata sulle regole e i modelli eterni dell’arte più squisita, e come tale, consegnavala all’eternità. Così gli oratori attici, così Demostene di cui s’ha e si legge dopo 2000 anni un’orazione per una causa di 3 pecore: mentre le orazioni fatte oggi a’ parlamenti o da niuno si leggono, o si dimenticano di là a due dì, e ne son degne, né chi le disse, pretese né bramò ne curò ch’elle avessero maggior durata.»3

È una lamentela comune in epoca di classicismo, resa icasticamente dal giovane Leopardi: il sostanziale silenzio dei moderni retori è contrapposto agli artifici, destinati all’eterno, cesellati dagli antichi, fosse pur col pretesto di una causa intorno a poche pecore. Sempre in Italia, a Novecento inoltrato, la fortuna dell’oratoria avvocatesca si assestò al livello della cultura popolare, soprattutto al Sud.4

«Il diritto, gli avvocati, le cause in tribunale lo colmavano di estasi e delizia. Sapeva a memoria i nomi di tutti gli avvocati della provincia, e i brani delle loro cause più celeri; e in questo non era il solo, perché l’amore per l’oratoria forense è quaggiù abbastanza generale.»5

L’avvocato è in tutto e per tutto un uomo di teatro, di volta in volta istrione, guitto, fine dicitore.6 Il causidico fu spesso, lungo i secoli, assimilato all’attore: un modo forse per nobilitare il secondo e mettere in dubbio la lucidità argomentativa del primo.7

Quasi ovunque nei testi letterari ci imbattiamo in private o pubbliche arringhe che sanno d’aula di tribunale e molto familiare in Italia è la satira di avvocati e notai avidi ma, nel libro di Aloisi, è intorno alle parole di rei e correi che si potrebbe lungamente argomentare. Egualmente adirandosi. 

Sto mentendo è un legal-thriller ambientato tra luoghi che devono essere molto cari all’autrice. Traspare una Sicilia ricca di tradizioni, cultura, folklore, umanità. Anche nell’opera di Aloisi si ritrova la singolarità presente in molti scrittori siciliani che hanno saputo coniugare l’esterofilia e l’apertura al mondo con la tensione, all’inverso, centripeta che domina le loro opere, ossessivamente legate al tema dell’isola, e le loro vite, crocefisse a quella terra amata e odiata, o quanto meno condannate a concludervisi, in sconsolati ritorni che hanno talvolta lo stesso senso, di bruciante sconfitta e di astiosa diffidenza, dell’attaccamento delle “ostriche” verghiane allo “scoglio”.8

Nel testo sono presenti numerosi dialoghi, le descrizioni sono poche e brevi, seppur esaustive. Sembra quasi volontà dell’autrice lasciare siano gli stessi protagonisti a raccontare la storia, attraverso il resoconto della loro vita, delle esperienze, le emozioni, i sentimenti, gli accadimenti. Che siano sempre loro a trascinare il lettore nelle anse di una storia che si snoda tra le vie e le mura di una città che trasuda la sua sicilianità cosmopolita da ogni angolo, da ogni poro. Esattamente come accade per i suoi personaggi, protagonisti del romanzo. 


Il libro

Maria Elisa Aloisi, Sto mentendo. Un caso per Ilia Moncada, Mondadori, Milano, 2024.


1L. Pelaschiar, Quella bugiarda della letteratura! Il caso William Shakespeare, in Nuova Informazione Bibliografica, arTs – Università degli Studi di Trieste, Trieste, 2019.

2L. Pelaschiar, op.cit.

3G. Leopardi, Zibaldone, 1823.

4F. Arato, Parola di avvocato: L’eloquenza forense in Italia tra Cinque e Ottocento, Giappichelli Editore, Torino, 2015.

5C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1945.

6G. Marotta, San Gennaro non dice mai no, Longanesi, Milano, 1948. F. Arato, op. cit.

7C. Vicentini, La teoria della recitazione. Dall’antichità al Settecento, Marsilio, Venezia, 2012.

8A. Di Grado, Memoria e utopia: la vocazione europea della letteratura siciliana, in Fragmentos, numero 36, 2009.


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Ordine e caos: “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino

18 mercoledì Ott 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ilcastelodeidestiniincrociati, ItaloCalvino, Mondadori, recensione, romanzo

Il 15 ottobre 2023 Italo Calvino avrebbe compiuto 100 anni. Poliedrico e rivoluzionario, racconta e insegna a ogni rilettura. 

Spingendosi oltre la rielaborazione della fiaba, ne Il castello dei destini incrociati inventa nuove strutture letterarie, gioca con il linguaggio e con la materia dei segni, lancia nuove sfide al lettore portandolo al centro di una narrazione cangiante caratterizzata da innumerevoli prospettive. Il processo intrapreso da Calvino sembra volesse portarlo verso una scrittura che non è più solo raccontare bensì nel dire che si racconta. 

Sono i Tarocchi, o meglio le varie combinazioni delle sue carte a generare i diversi racconti. Nell’intreccio delle vicende e dei personaggi si intravedono gli studi che Calvino conduceva sull’Orlando furioso, ma sono lo strutturalismo e la semiologia ad averlo per certo ispirato. E proprio laddove sembra ricondursi agli studi di Propp e Lévi-Strauss traspare il suo interesse e la sua volontà di rinnovare i modelli usati da Cervantes e Boccaccio. 

Lo stile narrativo di Calvino è particolareggiato e preciso, con una grande attenzione per i dettagli e anche quando mostra la sua inevitabile ripetitività, dovuta proprio alla struttura scelta dall’autore per la narrazione, mostra comunque la sua originalità. 

Carta dopo carta la storia prende forma e si trasforma, rallegrando oppure emozionando i commensali. Invitandoli a riflettere sui significati palesi o nascosti delle carte, delle storie, della vita. Molto importante l’aspetto simbolico racchiuso nel testo. Gli stessi Tarocchi ne sono esempio: oltre al valore numerico ne nascondono un altro simbolico. 

La costruzione degli otto episodi sembra vertere sul dualismo tra ordine e caos: nel mondo della natura, indistinto e caotico, sembra aprirsi uno spiraglio di speranza allorquando vi giunge la presenza umana che promette ordine e razionalità. Ovviamente non è semplice come appare e ordine e caos si mescolano e si confondono al punto che sembrano quasi invertirsi. Sembrano perdere i riferimenti ed ecco allora che l’autore vuol invocare l’aiuto del lettore, la sua partecipazione può creare nuove storie, nuove interpretazioni, nuovo ordine nel caos. Oppure nuovo caos nell’ordine stabilito. 

Il dualismo tra ordine e caos caratterizza anche i due racconti che vanno a comporre il libro – Il Castello dei destini incrociati e La Taverna dei destini incrociati -. Ordinato e aristocratico il primo, caotico e popolano il secondo. Esattamente come i rispettivi mazzi di Tarocchi utilizzati. 

Per comprendere appieno il significato e l’importanza dell’opera di Calvino bisogna, innanzitutto, abbandonare i pregiudizi riguardo i Tarocchi. È necessario imparare a guardarli come strumento necessario per comprendere le scelte che ognuno fa, in base alle quali poi si costruisce il futuro. Solo guardando dentro se stessi si può comprendere e dare senso alle varie interpretazioni delle carte. I Tarocchi non indovinano il futuro ma aiutano a scegliere, saranno poi le scelte e le azioni a creare il futuro oppure, nel caso del libro, le storie da raccontare. 

Il castello dei destini incrociati non è, quindi, solo il racconto delle storie narrate bensì la costruzione delle stesse, il dire la loro costruzione, la condivisione delle stesse e la partecipazione del lettore il quale, guardando nelle storie del libro, vede anche dentro se stesso e costruisce anch’egli una storia, che può diventare la propria. 

Molto significativo appare fin da subito al lettore il fatto che l’io narrate, lo stesso Calvino, al pari di tutti gli altri ospiti del maniero hanno tanta voglia di parlare, di raccontare se stessi ma, a causa dell’incantesimo che li ha colpiti tutti, non possono esprimersi a parole. La strada che trovano è quella dei Tarocchi. Basti solo questo che rappresentare la potenza della simbologia e dei significati racchiusi in questa grande opera letteraria. 

Il libro

Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, Mondadori, Milano, 2023

Articolo pubblicato su OublietteMagazine


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Recensione a “Il tesoriere” di Gianluca Calvosa (Mondadori, 2021)

28 martedì Set 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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GianlucaCalvosa, Iltesoriere, Mondadori, recensione, romanzo

Si sente spesso la frase “chi non c’era non potrà mai capire”. E, in affetti, spiegare a qualcuno un’intera epoca non è certamente cosa facile. Gli anni Settanta, figli diretti del ’68 e di quella rivoluzione civile che ha abbracciato, travolto e stravolto l’Italia e il mondo intero, almeno quello occidentale in maniera diretta e la resta parte in modo indiretto o consequenziale. Un periodo storico in cui innumerevoli sono stati i cambiamenti, le trasformazioni che hanno traghettatola società direttamente all’oggi. 

Ma gli anni Settanta non sono stati “solo questo”. Si è assistito a una mutazione che, se fosse riferita al campo della biologica, verrebbe indicata come genetica. Per due motivi: da un lato ha interessato il nucleo centrale e profondo della società, dall’altro ne ha modificato i codici di comportamento e azione.

Gianluca Calvosa, scrivendo Il tesoriere, sembra aver voluto in primis parlare di questo determinato periodo storico, dei suoi meccanismi, dei suoi misteri e, solo in seconda linea, raccontare la storia del suo romanzo. Una storia nella quale vivono e rivivono democristiani, comunisti, esponenti della Cia, del Kgb, dei servizi italiani, di quelli deviati, brigatisti e prelati del Vaticano. Una vicenda di spionaggio e intrighi internazionali che vede al suo centro, e fungere da baricentro, l’Italia, Roma. Una città che nasconde, dietro il volto spensierato della Dolce Vita, la sua vera natura. 

Il protagonista del romanzo di Calvosa si chiama Andrea Ferrante. Un funzionario politico impiegato in un anonimo ufficio milanese, dove ha svolto per quattordici anni un altrettanto ordinario ruolo professionale. Un uomo stanco e demotivato, convinto di aver fallito ormai nella ricerca e nel raggiungimento dei propri traguardi, delle proprie aspirazioni. Un personaggio che si sente vinto dalla vita che ormai sembra volerlo per forza condannare all’infelicità. Agenerare irrequietezza in Ferrante è l’ambizione cosicché, non appena gli si presenta uno spiraglio, si scaglia pronto ad afferrare la gloria luminosa del successo, ignaro del fatto che ciò che gli rimarrà sarà effimero proprio come il desiderio di voler catturare un fascio di luce, un bagliore che lo ha accecato e travolto, come ha fatto l’ambizione prima e faranno gli eventi poi.

Andrea Ferrante vive come la realizzazione di un sogno l’essere convocato a Roma per un incarico di tutto rispetto all’interno di quel partito in cui tanto ha voluto credere. La nomina a tesoriere lo lascia basito. Ma sarà la notizia della morte violenta del suo predecessore a sconvolgerlo ancor di più. Inizia così ben presto lo squilibrio emotivo e psichico del protagonista che genererà poi un vero e proprio tormento. 

L’indagine per arrestare il flusso di denaro proveniente da Mosca trascinerà Ferrante all’interno di un mondo dai più ignorato, spesso definito “parallelo” perché coesiste al fianco di quello a tutti noto ma di cui non si conoscono regole e protagonisti. Un mondo animato da spie, agenti dei servizi, personaggi loschi, oscuri e personalità borderline, che vivono la loro vita in entrambe le realtà. 

Non cede però l’autore al fascino di creare una spy story che richiama gli aspetti romanzati e scenografici cui spesso letteratura e cinema hanno abituato il pubblico. Un grande pregio di questo libro è racchiuso proprio nel fatto di non aver spettacolarizzato il mondo parallelo, ma di averlo “semplicemente” raccontato al lettore. 

La storia che vede coinvolti i personaggi del libro di Calvosa si snoda nei meandri di un mondo più che realistico, reale. 

È vero che Il tesoriere è un romanzo di fantasia, non lo si può certo ignorare questo, tuttavia anche la migliore letteratura del Novecento si compone di romanzi di fantasia i quali, però, raccontano l’Italia che era e le persone che la abitavano. 

Il tesoriere di Gianluca Calvosa è un gran bel romanzo novecentesco, scritto nel XXI secolo. 


Il libro

Gianluca Calvosa, Il tesoriere, Mondadori, Milano, 2021, pagg. 396, €19.00

L’autore

Gianluca Calvosa: dopo essersi laureato in ingegneria ha svolto una intensa attività manageriale. Ha fondato OpenEconomics e Standard Football. Già direttore de Il Riformista, New Politics e Quaderni Radicali, ha contribuito alla fondazione del magazine Formiche, di cui è tuttora presidente. 


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Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Daphne Caruana Galizia. Un omicidio di stato”

05 martedì Gen 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CarloBonini, DaphneCaruanaGalizia, JohnSweeney, ManuelDelia, Mondadori

«Quando le persone vi rimproverano o vi criticano accusandovi di essere “negativi”, di non seguire la corrente o di non adottare un atteggiamento di benevola tolleranza verso i loro eccessi, ricordatevi sempre che sono loro, e non voi, a essere nel torto.»

(Daphne Caruana Galizia)

L’assassinio di Daphne Caruana Galizia non dovrebbe interessare e preoccupare solo i cittadini maltesi, bensì quelli di ogni stato democratico che si ritenga o ambisca a essere considerato tale. Perché testimonia un grande problema: l’erosione della democrazia e dello stato di diritto provocata dal denaro sporco.

Leggendo il libro scritto da Bonini, Delia e Sweeney, capitolo dopo capitolo, il lettore realizza che le denunce e le inchieste portate avanti dalla blogger maltese non riguardavano solo l’isola dove abitava e i suoi abitanti. Malta non è che un piccolo puntino rosso disegnato su una rete molto più ampia e capillare, dove i punti di snodo sono numerosi e anche parecchio più grandi.

Forse, è anche per questo che Daphne Caruana Galizia è stata uccisa. Perché, scavando quella punta di marcio che aveva scoperto, è finita in qualcosa di davvero troppo grande.

Un sistema di corruzione ad alti, altissimi livelli, che tira in ballo democrazie e dittature sparse in ogni parte del globo e di cui, è evidente, nessuno deve parlare.

Raccontando le inchieste di Caruana Galizia, gli autori nel libro hanno scritto di criminalità organizzata italiana, stato russo, oligarchi azeri, elusori di sanzioni iraniani, contrabbandieri di petrolio, gestori di casinò, politici corrotti, poliziotti marci e giudici abietti. Hanno raccontato di politici astuti e PR untuosi, avvocati deboli e poliziotti corrotti, banchieri equivoci e scaltri agenti immobiliari che in tutta Europa e nel mondo occidentale fanno finta di non vedere quando il denaro sporco gli passa sotto il naso. Per gli autori anche gli stessi cittadini maltesi hanno una parte di responsabilità per l’assassinio di Daphne. Troppo a lungo hanno distolto lo sguardo di fronte alla corruzione.

È questa una responsabilità ampiamente diffusa e riguarda tutti i cittadini, qualunque sia il loro stato di appartenenza, che fingono di non sapere, di non vedere e di non capire.

Quando la legge e il male sono una cosa sola, la ricerca della verità è un valzer lento con la follia, ha scritto Philip Kerr a margine del romanzo La notte di Praga (Piemme, 2013). Daphne Caruana Galizia non è impazzita però, nonostante tutto. È stata assassinata. Da criminali. Certo. Con ogni probabilità chi ha digitato l’sms che ha innescato la bomba sotto il sedile della sua auto è un criminale di strada qualunque. Ma la decisione di compiere quel gesto non è certo sua. I criminali quando scelgono questa vita in un certo qual modo le inchieste giornalistiche e giudiziarie le mettono in conto, anche la prigione può non essere una grande sorpresa per loro. Mentre le persone sui cui loschi affari indagano giornalisti come Caruana Galizia, forze dell’ordine e magistratura, sono convinti di restare impuniti per sempre. E, affinché ciò avvenga, sono disposti a tutto. Ma proprio a tutto.

Sono delle menti raffinatissime, come amaramente le definiva il giudice Giovanni Falcone. Anche lui assassinato. Anche lui da una bomba.

Affrontano gli autori anche un altro problema, quello della disinformazione, o meglio della distorsione dell’informazione a fini politici e propagandistici. Tanti maltesi criticavano Daphne Caruana Galizia nella sua persona e nel suo lavoro. Ognuno naturalmente è libero di avere e sviluppare idee proprie ci mancherebbe, purché lo faccia con cognizione di causa. Nel testo si sottolinea come in realtà migliaia di sostenitori del Partito laburista maltese, dei cui vertici in più occasioni si era occupata la blogger, non sapevano l’inglese e conoscevano Caruana Galizia attraverso la traduzione e la mediazione operate dal partito. Non leggevano quindi i suoi scritti ma la versione, magari riscritta e opportunamente riveduta, proposta loro.

Il motivo per cui Carlo Bonini, Manuel Delia e John Sweeney hanno deciso di scrivere Daphne Caruana galizia. Un omicidio di stato è perché ritengono lo stato maltese molto restio a sollevare i sassi per paura di ciò che potrebbe trovare sotto.

Gli autori si sono dichiarati sbigottiti di fronte alla profondità della corruzione che Daphne Caruana Galizia è riuscita a far emergere. È lo stesso stupore che prova il lettore leggendo le pagine del libro. Appare quasi impensabile l’alto livello di corruzione nascosto dietro un apparente innocuo gesto, viaggio, comportamento, lavoro e su cui invece il fiuto della blogger non sbagliava.

«Due terzi dei giornalisti assassinati dal 1992 a oggi si occupava di politica e corruzione. L’omicidio dei giornalisti è una spia del fallimento delle istituzioni e di altissimi livelli di corruzione.»

Hanno scritto i figli di Caruana Galizia nel rapporto annuale del Gruppo di stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa.

Abbiamo rigirato qualche sasso e visto creature dimenarsi per sfuggire alla luce, ma abbiamo scelto di non dire tutto ciò che sappiamo per ragioni che, per il momento, non possiamo spiegare, hanno scritto gli autori a margine del testo.

Già, adesso non è il momento di spiegare, ora è tempo per giornalisti e investigatori di andare avanti con il loro lavoro e per i cittadini, non solo maltesi, di riflettere. Di pensare.

Bibliografia di riferimento

Carlo Bonini, Manuel Delia, John Sweeney, Daphne Caruana Galizia. Un omicidio di stato, Mondadori, Milano, 2020.

Traduzione di Paola Marangon.


Articolo disponibile anche qui


Disclosure: Per la seconda immagine, non per la copertina, credits www.pixabay.com


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Non diventeremo onesti per decreto legge: “Guardare la mafia negli occhi” di Elia Minari (Rizzoli, 2017) 

“La notte di Praga” di Philip Kerr (Piemme, 2013) 


 

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“La terra del sogno” di Mariana Campoamor (Mondadori, 2020)

09 mercoledì Dic 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Laterradelsogno, MarianaCampoamor, Mondadori, recensione, romanzo

«Ai viaggiatori di ogni tempo e luogo, e alle terre in cui sperano di seminare un sogno»

La dedica iniziale del libro di Mariana Campoamor racchiude in poche parole un significante straordinario.

La terra del sogno è un romanzo d’esordio, una sintesi tra racconti di vita vissuta e immaginazione. Un romanzo che racconta una storia con un fitto intreccio ma basato, soprattutto, sui sentimenti di chi parte inseguendo un sogno, lavora per realizzare un progetto, vive per dare un senso ai propri pensieri.

Nel 1886 Aldo Masi lascia Milano e l’Italia e, a bordo di un piroscafo, raggiunge le Americhe. Uomo ambizioso, riesce a realizzarsi grazie alla piantagione di indigofera nella terra arsa dal sole del Michoacán eppure continua a coltivare un grande sogno, un desiderio ereditato dal padre, un’idea talmente folle da diventare possibile: coltivare riso in Messico.

Il Messico è la terra che ha accolto Aldo Masi e la sua famiglia, che ha visto nascere e crescere i suoi figli e i suoi desideri. L’Italia è la terra che gli ha dato i natali, è il luogo cui si sente più legato e verso cui ritorna ogni suo pensiero.

Nella storia raccontata da Mariana Campoamor si ritrovano il passato e il presente di quest’uomo, le tradizioni dell’uno e dell’altro paese, e il tutto sembra fondersi al punto da non riuscire quasi a definire le differenze. Come se l’unione delle due culture ne abbia generato una terza, ibrida, che serba e racconta parti di entrambe.

La terra del sogno è un romanzo la cui storia presenta diversi “lati oscuri”, segreti e misteri che rendono a tratti la narrazione vicina a quella di un libro giallo o noir senza mai diventarlo davvero. Rimane, il testo di Campoamor, all’interno dei parametri utili a definirlo “romanzo”, un romanzo moderno che racconta la saga di una famiglia di immigrati italiani in Messico e lo fa con uno stile narrativo vicino a tanta letteratura, soprattutto americana, che ha narrato la vita, la cultura all’interno di queste immense piantagioni, sterminati campi di piante, alberi, vita e vite… in un intreccio di esistenze ed esperienze che sembrano appartenere a una società che non esiste più ormai e che, invece, ha solo trovato differenti protagonisti e luoghi, o terre su cui mettere radici.

Alcune parti del libro sono richiami palesi ai racconti che l’autrice ha ascoltato da sua nonna. Racconti dei suoi antenati al tempo in cui lavoravano nelle piantagioni di proprietà di immigrati italiani. Storie di padroni/proprietari/immigrati e di braccianti/lavoratori/autoctoni. Storie su cui l’autrice ha intessuto la sua, di narrazione, modellata anche dalla volontà di raccontare il riscatto, etnico e di genere.

Un romanzo, La terra del sogno, che lancia innumerevoli spunti di riflessione per il lettore a partire da una storia ben strutturata e ben scritta nella quale l’autrice ha saputo fondere alla perfezione emozione e razionalità.

Bibliografia di riferimento

Mariana Campoamor, La terra del sogno, Mondadori, Milano, 2020. Traduzione di Fiammetta Biancatelli


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale


Disclosure: Per l’immagine del lago Zirahuen a Michoacán credits www.pixabay.com


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L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018) 

Il dialetto che diventa lingua. La storia delle comunità italo-brasiliane 

“Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina” di Maurizio Pagliassotti (Bollati Boringhieri, 2019) 

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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Lezioni per il futuro” di Ivan Krastev (Mondadori, 2020)

28 sabato Nov 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IvanKrastev, Lezioniperilfuturo, Mondadori, recensione, saggio

Una pandemia a livello globale non può non lasciare segni indelebili, non può non costringere governi e cittadini a ripensare alcuni comportamenti. L’emergenza sanitaria in atto sarà fonte, per Ivan Krastev, di almeno sette grandi lezioni per il futuro.

Se da un lato, la prima lezione sarà una rinnovata fiducia nei governi, cui si chiederà sempre maggiore aiuto e sostegno, dall’altro, ovvero la seconda lezione, sarà un ritorno di interesse verso i confini, più marcati e bene definiti, tra i vari Stati con l’intento di tenere fuori e lontano da essi tutto quello che è indesiderato, i virus per primi. Ciò è emerso fin da subito, allorquando si è iniziato a chiudere prima i confini tra gli Stati, poi le regioni all’interno di ogni nazione con lo scopo precipuo di suddividere i territori in compartimenti a tenuta stagna che limitassero circolazione e diffusione del virus.Questo rafforzerà di sicuro il nazionalismo di ognuno ma, si interroga Krastev, cosa accadrà a livello etnico e sociale? Non basterà di certo erigere muri tra stati perché il pericolo viene dalle persone, e non da persone estranee, straniere. No, il “pericolo” è ovunque. Si dovranno erigere muri anche tra le persone? E quali saranno le conseguenze di queste scelte?

Il tema sociale verrà ripreso da Krastev anche nella sesta lezione, centrata sul conflitto generazionale scaturito dalla Covid-19. Contrariamente ad altre problematiche quali clima, lavoro e futuro, questa volta sono gli anziani i più a rischio, vulnerabili e sensibili. Come sta reagendo la società giovane a questa loro difficoltà? L’essere tutti vulnerabili, anche se in maniera differente, contribuirà a ristabilire una sorta di equilibrio esistenziale e sociale?

La terza lezione descritta da Krastev sembra in realtà più una speranza. Ritiene infatti l’autore che la pandemia riuscirà a far ritrovare una più che rinnovata fiducia negli esperti, duramente scalfita negli ultimi tempi a causa della crisi finanziaria prima e di quella umanitaria dopo e su cui i politici populisti hanno calcato molto la mano allo scopo di rinsaldare il malcontento e la sfiducia verso gli esperti e la comunità scientifica in generale per vedere invece rafforzata la fiducia verso se stessi.

In Stati dove si vedrà rinnovato l’interesse per i confini e dove ci si guarderà l’un l’altro con sospetto essendo tutti dei potenziali untori, Krastev teme possa germogliare la passione verso forme di governo autoritarie, capaci di mettere in atto misure più restrittive ma, proprio per questo, più efficaci per contrastare l’epidemia. Ed ecco allora che la quarta lezione invita il lettore a pensare al giorno successivo la crisi, allorquando con ogni probabilità la Cina apparirà come un vincitore e gli stati del blocco occidentale dei perdenti. Perché più impreparati ma anche perché i loro governi hanno dimostrato di avere molto meno polso. Il fascino dell’autoritarismo è un rischio concreto che di certo non va sottovalutato. L’autore infatti invita a una accurata riflessione in merito.

La quinta lezione è strettamente interconnessa alla quarta, solo che osserva il fenomeno con gli occhi di chi in questi lunghi mesi le decisioni le ha prese e non subite.

Nei periodi in cui gli attacchi terroristici sono stati più pressanti per l’occidente, i governi hanno tentato in ogni modo di trasmettere un messaggio che infondesse nei cittadini tranquillità, per evitare panico, caos e, soprattutto, che a causa della paura cambiassero le proprie abitudini magari rinchiudendosi in casa, emarginandosi ed auto-isolandosi. A causa della pandemia i governi hanno dovuto fare l’esatto contrario, ovvero infondere timore per scoraggiare i cittadini a uscire di casa, invogliandoli al contrario a rimanere dentro il più possibile. Il successo dei governi in questo caso, per Krastev, dipende molto dalla loro capacità di “spaventare” la gente e convincerla a rimanere a casa. Tanto più riusciranno a far entrare nel panico la gente tanto prima riusciranno a contenere la pandemia. Il tutto affiancato da cambiamenti radicali nel proprio modo di vivere che, presumibilmente, dovranno protrarsi anche dopo l’emergenza sanitaria.

L’ultima lezione è una finestra sul futuro appena socchiusa, dalla quale l’autore tenta di mostrare al lettore un qualcosa che però ancora non può essere in alcun modo identificabile. Quali saranno le ripercussioni concrete su politica, società ed economia infatti è davvero troppo presto per raccontarlo o scriverlo in un libro.

A conclusione del testo, Krastev rimanda alle parole di José Saramago nel romanzo Cecità: secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono. Ciechi che, pur vedendo, non vedono.

La “perdita della vista” è una costante in ogni epidemia, ci sentiamo ciechi perché non l’avevamo vista arrivare e non abbiamo capito quanto stava accadendo intorno a noi. Per assurdo, anche la seconda ondata sembra aver colto tutti di sorpresa.

Per Saramago, le epidemie non trasformano la società, al contrario ci aiutano a vederle per quello che sono veramente. Èquindi doveroso e necessario riflettere accuratamente su ciò che abbiamo visto in tutti questi mesi.

Le lezioni di Ivan Krastev sembrano non voler presuntuosamente insegnare nulla ad alcuno, piuttosto invogliare a una riflessione generalizzata e collettiva su società, governi ed economie, sul presente e, sopratutto, sul futuro. E farlo in maniera ponderata. E seria.

L’autore non punta il dito e non cerca facili bersagli da incolpare, sembra solo intenzionato a capire. A meglio comprendere e, ove possibile, migliorare.

In un vortice mediatico dove tutti sembrano avere, a parole, la soluzione per qualsiasi problema, il libro di Krastev si distingue proprio per l’umiltà narrativa dell’autore e la sua capacità di mantenere lucidità ed equilibrio nonostante discorra di argomenti che interessano tutti, compreso se stesso.


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“La vera storia di Martia Basile” di Maurizio Ponticello (Mondadori, 2020)

16 lunedì Nov 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LaverastoriadiMartiaBasile, MaurizioPonticello, Mondadori, recensione, romanzo, romanzostorico

Durante il lockdown, un lasso temporale relativamente breve compreso tra i mesi di marzo e aprile 2020, solo in Italia sono state 5.031 le telefonate valide al numero di emergenza per vittime di violenza di genere, il 1522. L’Istat ha calcolato che si tratta del 73 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Le campagne di sensibilizzazione si moltiplicano a vista d’occhio e, parzialmente, si registrano sviluppi positivi, soprattutto nell’aumento del numero di denunce.

A guardali in assoluto questi dati lasciano molto perplessi. Ma lo stupore maggiore si prova nel momento in cui li si confronta con il passato, allorquando bisogna affermare che, tutto sommato, la condizione femminile nella società ha fatto passi da gigante. Anche se ovviamente tanto ancora c’è da fare.

Il punto però è che quello che a noi sembra assurdo in realtà è già un miglioramento. E questo è davvero difficile da concepire.

Non sono lontani i giorni in cui in Italia era legale il delitto d’onore, in cui il figlio maschio era l’unico e solo erede, in cui l’istruzione femminile era pressoché assente, in cui esisteva una netta distinzione tra i doveri femminili e quelli maschili… Purtroppo non è raro dover ascoltare ancor oggi visioni ancorate a detti pregiudizi ma il punto è un altro. È necessario e doveroso cambiare il paradigma culturale che fa della differenza di genere una questione di potere, di prestigio, di potenza, supponenza, supremazia e forza fisica e per fare ciò bisogna anche imparare dagli errori del passato.

«All’immenso coraggio delle donne»

È con queste parole che si apre al lettore il libro di Maurizio Ponticello che narra La vera storia di Martia Basile, una donna, poco più di una bambina in realtà, la cui vita è segnata da decisioni prese da un padre e un marito che neanche per un solo istante l’hanno considerata come persona. È una storia tragica e crudele quella di Martia Basile e, purtroppo, non è così rara come si vorrebbe credere, neanche al giorno d’oggi.

La vicenda di Martia Basile si presta particolarmente al racconto narrativo ma non è certo solo per questo che il romanzo di Maurizio Ponticello colpisce il lettore. È il taglio che l’autore ha scelto di dare all’intera vicenda, è il registro narrativo da lui accuratamente scelto che rendono il libro un ottimo romanzo moderno.

Nel racconto di Ponticello si fondono la Napoli e l’Italia intera di oggi con quella del passato, quel mai abbastanza lontano Seicento durante il quale bastava un nonnulla per bandire una donna e tacciarla come strega, per incolpare qualcuno di eresia, per ripudiare una donna che non aveva partorito figli maschi e giustiziarla pubblicamente allorquando tentasse di rifarsi una vita.

A lungo si è discusso sulla reale esistenza o meno di Martia Basile. L’autore dissipa ogni dubbio e, con la sua consueta precisione, racconta vicende di una Napoli antica i cui odori ancora si percepiscono tra gli stretti vicoli che rigano il centro storico e lo definiscono, pezzo dopo pezzo, come il reticolo di una carta geografica. Si scoprono curiosando tra i polverosi scaffali di archivi e biblioteche di cui Ponticello si dimostra sempre avido conoscitore e intenditore. Si animano in quei personaggi senza tempo, proprio come la città che ha dato loro i natali.

In più occasioni Maurizio Ponticello ha dato prova della sua capacità di ricerca e documentazione, della sua abilità nel cimentarsi in minuziose e dettagliate ricerche sul campo e da fonti documentali, elaborando poi il suo resoconto in libri la cui lettura risultasse sempre scorrevole e leggera per il lettore, ma questa volta sembra davvero che sia riuscito a superare se stesso nel modo in cui ha saputo raccontare una storia così potente e complessa e farlo in una maniera davvero eccezionale.


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Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa della Mondadori Editore e l’autore per la disponibilità e il materiale


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“I meccanismi dell’odio” di Eraldo Affinati e Marco Gatto (Mondadori, 2020)

02 venerdì Ott 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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EraldoAffinati, Imeccanismidellodio, MarcoGatto, Mondadori, recensione

Nella società attuale si assiste a un crescendo vorticoso di estremizzazioni e strumentalizzazioni che, non poco, hanno contribuito a ingenerare un clima di tensione e risentimento che spesso, troppo spesso, si concretizza in atti di violenza posti in essere da soggetti che, in fondo, si sentono anche legittimati a compierli essendo in linea con quanto letto, ascoltato oppure visto.

Eraldo Affinati e Marco Gatto, autori de I meccanismi dell’odio, ritengono necessaria una riflessione profonda in questo momento difficile e tormentato che si protrae da almeno venti anni, non solo in Europa. Una riflessione che si concentri più sui nodi irrisolti e sui grovigli non sciolti perché sono forse più importanti finanche delle ipotetiche soluzioni avanzate.

Il libro di Affinati e Gatto si compone di cinque distinte parti scritte, quasi per intero, nel tempo precedente l’esplosione della pandemia. Tuttavia, la Covid-19 è entrata a gamba tesa anche ne I meccanismi dell’odio e, nelle parti aggiunte, gli autori riportano molte riflessioni intorno ad essa.

Per la gran parte, in realtà, sono pensieri, attimi di vita, gesti… dai quali e nei quali gli autori hanno voluto cogliere un segnale, positivo o negativo, comunque un input che li ha aiutati a percepire la direzione verso cui gli italiani stanno andando.

Sono le disuguaglianze sociali il tema da cui partono Affinati e Gatto e intorno al quale costruiscono l’intera parte iniziale del testo. Ed è sempre mantenendo lo sguardo fisso su di esse che sembrano scrivere l’intero libro, o dialogo, come preferiscono indicare il loro scritto. In effetti le voci narranti sono due, quelle degli autori appunto, che si intervallano continuamente, come un dialogo, e ciò in genere non sempre è piacevole per chi legge. Nel libro in oggetto invece potrebbe anche essere stata una buona scelta. L’interruzione a ogni singolo blocco consente al lettore, infatti, di riflettere sulle riflessioni appena lette, perdonate la voluta ripetizione, e prendere quindi del tempo utile anche per assimilare informazioni o formulare considerazioni proprie.

Le disuguaglianze sociali ed economiche, lungi dall’attenuarsi, sono diventate pressoché insostenibili al punto che si è dovuto, per forza di cose, trovare dei responsabili per l’attuale situazione. Il perfetto capro espiatorio è stato individuato nei migranti verso i quali ogni possibile colpa è stata indirizzata. Responsabilità perlopiù presunte che sono state estremizzate e strumentalizzate anche e sopratutto politicamente per veicolare odio, rancore, livore e risentimento delle masse.

Il lungo discorso portato avanti dagli autori nel testo trova la sua conclusione nell’ultima parte dedicata all’esposizione di una condizione-progetto nuova non tanto nei contenuti e nelle idee quanto nella sua realizzazione. Per avere una società diversa bisogna avere cittadini educati in maniera differente. Per fare ciò è necessario partire dalla scuola, istituto principe dell’educazione e formazione delle giovani menti che appartengono ai futuri cittadini.

Quello che propongono Affinati e Gatto, entrambi docenti, è un’esperienza pedagogica innovativa, anche se il termine che meglio sembra identificarla è: alternativa. In quanto per fare meglio a volte non è necessario o non serve innovare nel senso di cambiare tutto, basta o basterebbe anche solo procedere in maniera diversa, differente, alternativa appunto.

Essere insegnante oggi può sembrare un mestiere completamente diverso rispetto al passato eppure, per Affinati, ci sono dei punti fermi immutati, primo tra essi il nocciolo pedagogico. Con tutte le falle, i ritardi, le difficoltà… e qualsiasi negatività si voglia includere, la scuola ogni settembre riparte e lo fa inglobando in sé tutti i giovani e le loro menti ed è bello pensare, come fa l’autore, che in essa ognuno impari a pensare per diventare se stesso. O almeno possa provare a farlo.

Oggi la scuola serve, o dovrebbe servire, anche a diventare cittadini migliori, civili, sociali, magari anche globali, eticamente parlando. Capaci di vedere i fenomeni migratori con occhi che vadano ben oltre razzismi e campanilismi vari, come auspica lo stesso Gatto nel testo.

Ne I meccanismi dell’odio di Eraldo Affinati e Marco Gatto i problemi e le criticità concrete sono molto più ben caratterizzate delle ipotetiche soluzioni. Ciò è voluto ma è anche necessario, perché fin quando non si comprende appieno il problema non ci potrà mai essere una valida soluzione.


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“Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina” di Maurizio Pagliassotti (Bollati Boringhieri, 2019) 

“L’immigrazione in Italia da Jerry Nasslo a oggi” a cura di Valerio De Cesaris e Marco Impagliazzo (Guerini e Associati, 2020) 

Ognuno guarda il mondo convinto di esserne il centro: Razzismi e Identità. “Classificare, separare, escludere” di Marco Aime (Einaudi, 2020)

Perché abbiamo lasciato che ‘i nostri simili’ diventassero semplicemente ‘altri’? “Somiglianze, Una via per la convivenza” di Francesco Remotti (Editori Laterza, 2019)


 

 

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“Questa è l’America” di Francesco Costa (Mondadori, 2020)

04 martedì Feb 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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FrancescoCosta, Mondadori, QuestaèlAmerica, recensione, saggio

Questa è l’America raccontata da Francesco Costa: un Paese la cui cultura «preferisce da sempre alla prudenza una certa ingenua e avventuriera incoscienza», soprattutto quando si tratta di «inseguire qualche comodità in più».
L’America descritta nel libro di Costa in realtà sono solamente gli Stati Uniti che l’autore sviscera nei loro “segreti” più intimi, narrando di vicende umane diffuse ma spesso dimenticate o peggio ignorate. Casi umani che sono il derivato o la conseguenza diretta, se si preferisce questa espressione, della cultura che li ha prodotti.
Un Paese i cui abitanti sembrano inseguire con la medesima forza d’animo gli ideali del liberismo, quelli del patriottismo, il famigerato sogno americano e le promesse di pubblicità più o meno ingannevoli che siano. Fa tutto parte del medesimo circuito, un sistema noto appunto come America.

Una cultura, quella americana, o per meglio dire statunitense, che ha saputo “vendersi” al mondo intero come il non plus ultra, il top dell’evoluzione, della libertà, del progresso e via discorrendo. Ma che, al contempo, ha saputo e sa celare al medesimo mondo i suoi lati più oscuri. Le falle di questo enorme sistema che racchiude in sé lo spettro del mondo intero: potere e denaro concentrati nelle mani di quei sempre meno numerosi che “ce l’hanno fatta” versus il resto della popolazione che fatica a rimanere a galla.
Il Paese dei paradossi. Questo sembrerebbe a conti fatti l’America descritta da Costa. Una realtà molto all’avanguardia nella ricerca anche in campo medico che conta una sempre maggiore fetta di popolazione che cade nella rete della dipendenza dai farmaci, a causa proprio di quella certa ingenua e avventurosa incoscienza di cui parla l’autore.

Vero e falso, reale e inventato, autentico e posticcio sembrano essere i termini opposti che meglio definiscono l’America per Costa e, in particolare, il Nevada famoso in tutto il mondo per Las Vegas e l’Area 51.
Paradossi incomprensibili almeno quanto le idee degli stessi americani. Alle ultime elezioni presidenziali il popolo americano, quello dislocato lungo gli immensi territori che vanno a comporre gli Stati Uniti d’America, ha votato il candidato meno comprensibile, agli occhi del resto del mondo, e anche di quelli della rimanente America. Un candidato con un programma e delle idee che erano l’esatto contrario di quelle del presidente uscente. Obama aveva la ferma intenzione di cambiare il Paese, renderlo più equo e giusto. Evidente che questo a una ben ampia fetta di popolazione non sta affatto bene, piuttosto il contrario, ovvero allontanare ulteriormente l’ingerenza del governo centrale dalla vita e dagli affari degli americani dei singoli Stati.

Leggendo le storie di vita americana riportate da Francesco Costa in Questa è l’America si viene ben presto a delineare quello che è il quadro reale della vita degli americani, veri non cinematografici. Quelli che ne sono i comportamenti, gli ideali, i valori. Sprezzanti e deviati, non tutti ovviamente. La cui filosofia di vita sembra ispirasi sempre più a un estremo o estremizzato individualismo, un egoismo mascherato ma neanche poi troppo.
Atteggiamenti, comportamenti, sentimenti e ambizioni che spopolano ormai anche nel resto di quella parte di mondo definita occidentale e che continua a vedere negli Stati Uniti d’America un faro.

Trasversalmente, Francesco Costa tocca tutti i principali nodi della cultura statunitense e, di rimando, quella occidentale. Dal servizio sanitario all’istruzione, dalla politica all’economia reale, dalle attività sportive come caccia e pesca alla violenza, dall’ideologia agli estremismi e lo fa raccontando storie di vita quotidiana cui aggiunge riflessioni personali e riferimenti spazio-temporali i quali, più di una volta, si presentano come veri e propri resoconti storici. E lo fa con uno stile narrativo semplice, lineare, anch’esso quotidiano, al pari delle storie che racconta. Evita l’autore un linguaggio politico o economico e, al contempo, sembra volutamente tenersi alla larga anche da uno stile prettamente giornalistico che di sicuro gli sarebbe più congeniale.

Avendo scelto di raccontare la vita degli americani, Costa sembra quindi aver deciso di farlo con un linguaggio che più si avvicinasse al vissuto narrato. Una soluzione che si è dimostrata molto efficace e che ha per certo contribuito a rendere il libro ancor più interessante.
Un libro che si racchiude benissimo nel titolo perché, dopo averlo letto, si è tentati di esclamare davvero: Questa è l’America! E farlo dando all’esclamazione la medesima intonazione e lo stesso significato che Pirandello voleva diffondere con il titolo della sua opera teatrale Così è (se vi pare). E al lettore di Costa pare proprio che così è l’America.


Articolo originale qui


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“Fabbrica Futuro” di Marco Bentivogli e Diodato Pirone (Egea-UniBocconi, 2019) 

All’alba di un nuovo mondo: l’Occidente, il sé e l’altro 

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019) 


 

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“La mattina dopo” di Mario Calabresi (Mondadori, 2019)

02 mercoledì Ott 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Lamattinadopo, MarioCalabresi, Mondadori, recensione

Mario Calabresi ha ricoperto un ruolo professionale che gli ha reso molta notorietà, ma è in possesso di un cognome la cui fama lo precede. Figlio del commissario Luigi, assassinato da un commando alle 9:15 del 17 maggio 1972 a pochi metri dalla sua abitazione, Mario è stato per tre anni direttore di «La Repubblica», fino a febbraio 2019.
Non ha ancora compiuto cinquanta anni ed è già in possesso di una lunga e articolata carriera. Le occasioni professionali non gli sono mancate in passato e, presumibilmente, non gli mancheranno neanche in futuro. Eppure ha vissuto in maniera molto tragica il repentino allontanamento dalla carica di direttore del quotidiano nazionale. Una decisione che, a suo dire, lo ha colto di sorpresa. Inaspettata e, stando a quanto racconta nel libro, devastante.

Avendo molto più tempo a disposizione, quello che egli indicata come “vuoto”, lo dedica a fare tutte quelle cose a lungo rimandate e a scrivere un libro. Dichiara di non potersi permettere “un tempo vuoto” perché il dolore provato nel sentire che quello che aveva sempre fatto e pensato di fare per sempre era all’improvviso sfumato, sparito, finito.
Rincara ulteriormente la dose quando sostiene che non esiste alcuna gradazione del dolore, della sofferenza e del vuoto. Non si può fare un paragone né una scala del dolore. E ne elenca le più comuni declinazioni: la prima delusione d’amore, una bocciatura, un fallimento o licenziamento, la morte di un congiunto o di un amico…
L’impressione è che, forse, l’ex direttore Calabresi confonda dolore e sofferenza con i sintomi della malinconia o depressione come dir si voglia. Solo in quest’ottica le sue parole acquistano maggiore senso. Una depressione che può originarsi da uno dei suddetti dolori o esserne pregressa. La malinconia, quella sì che può avere la medesima intensità, qualunque cosa accada, anche in maniera indiretta o trasversale a chi ne soffre.

Per arginare o prevenire il “dolore da vuoto”, Calabresi già la mattina dopo il licenziamento parte per l’estero, poi ritorna in Italia e successivamente riparte ancora, si dedica a tutte quelle visite e commissioni rimandate a causa dei troppi impegni e scrive anche un libro. La mattina dopo che uscirà con Mondadori ai primi di settembre è una sorta di romanzo di formazione scritto per ricordare a se stesso e agli altri i traguardi raggiunti, la carriera notevole, il superamento di tanti momenti difficili. Utile forse più come mantra personale per l’autore che per il lettore. Si raccontano per esteso le visite all’estero agli amici di vecchia data, con tanto di dettagliata descrizione del momento in cui li ha conosciuti. Aneddoti della sua infanzia. Il ricordo dei nonni e dei luoghi natii. La carriera di giornalista, corrispondente e direttore. L’assassinio del padre e l’incontro con l’omicida. Ricordi vicini e lontani che spaziano dalla mente dell’autore alla carta stampata nel fulgido tentativo di riempire il vuoto profondo dovuto all’eccesso di tempo a disposizione. A causa del licenziamento.

Un libro scritto in breve periodo, di getto, d’impulso, come si evince anche dallo stile narrativo utilizzato. Una scrittura semplice, priva di periodi e termini ricercati, con una sintassi e un piglio quasi colloquiale e rivendicativo.
L’autore sostiene nel libro di aver sempre ben guardato alla competenza professionale e, ogni qual volta gli è capitato di incontrarla, incarnata in diverse persone che praticavano le più svariate professioni, l’ha sempre apprezzata.
La competenza potrebbe anche essere intesa come la capacità che un vero professionista ha di riempire i vuoti temporali con azioni, proposte, decisioni, azioni di qualità. Operazioni propositive che possano avere anche una qualche utilità sociale.
Per esempio, ma questa è soltanto l’umile opinione di chi scrive, un grande giornalista che afferma di essere stato improvvisamente e ingiustamente rimosso dall’incarico dirigenziale occupato potrebbe “sfruttare” quanto accaduto per rendere pubbliche tutte quelle dinamiche ingiuste viste e vissute nel proprio campo professionale, potrebbe essere o diventare la autorevole voce di chi staziona sui gradini inferiori della piramide professionale e subisce ingiustizie magari anche peggiori ma non ha modo di farsi ascoltare e, oltretutto, non può neanche permettersi il lusso di viaggiare e pubblicare libri per colmare quel vuoto che non è solo di tempo ma anche economico. Potrebbe diventare il vero e concreto volto di un cambiamento per certo necessario oppure scegliere di riempire i vuoti come meglio crede in attesa magari di una congrua e alternativa offerta professionale. Sono scelte e come tali vanno comunque rispettate indipendentemente dalle personali opinioni che ognuno ha o può avere al riguardo.

Ma questa è un’altra storia, di fantasia con ogni probabilità. Quella raccontata da Mario Calabresi ne La mattina dopo è quella di un uomo che si è sentite ferito dal trattamento professionale subito e che ha cercato, nelle amicizie nei ricordi e nella scrittura, conforto per il torto subito e il danno psicologico che ne è derivato.


Articolo originale qui


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Mistero e misoginia in “Sempre più vicino” di Raul Montanari (Baldini+Castoldi, 2017) 

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