Se non ci fa più alcun effetto interagire con un chatbot, dovrebbe invece scuoterci sapere che non c’è più ambito umano che non sia colonizzato da sistemi automatizzati – dall’istruzione al lavoro, dal bene pubblico ai diritti, dall’economia alla salute – e che il libero arbitrio forse non esiste più. È questo il nodo centrale dell’analisi condotta da Madhumita Murgia inEssere umani (Neri Pozza, 2025). Un libro non sull’intelligenza artificiale ma sugli esseri umani, sulla pervasività dell’IA sull’agentività umana, sul nostro essere umani che viene costantemente trasformato in dati vendibili e acquistabili. E così che le nostre vite vengono quotidianamente vendute, svendute e rimodellate.
I data broker sono delle società che raccolgono dati sulla vita online delle persone e li trasformano in profili vendibili. Le aziende di maggior valore oggi, genericamente indicate come Big Tech, hanno guadagnato secondo il medesimo principio: trasformando le nostre vite in nuvole brulicanti di dati in vendita.
Con l’aiuto di una piccola start up pubblicitaria, l’autrice è riuscita a rintracciare il suo profilo, ovviamente anonimo ma agevolmente riconoscibile. La versione di sé stessa anonimizzata era un dossier di circa dieci pagine compilate da un’agenzia di rating che opera anche come broker di dati.
Google, Meta e Amazon hanno raffinato le strabordanti riserve di dati che si riversano sulle loro piattaforme, generati da miliardi di persone in tutto il mondo, e, per fare soldi, hanno imparato a estrarre i dati e usarli per vendere raccomandazioni, contenuti e prodotti personalizzati e mirati. L’erede del business dei big data è una singola tecnologia: l’intelligenza artificiale. Negli ultimi anni il significato dell’espressione è cambiato, ma essenzialmente l’IA è un software statistico complesso applicato alla ricerca di schemi e relazioni in grandi dataset del mondo reale.
La questione di come allineare il software di IA ai valori umani è al centro del dibattito attuale – insieme alla questione di quali siano questi valori universali.
L’IA generativa è in grado di produrre testi scorrevoli, immagini e codici indistinguibili dalle creazioni umane, che vengono trasmessi senza filtri in tutto il mondo, influenzando profondamente pensieri e convinzioni. Si usano sistemi di IA per assumere personale, prendere decisioni in materia di investimenti, per consigliare alle persone come calmare l’ansia o diagnosticare disturbi. Ma quale morale è incorporata nel software? È un interrogativo evidenziato dall’autrice e indagato dai leader religiosi.
Sottolinea Murgia quanto il motto “innovazione responsabile” non sia mai stato il mantra della Silicon Valley dove, piuttosto, vigeva la regola indicata da Mark Zuckerberg “muoviti veloce e spacca tutto”. Il costo elevato di queste forze dirompenti è diventato evidente soltanto negli ultimi anni, basti pensare al ruolo dei social media nella manipolazione elettorale, nelle teorie del complotto e nei disturbi mentali degli adolescenti, all’impatto delle piattaforme di trasporto e consegna tramite app sui diritti dei lavoratori e alla perdita collettiva della privacy online.
E così l’autrice raccontando di sé stessa, di una poetessa britannica, di un rider di Pittsburg, di un attivista cinese in esilio, di una rifugiata irachena a Sofia e di un frate francescano a Roma, racconta in realtà dell’umanità tutta di questo ombroso Terzo Millennio in cui le luci abbaglianti del progresso a ogni costo rischiano di oscurare proprio ciò di cui avremmo più bisogno: il nostro “essere umani”.
Il libro
Madhumita Murgia, Essere umani. L’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2025.
Traduzione dall’inglese di Simonetta Frediani.
Titolo originale: Code Dependent. Living in the Shadow of AI.
Un romanzo molto intenso, quello di Patanè, ambientato nel cuore di Napoli, a Rione Sanità, e basato su una storia vera. L’incipit è legato al ritrovamento casuale di sessantasei lettere che Elvio ha scritto a sua sorella, ovvero la madre dell’autore, tra il 1953 e il 1965.
Le lettere svelano uno zio diverso da quello conosciuto dall’autore, o meglio raccontano di un suo lato fino ad allora ignorato. Attraverso la lettura di questo carteggio Patanè scopre l’anima di suo zio Elvio, i desideri e le pulsioni provate da ragazzo, la scoperta prima e la consapevolezza poi di essere attratto dagli uomini e di non essere solo in questa scoperta. Inizia così per lo zio un lungo peregrinare alla ricerca del vero sé stesso, un arduo viaggio che lo vedrà vittorioso alla meta allorquando incontra la sua metà, una persona di cui apprezza molto la virtù del suo modo di vedere le cose. Eppure Elvio sa benissimo di non poter aprire il suo cuore ad alcuno, di non poter raccontare a voce alta i suoi sentimenti, di non poter essere pienamente sé stesso: la famiglia da un lato e la società dall’altro tarpano le sue ali di libertà. Anche durante il dopoguerra la situazione non è cambiata molto, la società è rimasta perbenista ed egli, non sentendosi più a casa, decide di partire per un viaggio in Danimarca motivato anche dalla storia di Christine Jorgensen e la sua riassegnazione di sesso del 1952.
Le delusioni d’amore hanno segnato Elvio ma, soprattutto, è stato l’allontanamento dalla famiglia che lo ha smarrito in un mondo senza quei necessari punti di riferimento, o meglio di appoggio, di sostegno e conforto. Ma i suoi familiari lo hanno lasciato solo, lo hanno isolato e anche incolpato di aver “traviato” lo stesso autore, di averlo “contagiato”. Evidente in questi passaggi del libro il peso dei pregiudizi e dei dogmi di una società ancorata a vecchi retaggi culturali e sociali.
Il forte legame che ha unito zio e nipote traspare in ogni pagina del libro il quale sembra essere stato scritto proprio per rimarcare il grande sentimento e l’affetto che li univa, come i tanti interessi che li accomunavano: dall’omosessualità all’amore per la cultura in ogni sua espressione. Lo stile narrativo di Patanè in Una piccola goccia d’inchiostro sembra essere il risultato diretto di questo affetto e di questa affinità spirituale. È un libro scritto con rispetto, come il profondo rispetto che l’autore ha avuto nei confronti di suo zio.
A fare da sfondo all’intero romanzo c’è la città di Napoli e, in particolare, il Rione Sanità cui l’autore dimostra di essere molto legato, fors’anche perché visitandolo riemergono i ricordi di lui bambino, del tempo in cui tutti i sentimenti da lui narrati si sono formati e poi evoluti. Le vicende e le vicissitudini vissute da Elvio vengono affiancate dal racconto dei tanti che hanno avuto un simil destino. Racconta dei luoghi di incontro all’aperto e al chiuso, del bordello per gli incontri intimi, delle paure per le aggressioni subite o paventate, dei timori verso la polizia e le denunce per atti osceni o adescamento, per arrivare al terrore più grande: la gogna, l’essere pubblicamente svergognato. L’imbarazzo di essere additato e giudicato semplicemente per una scelta di natura sessuale.
Oggi sembra che tanti passi in avanti sono stati compiuti, rispetto agli anni Quaranta del secolo scorso, eppure ancora in tanti, in troppi, sono costretti a dare spiegazioni e giustificazioni per delle scelte che dovrebbero essere libere e personali. In questo il libro rappresenta un ulteriore tassello verso il progresso, una piccola goccia d’inchiostro utile a proseguire il cammino verso la reale pari dignità sociale ed eguaglianza dinanzi alla legge (e alla società civile, ndr), senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, come recita l’articolo 3 della Costituzione. E anche se nella Costituzione, entrata in vigore nel 1948, non viene mai esplicitamente citato l’orientamento sessuale, oggi, nel 2025, dovrebbe essere chiaro e cristallino che essa riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2), laddove per il generico uomo dovremmo oramai essere tutti in grado di leggere “persona”, indipendentemente dal sesso biologico e dall’orientamento sessuale di essa.
Il libro
Vincenzo Patanè, Una piccola goccia d’inchiostro, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2025.
Come si formano le identità politiche? Cosa collega le identità personali, individuali, alle identità di gruppo? Quale rapporto c’è tra le identità politiche, i gruppi, le istituzioni? Quesiti che possono essere soddisfatti solo mettendo in relazione le conoscenze acquisite dalla psicologia scientifica in tema di identità, individuali e collettive, con l’analisi istituzionale, con quanto si sa sulla genesi, il funzionamento e le trasformazioni delle organizzazioni e delle istituzioni politiche. Lo scopo che Panebianco si è prefisso nel libro è mettere a fuoco, nei suoi vari aspetti, un fenomeno così complesso in modo tale che risulti evidente la necessità per gli studiosi di superare gli steccati e le barriere disciplinari.
L’argomento del libro di Panebianco è il rapporto fra le identità politiche (individuali e collettive) e le dinamiche istituzionali: l’unico modo per poterlo affrontare è attingendo a una pluralità di tradizioni disciplinari. Nel corso del Novecento si affermano le specializzazioni disciplinari e si consolidano confini e barriere tra esse. Ma, sottolinea l’autore, non tutti i pesci restano impigliati nella rete. Diversi sono gli studiosi i quali, anche in tempi recenti, hanno condotti studi che avvicinavano due o più discipline e lo stesso Panebianco basa la sua indagine sulla necessità di erodere il confine tra le scienze sociali e, più precisamente, fra le scienze del macro (soprattutto scienza politica e sociologia) e la psicologia, nella ferma convinzione che ai politologi sia utile fare ricorso alle conoscenze acquisiste dalla psicologia per comprendere vari aspetti dei processi politici, e che agli psicologi sia parimenti utile tenere conto dei contesti istituzionali per spiegare credenze, atteggiamenti e comportamenti individuali e di gruppo.
L’identità è il tratto qualificante di una persona, riconoscibile proprio grazie a determinati caratteri. I valori provengono da un contesto diverso dallo spazio intimo in cui la persona coltiva la propria identità. C’è, quindi, il rischio che l’adesione a certi valori, ove non sia il frutto di una spontanea espressione di volontà, finisca col mortificare proprio quella libertà e autonomia dalle cui manifestazioni concrete dipende il progressivo affinamento dell’identità personale. Detto altrimenti, c’è il rischio che la persona debba piegare o, quanto meno, adattare la propria identità alla supremazia coattiva dei valori, rinunciando a una parte più o meno rilevante e cospicua di libertà e autonomia. Importante è, quindi, l’individuazione di un percorso metodologico, costruito intorno alla centralità della persona, che permetta ai “valori” di concorrere al processo di graduale definizione dell’identità personale senza che gli stessi attentino alla integrità dell’indefettibile e irretrattabile autonomia della persona stessa.
La persona può essere considerata quale entità che si muove su tre piani: quello psicobiologico (dimensione individuale); quello comunitario (dimensione sociale); quello istituzionale (dimensione politica). Il primo piano riguarda i rapporti della persona con sé stessa, il secondo i rapporti con gli altri consociati, il terzo i rapporti con l’autorità. Per cui si ipotizza che l’identità personale scaturisca dalla combinazione di identità individuale, identità sociale, identità politica1.
La domanda ora è se e in quale misura lo Stato, che incarna l’autorità e il potere, sia legittimato a concorrere a definire l’identità personale, agendo su quel segmento della stessa indicato come identità politica.
Lo Stato e la persona, pur avendo molteplici occasioni di contatto e di interazione, dovrebbero muoversi su piani distinti quanto alla identità personale2.
La politica, sottolinea Panebianco, ha due peculiarità: la prima è la territorialità – all’universalismo, almeno tendenziale, dell’economia o della cultura, si contrappone il particolarismo (territoriale) della politica -, la seconda è l’uso della forza – peculiarità connessa alla possibilità del ricorso alla violenza fisica.
La politica è, prima di tutto, un gioco contro personam3, implica sempre un conflitto. I rapporti tra governanti e governati sono dominati dalla «paura». La paura dei governati di essere oppressi dai governanti, la paura dei governanti che i governati si ribellino4.
Per cui la società non è soltanto un luogo di potenziale collaborazione tra le parti: è un contesto in cui si consumano ingiustizie, antagonismi, diseguaglianze, divisioni5.
È tuttavia doveroso fare una distinzione tra Stato liberale e Stato etico. Accedendo alla prospettiva liberale è giocoforza ammettere che l’identità personale sia il frutto specifico di un esercizio quotidiano di libertà e di autonomia. Se il perno intorno al quale ruota questa filosofia è la libertà, allora ciò che connota in modo esclusivo la persona stessa rappresenta il confine che l’autorità non può mai oltrepassare. Per un liberale, lo Stato garantisce la pace e l’ordine, distribuendo diritti e doveri, autorizzando le istituzioni all’uso della forza per ripristinare la legalità violata, presidiando la sovranità interna contro il rischio di ingerenze e aggressioni da parte di altri Stati. Stando così le cose, appare chiaro che l’opera di progressivo affinamento dell’identità personale non possa che essere un fatto individuale, una questione di coscienza propria e incoercibile della persona. Attraverso l’equilibrio così raggiunto dei diritti, lo Stato deve porre i cittadini nella condizione di educare sé stessi6. Il che significa conformare la propria esistenza all’identità che ogni persona possiede in via esclusiva. Forse, l’unico contributo che lo Stato offre al processo di emersione dell’identità personale è la cura verso la libertà degli altri. La filosofia liberale, dunque, è ostile a ogni impostazione organica dell’etica che subordini la persona a entità superiori, a cominciare proprio dallo Stato.
All’opposto si muove lo Stato etico che ha visto in Hobbes prima e in Hegel poi i suoi più autorevoli cultori. Per Hegel, lo Stato è sostanza etica consapevole di sé, quale unità e fusione di moralità e diritto astratto. Esso, dunque, assurge a fine supremo e arbitro assoluto del bene e del male.
Tra queste due contrapposte concezioni si colloca, però, la storia: un lungo e multiforme tragitto che ha visto alternarsi momenti di dominio tangibile della dimensione comunitaria a frangenti nei quali lo Stato, e l’autorità da esso incarnata, hanno assunto sembianze preponderanti sino a mettere in secondo piano la stessa autonomia sociale7.
L’identità del soggetto non si fonda però su un’esclusiva e onnicomprensiva visione del mondo, che fornisce indicazioni tanto dal punto di vista valoriale che per l’agire quotidiano, ma si costruisce attraverso pluriappartenenze, con la conseguenza del non poter più parlare di assolutizzazione dell’identità sociale8. Le condizioni di vita tipiche della società post-moderna e globale consentono agli attori sociali una maggiore libertà nella definizione della propria posizione sociale e successivi riadattamenti9. La loro quotidianità appare infatti caratterizzata da continui e profondi processi di riorganizzazione del tempo e dello spazio, differenziazione, disaggregazione che rendono le interazioni sociali sempre più complesse e interconnesse, fornendo all’individuo molteplici possibilità di scelta e introducendo una costante dimensione di incertezza10.
C’è poi un ulteriore aspetto trattato da Panebianco, ovvero in che modo l’insieme di relazioni politiche convenzionalmente definito “politica internazionale” condiziona le identità collettive e, a sua volta, ne è condizionato.
Le democrazie europee attraversano un momento di forti difficoltà. Per una molteplicità di cause. Ne Vecchio Continente stato nazionale e democrazia sono due facce della stessa medaglia. Molte delle difficoltà che oggi sperimentano le democrazie europee sembrano derivare da uno scollamento, e dalle connesse tensioni, fra lo stato nazionale e il regime politico democratico. Stato nazionale e democrazia in Europa sono messe sotto pressione a causa di tre sfide e del loro intreccio: gli effetti dell’accresciuta interdipendenza internazionale; le migrazioni e la conseguente trasformazione degli stati nazionali europei in stati multietnici; le minacce alla sicurezza. La pressione concomitante di queste tre sfide provoca riallineamenti e cambiamenti nelle identità politiche.
Panebianco descrive l’attuale situazione europea come la sovrapposizione di un’arena hobbesiana militare e un’arena hobbesiana civile. I cittadini hanno perso i punti di riferimento della loro identità politica “tradizionale” e altalenano tra posizioni favorevoli alla globalizzazione e posizioni contrarie alla globalizzazione, tra posizioni europeiste e atlantiste e anti-europeiste e anti-atlantiste, tra favorevoli all’immigrazione e contrari all’immigrazione.
Vacillando l’identità collettiva ne risente giocoforza anche quella individuale e qui si ritorna al punto centrale dell’indagine dell’autore: la necessità di un approccio multidisciplinare per comprendere innanzitutto quanto sta accadendo e tentare poi di trovarne le soluzioni.
Il libro
Angelo Panebianco, Identità e istituzioni. L’individuo, il gruppo, la politica, Il Mulino, Bologna, 2025.
1Q. Camerlengo, Valori e identità: per un rinnovato umanesimo costituzionale, in Consultaonline, 15 giugno 2022.
8F. Crespi, Le identità distruttive e il problema della solidarietà, in L. Leonatini (a cura di), Identità e movimenti sociali in una società planetaria, Guerini, Milano, 2003.
9L.M. Daher, Che cos’è l’identità collettiva? Denotazioni empiriche e/o ipotesi di ipostatizzazione del concetto, in SocietàMutamentoPolitica, Firenze University Press, Firenze, vol. 4, n. 8, 2013.
10A. Giddens, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994.
La democrazia non gode di buona salute. Sono molti i fattori che ne stanno erodendo le fondamenta e che mettono in serio pericolo la tenuta delle istituzioni. Non si tratta di una questione tecnica, lontana dal sentire della gente: è un problema che tocca da vicino la nostra vita quotidiana, la nostra società, minando il futuro di ciascuno di noi. Fornaro racconta dei quattro silenziosi “tarli del legno” che stanno scavando nel tessuto vivo delle democrazie: le diseguaglianze sempre più marcate (economiche e non solo), la perdita di memoria storica, l’uso spregiudicato delle fake news con il conseguente avvelenamento delle fonti della conoscenza e la mancata fiducia nel futuro.
L’autore invoca una difesa quotidiana e a oltranza della democrazia, per la difesa di quanto faticosamente raggiunto dopo il fascismo e per scongiurare il rischio di scivolamento verso forme di democrazia illiberale.
È importante partire dall’analisi del concetto stesso di democrazia e dal significato che le viene comunemente attribuito. Se la si vuol considerare come il governo del popolo allora non si può parlare di crisi perché ciò è sempre stato e sempre sarà un ideale irrealizzabile. Piuttosto intenderla come una formula di giustizia: un criterio per distribuire un bene, il potere politico, secondo il voto degli elettori1.
Uno dei punti su cui l’autore maggiormente si sofferma è l’astensionismo elettorale, da lui ritenuto, seguendo la scia dei pensatori europei, una grande criticità che comporta un elevato rischio di delegittimazione della democrazia.
Dei quattro “tarli” da lui indicati il più insidioso è la perdita di memoria storica, lesiva non solo per il presente, che diviene incomprensibile, ma soprattutto per il futuro. L’oblio della memoria che preannuncia l’eclissi del futuro, una contraddizione che ci induce a vivere in un eterno presente. Non si riesce più a comprendere la complessità della contemporaneità e la necessità di avere un approccio critico.
I quattro silenziosi “tarli del legno” che agiscono indisturbati da anni ormai producono, per Fornaro, una polvere bianca rappresentata dagli astensionisti. In Italia come in tutta Europa questi appartengono, per l’autore, in maggioranza al ceto medio-basso, con un basso livello di istruzione, e con una percezione dello Stato distante da interessi e problemi. Si sentono esclusi e demotivati. Marginali, come le aree dove vivono. Più alto infatti risulterebbe l’astensionismo nelle periferie rispetto al centro. Nelle aree montane e rurali rispetto al capoluogo della provincia. Un ritorno alla marginalità sociale ed economica che è evoluta in un risentimento che vede nell’astensionismo una forma di protesta.
Il non voto sfida la democrazia nella misura in cui costituisce una critica, nemmeno tanto velata, ai suoi attori e alle sue procedure. Astenendosi, gli elettori intendono ripagare i governanti con la loro stessa moneta, le cui due facce sono l’indifferenza e l’ostilità. Gli astensionisti sono un popolo più nomade che stanziale, la cui composizione è alquanto mutevole. I fattori che vanno a incidere, di volta in volta, sull’astensionismo sono molteplici e svariati ed è proprio il peculiare mix di questi fattori che spiega, per ogni elezione, quante e quali persone si recheranno alle urne. Sempre più spesso, però, questo mix produce una scarsa affluenza. Il problema che ne deriva è che se la soglia della partecipazione si abbassa più di un tanto, l’astensionismo sembra destinato ad avvitarsi su se stesso. Se a votare è una minoranza di elettori, è evidente che anche il senso di doverosità del voto, vero argine all’astensione, prima o poi verrà meno2.
La tesi espressa dall’autore è che il rischio reale non è un ritorno al passato, alle dittature del secolo scorso, bensì un andare incontro alle cosiddette “democrature”, forme di governo nelle quali non viene messo in discussione l’impianto generale della democrazia ma solo l’uso che delle sue strutture se ne fa. Una democrazia illiberale nella quale chi vince ritiene di avere pieno accesso e possesso per l’intera durata del mandato senza preoccuparsi minimamente degli equilibri politici e di potere.
La democrazia di derivazione liberale, o democrazia costituzionale, è una variante della classe “democrazia” o “Stato democratico” nella sua evoluzione storica. Si tratta del contemperamento tra diverse componenti – liberale, democratica e sociale – riflesse in una specifica cornice costituzionale che ha avuto un’espansione continua a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Tale evoluzione ha prodotto un risultato che ha consentito per oltre 70 anni alle democrazie occidentale di costituire un modello da esportare in altre aree d’Europa e del globo al termine dei regimi autoritari o socialisti e che è riflesso nei requisiti della condizionalità democratica europea. Tuttavia, la divaricazione tra profilo liberale e profilo democratico torna all’attenzione della dottrina nel momento in cui la componente liberale (in termini di divisione dei poteri, contrappesi contro-maggioritari e libertà fondamentali) viene confutata nelle versioni demagogiche e populiste o iper-maggioritarie della democrazia3. Già Sartori chiariva bene la diversa origine dell’ideale liberale e di quello democratico che, nella seconda metà del XIX secolo, si sarebbero fusi e confusi4. Gli equivoci deriverebbero dal fatto che, per indicare la democrazia, a volte si usa il termine “liberal-democrazia” (riversando nella democrazia tutti gli attributi del liberalismo) e altre solo “democrazia” (divaricando i due contenuti). Nel primo caso si lega il concetto di democrazia a quello di “governo costituzionale”5.
La tendenza emergente è che alcune “democrazie liberali” stiano diventando sempre meno democratiche e sempre meno liberali, proprio mentre alcuni regimi autoritari e semi-autoritari stiano diventando ancora più autoritari. La normalizzazione del fenomeno, dovuta anche a un aumento del sentimento di disaffezione verso le istituzioni democratiche, di un crescente sostegno a interpretazioni autoritarie di governo e la sua espansione in diverse aree del mondo, sta portando alcuni sistemi costituzionali a mutare in direzione di forme light di democrazia, che mettono da parte la tutela e la protezione dei diritti e delle libertà delle persone. In Europa, per esempio, insieme all’Ungheria è emblematico anche il caso della Polonia, che ha subito dei profondi cambiamenti da quando è stata ammessa nell’UE. Al momento dell’ammissione, aveva garantito il rispetto dei principi della “democrazia liberale”, mentre ora si assiste a una sottomissione progressiva del potere giudiziario all’organo esecutivo6.
Per Fornano questi nuovi nemici della democrazia sono più subdoli di quelli del secolo scorso perché non agiscono con attacchi diretti, per esempio alla costituzione, ma operano indirettamente, sminuendo l’antifascismo o ridimensionando gli attacchi ripetuti alla libertà di stampa.
Per l’autore è tempo di agire e di essere risoluti come i silenziosi quattro “tarli del legno” affinché si torni ad avere fiducia nella politica e nelle istituzioni democratiche e non si cada nella trappola della demagogia.
La politica e le istituzioni democratiche hanno quindi il precipuo dovere di porsi nella condizione di meritare la piena fiducia dell’elettorato e dei cittadini tutti. Coerenza, credibilità e affidabilità potrebbero risultare essere la migliore arma contro la sfiducia e l’astensionismo. L’urlo silenzioso delle urne vuote è un boomerang che attacca il presente, intacca il futuro e cancella gli sforzi di un passato che mai andrebbe dimenticato.
Il libro
Federico Fornaro, Una democrazia senza popolo. Astensionismo e deriva plebiscitaria nell’Italia contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino, 2025.
1M. Barberis, L’incanto del mondo. Un’introduzione al pluralismo, Meltemi, Sesto San Giovanni (Milano), 2024.
2V. Mete, D. Tuorto, Gli astensionisti, in Il Mulino – Rivista di Cultura e di Politica, 3 giugno 2025.
3A. Di Gregorio, La degenerazione delle democrazie contemporanee e il pluralismo semantico dei termini “democrazia” e “costituzionalismo”, in Saggi-DPCE online, 2020/3.
4G. Sartori, Democrazia e definizioni (1957), Il Mulino, Bologna, 2025.
6G. D’Ignazio, Le democrazie illiberali in prospettiva comparata: verso una nuova forma di Stato? Alcune considerazioni introduttive, in Saggi-DPCE online, 2020/3.
Le persone single, ovvero che vivono da sole e non hanno una relazione stabile, sono in aumento in tutto il mondo, compresa l’Italia. In aumento sono anche i singles studies: memoir, saggi, podcast e quant’altro analizzi e racconti questa condizione dell’esistenza sempre più diffusa ma ancora poco accettata e compresa.
Nel libro Smettetela di dirci che non siamo felici (Enrico Damiani Editore, 2025), Gabriella Grasso intreccia la sua voce a quella di altre trenta donne italiane di età compresa tra i 30 e i 69 anni che nella loro vita abitano o hanno abitato a lungo la singolitudine. I temi affrontati nel testo sono numerosi e spaziano dalla solitudine all’amicizia, dal sesso alla maternità, dalla quotidianità ai viaggi, dagli aspetti economici alla spiritualità e sono tutti affrontati dall’autrice con un certo spirito di ribellione, alle etichette e agli stereotipi innanzitutto ma anche alle paure e alle indecisioni. Un racconto volto a sconfiggere definitivamente quel senso di inadeguatezza che ottenebra l’esistenza di chi, per scelta o per caso, si ritrova a essere “persona singola”.
Nelle intenzioni di Grasso non sembra esserci una volontà di attacco o critica o denuncia. L’intento appare fin da subito quello di raccontare un modo di essere e di vivere che nulla toglie alla felicità e alle gioie di chi intraprende un percorso di vita diverso, fatto di relazioni stabili, matrimonio, figli.
Smettetela di dirci che non siamo felici non è una narrazione ridondante, l’autrice non enfatizza e non edulcora la realtà. Si limita a raccontarla. Le conseguenze, siano esse positive o negative, ci sono per ogni tipo di scelta, ovvio, per cui sarebbe inutile nasconderle. Grasso non lo fa. Eppure lo stesso, leggendo il libro non si può non chiedersi come sia possibile che nel 2025 sia ancora necessario puntualizzare e precisare che ognuno ha la piena libertà di scegliere come vivere la propria esistenza. Dovrebbe essere pleonastico e invece il reportage di Grasso si rivela una lettura necessaria proprio perché questa libertà di scelta sembra ancora non esserci, vittima di una stigmatizzazione che sembra colpire l’universo femminile con una ferocia anche maggiore di quello maschile.
Sono trascorsi oltre venti anni ormai da quando il ciclo di film di Bridget Jones ha portato alla ribalta uno stigma sociale – quello legato alle donne nubili over 30 (Shahrak et al., 2021) – e una forma particolare di fobia: la paura di restare single. Un recente studio ha scoperto che tale paura potrebbe rappresentare uno tra i principali fattori in grado di motivare la ricerca e il mantenimento di una relazione sentimentale (Apostolou et al., 2024). Più una persona ha paura di rimanere single, più si impegna nella ricerca di un partner. Le persone con maggiore autostima presentano una paura minore della vita da single (A. Boccaccio, 2024). Va da sé che le persone con maggiore autostima e consapevolezza di se stessi vivranno anche in maniera migliore una eventuale relazione di coppia.
Oltre alle parti autobiografiche e ai racconti delle 30 donne italiane, trovano spazio nel libro di Grasso anche le interviste fatte a antropologhe, sociologhe, esperte e podcaster di tutto il mondo che hanno unito la loro voce e le loro esperienze a favore dell’indagine condotta volontariamente su sole donne. Il motivo va ricercato ancora una volta nelle maggiori difficoltà riscontrate dalle donne a trovare una giusta collocazione sociale e familiare senza che il loro essere una soladiventi un’accezione negativa o peggio spregiativa.
Il libro di Gabriella Grasso fa comprendere quanto il mondo stia e debba allontanarsi dalla disperazione di fondo che emerge da narrazioni quali le vicende di Bridget Jones come anche di Carrie Bradshaw. Quest’ultima iconica protagonista del telefilm Sex and city che solo in apparenza liberava le donne dai tabù di sesso e relazioni mentre, in realtà, raccontava di un’infinita corsa, o meglio rincorsa all’anima gemella, al grande amore della vita.
Smettetela di dirci che non siamo felici è un libro che focalizza su un aspetto della società contemporanea spesso ignorato perché temuto: la consapevolezza che ognuno, anche le donne che scelgono di essere single, possano e debbano compiere le proprie scelte e vivere la propria vita come meglio credono senza per questo doversi sentire in debito o in difetto. Un libro che in una società evoluta e civilizzata non avrebbe avuto ragione di esistere ma che qui, oggi, di motivazioni ne ha tante. Purtroppo.
La strada è ancora lunga e tortuosa ma lavori come quello di Gabriella Grasso la fanno sembrare più agevolmente percorribile.
Daniel Miller suggerisce di concentrare l’attenzione su cosa fanno le persone con i media e non su quello che i media fanno alle personei, ovvero il loro condizionare l’agentività, la capacità umana di agire e insieme di costruire la propria identità, tenendo conto dei vincoli sociali, culturali e linguistici che determinano il nostro margine di azione. Le innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni hanno cambiato il nostro modo di rapportarci con il mondoii. Prencipe e Sideri svelano come, tra intelligenze artificiali senzienti, dilemmi morali e saperi frammentati, il “cavaliere” diventa figura-simbolo di un nuovo umanesimo, chiamato a riconciliare la potenza computazionale con la vulnerabilità umana. Il cavaliere artificiale conclude la trilogia di libri dedicati a Italo Calvino e alla sua operaiii con una narrazione che è a un tempo racconto filosofico e scientifico, riflessione socratica e ricerca sperimentale incerta (o in equilibrio) tra l’algoritmico e il cavalleresco.
In una realtà appesantita da problematiche ogni giorno più opprimenti e concrete gli autori scelgono di dedicarsi all’intangibile e farlo con leggerezza. Una leggerezza che è però quella di Calvino, non superficialità ma l’arte di planare sulle cose dall’alto e non avere macigni nel cuore.
«Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio.»iv
La pesantezza, l’inerzia, l’opacità sono qualità che appesantiscono il mondo al punto che sembra pietrificarsi, come sotto lo sguardo di Medusa cui solo Perseo è riuscito a sottrarsi. Ecco perché Calvino si rivolge a lui come idolo nella lezione sulla leggerezza, perché Perseo «si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole, e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio».
Il cavaliere artificiale trae spunto da diverse opere di Calvino – Il cavaliere inesistente, La memoria del mondo, Palomar, Amori difficili – per esplorare il paradosso delle tecnologie digitali: invenzioni invisibili, eppure, pervasivamente trasformative nella vita quotidiana, nel lavoro, nella politica e nella percezione del reale. L’intelligenza artificiale esiste in uno spazio virtuale senza possedere, almeno per ora, un corpo tangibile. Eppure, essa esercita un’influenza concreta: gli algoritmi filtrano l’informazione, i sistemi di automazione rivoluzionano intere industrie, supportano diagnosi e assistenti digitali o creano la Memoria del mondo, proprio come immaginato da Calvino.
Il mondo, visto come un “sistema di sistemi” dimostra come ogni cosa sia legata al sistema del mondo. E l’obiettivo della letteratura è quello di “descrivere e raccontare di tutto, il mondo e tutto il suo contenuto”v. La molteplicità si trova sia nel concetto di mondo in generale che nel concetto specifico che Calvino ha della letteratura e degli scrittori, i quali dovrebbero avere una visione plurima e articolata del mondovi.
Visione che si ritrova in toto nelle riflessioni di Prencipe e Sideri, i quali avevano già dimostrato di essere approfonditi studiosi e conoscitori dell’opera e del pensiero di Italo Calvino, che hanno utilizzato per offrire una prospettiva nuova, un’angolatura originale per interpretare i fenomeni sociali attuali: le implicazioni dei cambiamenti tecnologici sul comportamento umano e organizzativo, i nuovi modelli educativi, l’interfaccia umano/macchina e, più in generale, l’innovazione come fenomeno socio-antropologico.
L’accostamento tra il decollo dei media e delle tecnologie dell’informazione e la riflessione sul pensiero della contemporaneità è così pregnante e denso di valenze che, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, Jean-François Lyotard ha identificato l’eziologia della nascita della «condizione postmoderna» proprio con l’avvento della società informatizzatavii e Gianni Vattimo ha rintracciato l’essenza stessa della postmodernità nella moltiplicazione delle «immagini del mondo» a opera dei mediaviii.
Giddens mette programmaticamente l’accento sulla differenza semantica tra postomodernità e modernità, rintracciando nella prima l’essenza della “radicalizzazione” della secondaix. In altri termini, più che limitarci a definire la situazione contemporanea come un’epoca nella quale la fine delle ideologie ha imposto una epistemologia debole e frammentaria, consacrata all’eterogeneità delle rivendicazioni del sapere, dovremmo scorgere in essa lo scarto “insoluto”, i conflitti rimossi e non analizzati che ritornano oggi più cogenti che in passatox.
Nel transito dall’età della stampa all’età del web, la rete culturale, la spinta a comunicare, l’affermazione del linguaggio come motore di una civiltà, e nello stesso tempo il crescente primato dell’immagine, permangono, pur nella rilevante differenza delle proporzioni. Si comprende bene che il rapporto tra umanesimo e tecnologia abbia costituito presto, negli ambiti della ricerca avanzata, la questione più urgente, da seguire con tutti gli strumenti possibili, per ricondurre alla centralità dell’umano la fuga irresistibile della progressione digitale e, nello stesso tempo, per ricostituire una trading zone, luogo di scambio, tra studia humanitatis e scienzexi.
La rivoluzione digitale ha trasformato le vite umane. Buona parte dello sconvolgimento provocato dalla Rivoluzione industriale fu dovuta all’automazione della forza muscolare. La Rivoluzione digitale sta automatizzando il lavoro mentale umano. Si tende a sottovalutare la minaccia all’agentività umana – human agency – da parte delle macchine. Questo accade perché, per esempio, molte delle odierne intelligenze artificiali non sembrano rappresentare una reale minaccia per i nostri posti di lavoro. Così facendo si ignora però il rapido ritmo di miglioramento che esse hanno in assoluto e in confronto a quello umanoxii.
Siamo certi che l’unica via possibile per una coabitazione e una coevoluzione fra la vita, la cultura e la tecnica sarebbe questa vera e propria «artefattualizzazione del mondo»? Quella attuale è la prima cultura a essere letteralmente «posseduta dalla tecnologia» che ha generato l’idea di vivere un’epoca dove tutto è possibile, e dove ciò che appare impossibile in realtà viene interpretato come non ancora possibilexiii. Questa tentazione di una potenza illimitata, che si affianca sempre più spesso alla promessa di deregolazione totale, si pone in netta antitesi all’essenza stessa della vita in tutte le sue dimensioni: la fragilità. Che non va intesa come debolezza, bensì come caducità della vita di ungarettiana memoria.
«Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del Dna, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti dall’inizio dei tempi… Poi, l’informatica. È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d’acciaio, ma come i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma di impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono a bits senza peso.»xiv
Il cervello umano viene di continuo equiparato a una Macchina di Turing, capace di elaborare una quantità enorme di dati e di “trarre conclusioni” a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato, ovvero il software. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto questo è legato e strutturato al corpo che lo contiene e la deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza tra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e se stesso. L’eccesso di informazione codificata priva di esperienza diretta trasforma gradualmente il cervello in una lastra di gestione di informazioni, ma si tratta di informazioni che non modellano il cervello perché non passano per il corpo. La digitalizzazione del mondo, la sostituzione di qualunque riferimento al mondo, per passare a funzionare con modellazioni di esso implica un importante mutamento qualitativo. Il ruolo degli umani diventa secondario anche nella circolazione ultrafluida dell’informazione. L’umano non è che un segmento di tale circolazione, un segmento ogni volta sempre più destrutturato e fluidoxv.
Salvaguardare il contributo umano non significa di certo respingere le meraviglie tecnologiche che la Rivoluzione digitale ha portato, richiede piuttosto un’attenta considerazione degli ambiti dell’attività umana che cederemo alle macchinexvi.
Occorre affrontare la situazione con una cultura nuova, perché il mondo della tecnica e le sue forze scatenate non potranno essere dominati che da un nuovo atteggiamento che a esse si adatti e sia loro proporzionato. L’uomo è chiamato a fornire una nuova fase di intelligenza e libertàxvii. Bisogna partire dal concetto stesso di persona per salvare anche solo quel minimo che permette di conservare la qualità di essere umano. Da qui si deve partire per la riconquista dell’esistenza attraverso l’uomo e per l’umano. Ciò rappresenta il compito per l’avvenirexviii.
La profondità e la rapidità del cambiamento mettono in crisi i tradizionali modelli di lettura della realtà e di previsione del futuro. Le interpretazioni di tipo fenomenologico, basate sull’osservazione e l’esperienza, rischiano di arrivare dopo che la tecnologia ha dispiegato i suoi effetti e si sta già avviando un nuovo ciclo di innovazione. Le interpretazioni filosofiche fondate sulla concezione antropocentrica proiettano sul futuro una visione antropomorfa della tecnologia, rischiando un appiattimento riduzionista tra l’uomo e le macchine, in nome di una lettura puramente funzionalistica, basata sugli aspetti intellettivo-razionali. Il rischio della identificazione tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, con la conseguenza di affermare una implicita equivalenza tra le caratteristiche della persona umana e dei robot antropomorfi, è un rischio che corre non solo la filosofia, ma per certi aspetti anche la tecnologia. Non aiuta la comprensione l’ambiguità dei termini trasferiti meccanicamente tra i due ambiti: sarebbe improprio considerare equivalenti spiritualità, immaterialità, virtualità e astrazione, e il rapporto tra anima e corpo non corrisponde al dualismo informatico tra virtuale e realexix.
In dialogo ideale con Calvino, Il cavaliere artificiale mostra come la letteratura possa decifrare le dinamiche di un mondo sempre più complesso e connesso. Attraverso l’analisi delle opere calviniane, emerge come Calvino avesse intuito l’importanza dell’immateriale, della narrazione e dell’immaginazione nella costruzione della realtà. Il libro si rivolge a chi desidera comprendere il rapporto tra tecnologia e umanità, proponendo una consapevolezza nuova circa l’influenza pervasiva dell’intangibile.
Il cavaliere artificiale è il tentativo di rispondere all’appello di un nuovo Umanesimo e di offrire spunti di azioni – politiche, formative, organizzative – rispettando le cinque dimensioni chiave indagate da Calvino: essenza, confine, attenzione, immaginazione e memoria.
«Uno sguardo d’insieme ci dà l’impressione che sia la natura sia l’uomo stesso siano sempre più alla mercé dell’imperiosa pretesa del potere economico, tecnico, organizzativo, statale. Sempre più nettamente si delinea una situazione in cui l’uomo tiene in suo potere la natura, ma insieme l’uomo tiene in suo potere l’uomo, e lo Stato tiene in suo potere il popolo e il circolo vizioso del sistema tecnico-economico tiene in suo potere la vita.»xx
Un circolo vizioso che si alimenta di una cultura che ha solo un fondamento razionale e tecnico. Occorre pertanto individuare un nuovo approccio alla conoscenza e all’interpretazione del mondo contemporaneo, tracciando le linee guida di un’aggiornata visione della persona umana che tenga conto del contesto digitale in cui ci troviamo. Occorre un nuovo umanesimo tecnologicoxxi.
Il richiamo alla nozione di umanità assume nella nostra epoca una vocazione sempre più etico-giuridico-politica a cui si legano i concetti di dignità e autonomia, sviluppati non più da una prospettiva squisitamente individualistica ed eurocentrica, bensì a partire dal confronto serrato con l’altro uomo e con l’altro dall’uomo, sia esso l’animale, l’ambiente o il robot. Il processo di informatizzazione e digitalizzazione del mondo della vita ormai trasformato in infosferaxxii,parallelamente al cambiamento cui è sottoposto il nostro corpo nell’Antropocenexxiii sollevano sempre più l’esigenza di una comprensione della relazione che lega indissolubilmente l’uomo alla tecnicaxxiv, in quella che Plessner definiva la natura tecnico-strumentale del vivente umanoxxv. Plessner riconosce nello schema corporeo del vivente umano una peculiare via di accesso al mondo-ambientexxvi.
La domanda se la tecnica alteri la natura umana porta con sé un’impronta “umanistica” e presuppone l’esistenza di una specifica “natura” o “essenza” dell’uomo (come in effetti ha sostenuto nei secoli gran parte del pensiero occidentale) che possa rischiare di essere modificata nelle sue peculiarità e quindi “snaturata”. La difesa dell’idea di una natura umana come essenza o realtà peculiare qualitativamente diversa da quella di ogni altro essere vivente è stata spesso (benché non sempre) funzionale alla salvaguardia di una presunta “nobiltà”, che ha condizionato anche il dibattito sul significato e il ruolo della tecnica per l’uomo e per il mondo interoxxvii. Stando alla posizione di Gehlen, non ha senso considerare la tecnica come qualcosa di estraneo alla natura umana. La tecnica è “vecchia quanto l’uomo”; gli è indispensabile al punto che di “uomo” si può parlare propriamente soltanto in presenza di attività tecnicaxxviii. Potremmo chiederci allora se questa capacità di produrre l’artificiale non sia a sua volta da considerare qualcosa di naturale (in quanto spontaneo) benché in contrasto con una situazione originaria. In questa sede serve, piuttosto, osservare l’insistenza su una frattura tra la natura biologica e la vocazione (o la necessità) culturale e tecnologica dell’uomo: proprio questo iato serve infatti per allontanare l’uomo dall’animalexxix.
Nel Cavaliere artificiale Prencipe e Sideri compiono una sorta di viaggio tra le pagine di Calvino e i paesaggi incerti della contemporaneità, muovendosi tra sentieri che oscillano tra l’umano e l’artificiale, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, tra memoria e immaginazione. L’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie plasmano sempre più ogni aspetto della nostra vita, modificando finanche il modo in cui percepiamo noi stessi. Eppure la soglia di questo cambiamento non è da loro considerata come una linea retta da oltrepassare bensì una soglia mobile, frastagliata. Un vero e proprio luogo di confine, una frontiera che possiamo abitare con consapevolezza, immaginazione e attenzione. Non si tratta di scegliere se essere Gurdulù o Agilulfoxxx: è proprio nella tensione tra i due che l’umanità si mantiene viva.
Il libro
Andrea Prencipe, Massimo Sideri, Il cavaliere artificiale. Italo Calvino e la memoria del futuro, Luiss University Press, Roma, 2025.
iD. Miller, Tales from Facebook, Polity Press, Cambridge, 2011.
iiL. Salvia, Agentività, immersività ed esistenza nei social media, in Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024.
iiiA. Prencipe, Massimo Sideri, Il cavaliere artificiale. Italo Calvino e la memoria del futuro, Luiss University Press, Roma, 2025; A. Prencipe, M. Sideri, Il visconte cibernetico. Italo Calvino e il sogno dell’intelligenza artificiale, Luiss University Press, Roma, 2023; A. Prencipe, M. Sideri, L’innovatore rampante. L’ultima lezione di Italo Calvino, Luiss University Press, Roma, 2022.
ivI. Calvino, La leggerezza, in Lezioni americane, Garzanti, Milano, 1988.
vI. Calvino, Saggi 1945-1985 (vol.I), a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano, 2022.
viM. Di Franco, La memoria del mondo di Italo Calvino: realtà, immaginazione e intelligenza artificiale, in Zibaldone. Estudios Italianos – Vol. XI, 2023.
viiJ. F. Lyotard, La condizione postomoderna, Feltrinelli, Milano, 1980.
viiiG. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985.
ixA. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Miluno, Bologna, 1994.
xM. Pavese, Globalizzazione e localismo tra antropologia e sociologia, in Dialegesthai – Rivista di Filosofia, 20 luglio 2003.
xiL. Floridi, La quarta rivoluzione: come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.
xiiN. Agar, Non essere una macchina. Come restare umani nell’era digitale, Luiss University Press, Roma, 2020.
xiiiM. Benasayag, Il cervello aumentato l’uomo diminuito, Erckson, Trento, 2016.
xivI. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, 1984, Lezione I: Leggerezza.
xviiR. Guardini, Lettere dal lago di Como, Morcelliana, Brescia, 1959.
xviiiR. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia, 1993.
xixA. Tomasi, Umanesimo tecnologico: una antropologia per il futuro dell’uomo. La visione profetica di Romano Guardini, in Alpha Omega XXII, n.1, 2019.
xxR. Guardini, Il potere, Morcelliana, Brescia, 1993.
xxiA. Tomasi, Informatica. Tecnologia e cultura per il futuro dell’uomo, in Il margine, anno IV, n. 8, 1984.
xxiiL. Floridi, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Cortina Editore, Milano, 2020.
xxiiiV. Cregan-Reid, Il corpo dell’antropocene. Come il mondo che abbiamo creato ci sta cambiando, Codice Edizioni, Torino, 2020.
xxivR. Redaelli, Corpo, mondo e tecnica. Una riflessione a partire dall’antropologia plessneriana, in Bollettino Filosofico, n. 38, 2023.
xxvH. Plessner, Sul rapporto di mondo e ambiente nell’essere umano, ETS, Pisa, 2020.
xxxGurdulù e Agilulfo sono due personaggi del Cavaliere inesistente di Italo Calvino: il primo è lo scudiero del secondo, un individuo privo di coscienza e identità, che si immedesima completamente nelle cose che incontra e rappresenta la corporeità senza consapevolezza. Il secondo è un cavaliere senza corpo, un’armatura vuota che esiste solo grazie alla forza di volontà e alla sua coscienza di sé e rappresenta la perfezione meccanica ma priva di corporeità.
Che cosa vuol dire vedere la letteratura come un’arte? Perché solo alcuni romanzi, poesie e drammi possono essere considerati opere d’arte? Che valore viene attribuito a un testo quando diviene letteratura?
Sono tali interrogativi a dare l’avvio all’analisi condotta da Peter Lamarque in Filosofia della letteratura (Mimesis, 2024), in cui particolare attenzione viene data alla natura e all’ontologia delle opere letterarie, alle modalità d’interpretazione, al ruolo della cognizione nella fruizione dei testi e alle basi per la loro valutazionei.
L’interrogativo principale riguarda l’effettiva possibilità di studiare la letteratura da un punto di vista estetico: si può ancora parlare di esperienza estetica e di piacere estetico quando si legge un’opera letteraria? La risposta di Lamarque è sì: l’opera letteraria, in quanto frutto di una personalità artistica, possiede un repertorio di qualità estetiche ed espressive che in nessun caso si possono riscontrare nell’oggetto materiale. Ogni opera letteraria è un oggetto storico e culturale, non sempre la storia e la cultura sono in grado di stabilirne il valore. Le opere letterarie possiedono qualità estetiche ed espressive mai completamente disgiunte dalle pratiche culturali di coloro che le producono come di coloro che le interpretanoii.
La lettura non è una prestazione sottoposta a un protocollo di operazioni prestabilite, ma richiede un atteggiamento complessivo e comporta un’esperienza. Sono i gusti e le preferenze del lettore a orientarne l’esplorazione del testo. Prima ancora che come interpretandum o come test di verifica di abilità cognitive, il testo letterario si presenta come una “struttura di appello” che il lettore deve far emergere affrontando i “luoghi di indeterminazione” (Unbestimmheltsstellen) presenti nel testoiii.
In un’epoca di neuromania si ricerca di tutto l’origine in meccanismi della mente o del cervello. La lettura, in particolare di testi narrativi, non fa eccezioneiv. Essa merita però un’attenzione particolare, sotto il profilo non tanto dell’interpretazione quanto dell’esperienza estetica a essa connessa. La lettura stimola la sensibilità, non limitandosi ad attrarre il lettore e mirando bensì a orientarne i criteri di giudizio. Essa sensibilizza all’apertura al mondo e, cosa ancor più stupefacente, lo fa in assenza di una percezione diretta di eventi e personaggi: è un esercizio esemplare di immaginazione. È il lettore, molto più che l’autore, a fare esercizio di immaginazione, chiamata a ridefinire i tracciati e i contorni dell’esperienza. L’autore si concentra sul momento dell’invenzione, mentre il lettore è chiamato a muoversi dentro e fuori dal testo, a progettare un modello di interazione e a prendere la misura dei rapporti tra la realtà e la finzionev.
L’approccio alla lettura delle opere della letteratura dovrebbe essere centrato sull’attivazione e sull’esercizio dell’immaginazione narrativa, ovvero sulla capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desiderivi. La lettura dovrebbe essere praticata facendo procedere di pari passo una lettura simpatetica con una lettura invece critica, in modo da poter valutare perché certi personaggi attirano e monopolizzano i nostri sentimentivii.
Ciò che, per Lamarque, differenzia un’opera letteraria da altri tipi di opere è il “fattore istituzionale”, ovvero il fatto che ogni opera letteraria è il prodotto di un patto tra l’autore e i lettori, un patto non scritto e neppure totalmente consapevole, determinato dal momento storico, dalle convenzioni artistiche, dall’orizzonte culturale.
La lettura è un’attività fondata sull’utilizzo di alcuni “artefatti” (per esempio i libri) che a loro volta si basano su un “meta-artefatto”, uno strumento che sostiene tutti gli altri strumenti che usiamo: il linguaggio. Il libro è un artefatto perché è uno strumento creato all’interno della comunità umana per permettere lo svolgimento di una determinata attività (nel caso specifico, la lettura). Si distingue dagli altri artefatti per il suo carattere linguistico. Esso è un artefatto che supporta un meta-artefatto, il linguaggio appunto, lo strumento fondamentale – fisico e ideale allo stesso tempo – col quale l’essere umano dà senso alla propria esperienzaviii.
Ben prima che una persona cominci a leggere e scrivere, è certo che essa abbia una certa dimestichezza con la narrazione, una delle forme di discorso più diffuse e più potenti nella comunicazione umana, su cui si fonda l’acquisizione del linguaggio, a partire dall’assimilazione delle forme grammaticali. I racconti sono “la moneta corrente della cultura”, lo strumento attraverso il quale una comunità umana costruisce continuamente il fondale contro cui si stagliano e acquisiscono un senso le esperienze individuali. La stessa comprensione della realtà è mediata dalle narrazioni di cui le persone sono partecipi, come narratori e come destinatariix.
Secondo le scienze umane, la spinta che muove verso la narrazione, e anche, quindi, verso la lettura di testi narrativi, è il bisogno di dare un senso alle azioni e alle intenzioni degli esseri umani. Sia che si legga una lettera di cui siamo destinatari, sia che si legga un romanzo, il motore dell’azione è l’interesse a comprendere l’altro e sé stessi, e, in generale, il desiderio di perfezionare la capacità di attribuire un significato all’esperienzax. I testi narrativi poi si distinguono dai testi non narrativi per la possibilità che danno al lettore di provare emozioni.
Usando come criterio fondamentale della letterarietà la narratività di un testo, è possibile recuperare il valore conoscitivo della letteratura, che sembra ormai essere riconosciuto solo dai comuni lettori e dagli scienziati, e non più dagli specialisti della materia. Il lettore non specialista, oggi come un tempo, non legge le opere letterarie per padroneggiare meglio un metodo di lettura, né per ricavarne informazioni sulla società in cui hanno visto la luce, ma per trovare in esse un significato che gli consenta di comprendere meglio l’uomo e il mondo, per scoprire una bellezza che arricchisca la sua esistenza; così facendo, riesce a capire meglio se stessoxi.
Da tempo gli studiosi di letteratura hanno cominciato a riflettere sul ruolo del lettore e della lettura nel determinare la letterarietà di un testo, segnando il passaggio da una concezione ontologica della produzione letteraria a una concezione funzionalista e relazionalexii, che pone al centro dell’attenzione il lettore come “coprotagonista”, “collaboratore” o “cooperatore” dell’autore e dell’opera. Alle opere che nascono col fine esplicito di far compiere al lettore un’esperienza di tipo estetico, secondo una concezione dell’arte in auge fin dall’antichità, si aggiungono le opere che, indipendentemente dall’intenzione dell’autore, raggiungono fini estetici, cioè garantiscono al lettore una qualche forma di piacere. La letterarietà, dunque, cioè l’appartenenza o meno alla categoria della letteratura, non dipenderebbe da qualche caratteristica immanente al testo scritto, al suo meccanismo, alla sua forma specifica, bensì dalla sensibilità e dal giudizio del lettorexiii.
L’opera d’arte è tale solo se possiede una aboutness, un essere a proposito di qualcosa, e se il suo significato si presenta in forma materialmente incarnata. Inoltre deve presentare il significato che essa esprime in forma incorporata poiché un oggetto artistico è tale solo se è legato a un supporto materiale, a un medium fisico. La struttura ontologica dell’essere umano è simile a quella che caratterizza l’opera d’arte: entrambe sono entità incarnate in qualcosa di fisico, ma aventi una natura culturale, intenzionale e sociale, non riducibile alla controparte fisico-biologica che dà loro struttura. L’arte possiede l’energia propulsiva di trasformazione che consente al soggetto di umanizzarsi, imparando a conoscere se stesso e il proprio posto nel mondoxiv. Così come l’uomo non può essere considerato in modo vago un animale razionale, egualmente la sua opera dev’essere compresa entro uno spettro più ampio che diventa luogo di rigenerazione dell’esperienza in genere e rivela l’esperienza estetica come momento di riflessione sulle condizioni della conoscenzaxv.
Lamarque ribadisce che ci sono alcuni valori prettamente letterari che non possono essere confusi con altri, come il potere di suscitare emozioni, di esprimere verità politiche o morali. Ci sono cose che solo un romanzo può dire. Includendo anche poesia, teatro, cinema. Le opere non devono essere vere, non devono per forza possedere una morale, non hanno il compito di portare in seno una tesi politica e anche quando contenessero tutto ciò, il giudizio di valore, in quanto giudizio estetico, non dovrebbe esserne intaccato. Inoltre egli afferma che un grande romanzo viene letto come deve essere letto, cioè in piena libertà e mostrando tutto il suo splendore, solo una volta che si è allontanato dalle sue origini, dal suo contesto storico e politico. Allontanamento che può essere temporale o geografico.
L’io dello scrittore si esprime solo in un rapporto con un Altro, con qualcosa che è radicalmente diverso e lontanoxvi.
L’allontanamento temporale o geografico rende anche meno pregnante il giudizio morale su un’opera letteraria. E allora ci si chiede se e quanto la valutazione morale di un’opera d’arte influisce o dovrebbe influire sulla valutazione artistica dell’opera.
È forse possibile interpretare, comprendere e apprezzare un’opera d’arte a prescindere dalla mediazione della cultura e delle pratiche da cui l’opera trae origine, identità e significato? La risposta di Lamarque è risolutamente negativa. Le opere d’arte possiedono essenzialmente proprietà di natura relazionale poiché dipendono dal modo in cui vengono concepite dagli artisti e interpretate dai fruitori. Sono oggetti culturali che vanno considerati come entità reali, pubbliche e percepibili che risiedono nei rispettivi supporti materiali, dai quali sono però numericamente distinte. È allora unicamente grazie al loro radicamento storico e culturale che le opere d’arte possono essere distinte dai meri oggetti che le incarnano.
Il dualismo di Lamarque nell’ambito dell’ontologia dell’arte ha molteplici conseguenze sull’esperienza estetica. Innanzitutto, se è vero che le opere sono degli oggetti culturali distinti dai loro supporti, nell’atto di apprezzarle e valutarle entrano in gioco anche processi cognitivi – e quindi non solo e semplicemente percettivi. Gli oggetti artistici non sono oggetti naturali, bensì istituzionali, e pertanto si avrebbe torto a considerare i fattori storici, contestuali e culturali come irrilevanti per la corretta fruizione. E se la risposta alle opere d’arte è mediata dalla nostra cultura, la capacità di apprezzarla non è una dote naturale, bensì un’abilità che va sviluppata attraverso l’educazione: per valutare un’opera d’arte è necessaria una certa competenza, accompagnata da determinate credenze e aspettativexvii.
Parafrasando Wolheim (1968) – il quale concepisce l’arte come una forma di vita – diventa necessario spostare lo sguardo dalle diversità potenziali nel testo a quelle che interagiscono entro le diverse culture. Queste fervono in civiltà che non sono blocchi identitari omogenei, così come non lo è il tessuto, pertanto il conflitto che provoca la diffèrance deve essere assunto entro una prospettiva dinamica, che non indugi dinanzi l’inattuabilità di una nuova composizione, ma che lavori all’incontro tra universi distanti ed eterogenei, riconoscendo nelle differenze reciproche possibilità creative in grado di generare dissonanze fecondexviii.
Le facoltà intellettuali non agiscono esclusivamente in un secondo momento, sul materiale greggio fornito dai sensi, ma sono attive fin da subito poiché la percezione è completamente permeata dal pensieroxix. Lamarque può essere considerato un pieno sostenitore dell’empirismo estetico, ossia della tesi secondo cui il valore estetico di un’opera d’arte è essenzialmente legato al modo in cui l’opera viene esperita.
Se il valore di un’opera letteraria si fonda su quelle che sono le specifiche prassi di apprezzamento della letteratura, si dovrà distinguere tra valori intrinseci – ossia propri della fruizione delle opere letterarie in quanto tali – e strumentali. Tra questi ultimi figurano – a parere di Lamarque – il potere di suscitare emozioni e di essere veicolo di verità morali e politiche.
Si tratta di valori che non di rado vengono oggi chiamati in causa per giustificare il nostro interesse nei confronti della letteratura. Una visione che non convince Lamarque, orientato invece verso una visione umanistica della letteratura e del valore letterario: alle opere non viene richiesto di essere vere, moralmente giuste o di supportare visioni politiche progressiste, bensì di essere interessanti – in quanto sviluppano temi di universale interesse umano – e scritte bene – ovvero costruite in modo tale che gli artifici formali (stile, modalità d’intreccio, disposizione dei versi e tutte le altre strategie di organizzazione del materiale) siano adeguati al contenuto (l’interesse umano che viene portato allo scoperto) o, per dirla breve, che vi sia consonanza tra mezzi e finixx.
A differenza del mondo reale, i mondi di invenzione, che formano il contenuto delle opere letterarie, sono costruiti dal modo in cui ci vengono dati attraverso il materiale linguistico e, pertanto, la loro identità – e quella degli elementi che li compongono (personaggi, oggetti, eventi) – dipende in maniera essenziale da come vengono presentati. L’opacità è una risorsa che arricchisce di sfumature l’esperienza di lettura quando l’attenzione è rivolta verso le sfumature testuali, le valutazioni implicite, l’affidabilità del narratore, la risonanza simbolica, lo humor, l’ironia, il tono, le allusioni o i significati del testoxxi. In sintesi, dunque, l’opacità è una proprietà che caratterizza i testi letterari quando ne fruiamo in maniera appropriata, ossia in quanto letteratura.
«Sono poche le persone che richiedono ai libri quello che possono dare. Più comunemente ci ritroviamo davanti ai libri con le idee incerte e confuse, chiedendo alla narrativa di essere vera, alla poesia di essere falsa, alla biografia di essere lusinghiera, alla storia di rafforzare i nostri pregiudizi. Se, quando leggiamo, potessimo mettere da parte tutti questi preconcetti, sarebbe già un buon inizio»xxii.
Ma come possiamo avvicinarci alle opere che abbiamo letto prestando attenzione a quello che queste ci possono offrire? Forse, semplicemente, tentando un approccio che tenga conto anche dello stile, delle proprietà estetiche, della struttura, in breve che si soffermi su ciò che le rende opere specifiche dotate di un certo interessexxiii.
Se si fosse ancora in dubbio sul fatto che il valore di un’opera d’arte – letteraria o di altro genere – non risiede nel suo contenuto edificante o nella sua capacità di veicolare empaticamente pressanti messaggi volti a orientare la condotta pratica delle persone, Lamarque suggerisce – sulla scorta di Hume – di ricorrere alla cosiddetta prova del tempo.
Non si tratta solamente di constatare il fatto che opere molto apprezzate al momento della loro pubblicazione sono poi state dimenticate, bensì notare come le vere opere d’arte acquistino il loro status di capolavori immortali proprio quando i motivi ideologici e politici che le hanno ispirate risultano meno impellenti.
La concezione del tempo costituisce uno dei modelli portanti di ogni cultura e civiltà. Intorno a essa gravitano rituali, visioni metafisiche, organizzazione sociale, espressioni dell’immaginario e, in sintesi, i significati stessi dell’esistere. I rivolgimenti scientifici della modernità cancellano definitivamente le narrazioni mitiche connesse alle concezioni tradizionali del tempo, e inseriscono questo nell’ottica di formule e calcoli matematici che perseguono dati obiettivi, svincolati da esigenze umane di ordine emozionale ed esistenziale. In contrapposizione al postulato di un tempo assoluto avanzato dalla fisica newtoniana, Einstein introduce nella scienza della modernità un tempo relativo che sconvolgerà le visioni stesse dello spazio. Il tempo subisce un rallentamento in proporzione all’incremento del moto. Il tempo degli eventi del cosmo non ha un valore assoluto e universale. Le stesse sequenze (linearità) di passato-presente-futuro, considerate irreversibili nelle nostre esperienze quotidiane, non reggono più. Il tempo nella versione tradizionale della scienza è spazializzato, cioè formato da punti distinti e coesistenti indipendentemente l’uno dall’altro, ma per il filosofo francese Henri Bergson non esistono eventi temporali separati e distinti nell’esperienza concreta della nostra esistenza. La scienza segue un modello meccanicistico del tempo che cristallizza gli attimi del presente e ne fornisce una conoscenza esclusivamente pragmatica che non corrisponde alla temporalità del vissuto, al fluire incessante della coscienza. Il tempo coscienziale, discontinuo e sconnesso, o riordinato dagli interventi memoriali, può essere colto dalla letteratura e dalle arti in genere e non dalla scienza, poiché legato alla complessità e all’instabilità stessa dell’esperienza umanaxxiv. L’esistenza, intesa come progetto di possibilità, è radicata nel tempo. Esistere nel tempo significa che siamo ciò che non siamo, nella misura in cui non siamo più il nostro passato e non siamo ancora il nostro futuro. Il tempo determina la nostra coscienza del nullaxxv. La percezione di un tempo non assoluto, relativo, ambiguo e incerto, sottratto nel suo fluire dalla fiducia in un télos, ha conseguenze irreversibili sulle costruzioni identitarie, sulla concezione stessa del soggettoxxvi. In Pirandello, ad esempio, il tempo distrugge le maschere e scopre le immagini fittizie del sé. Se si esamina un romanzo come Uno, nessuno e centomila il tempo è alla base dell’estraniamento dell’io da se stesso: «la realtà d’oggi è destinata a scoprirsi illusione di domani»xxvii.
Nella concezione che Sartre ha dello scrittore e, in generale, dell’uomo, questo risulta l’essere che non può vedere o vivere una situazione senza cambiarla perché il suo sguardo cambia l’oggetto in se stesso. Lo scrittore, nello specifico, ha scelto di svelare il mondo agli altri uomini, perché questi assumano di fronte agli oggetti messi a nudo tutta la loro responsabilità. La funzione dello scrittore è di far sì che nessuno possa ignorare il mondo. Egli voleva che ogni suo libro contenesse una rivelazione sugli aspetti del mondo e della vita. Una rivelazione così potente da scuotere e sconvolgere il lettorexxviii.
La letteratura osservata attraverso l’occhio degli scrittori assume significati e funzioni specifici. Rispetto alla prospettiva dei teorici e dei critici, il punto di vista degli scrittori sulla letteratura è un punto di vista, per così dire, interno. Si tratta, cioè, di uno sguardo in cui la riflessione sulla parola altrui diventa riflessione sulla propria arte verbale, in cui la letteratura viene esaminata non solo in termini descrittivi, ma anche in quanto generatrice di modelli. Cosicché l’atto critico che riflette sulla tradizione letteraria risulta, il più delle volte, indistinguibile dall’atto creativo che di quella tradizione si appropriaxxix.
Le concezioni della letteratura istituzionali e contestualiste rivelano connessioni con gli autori piuttosto complesse. Per il contestualista l’opera letteraria è essenzialmente incorporata nel contesto storico della sua creazione: senza il contesto l’opera non sarebbe l’opera che è. Alcune versioni forti del contestualismo legano l’essenza di un’opera al suo autore: autore diverso, opera diversa. Un altro dibattito di primo piano che interessa gli autori nella filosofia della letteratura riguarda il significato e la misura in cui un autore sia la fonte del significato. Ovvero il grado di autorità da lui posseduto sulle interpretazioni valide della propria opera. Un autore è in qualche maniera un creativo, un progettista, la fonte di qualcosa di valore. È ragionevole pensare che tra autore e opera esista anche una relazione “interna”, concettuale persino, nel senso che chiunque scriva un’opera letteraria (un’opera riconosciuta come tale) diventa di conseguenza un autore, e che un’opera letteraria non potrebbe essere “letteraria” senza essere “d’autore”.
Ma quanto sono davvero creativi gli autori? Si domanda Lamarque, il quale ritiene che, in realtà, essi non creano nulla. Non creano (nella maggior parte dei casi) il linguaggio che usano; i significati che esprimono devono già essere, in un certo senso, contenuti nel linguaggio stesso. Non creano nemmeno l’istituzione di cui seguono le convenzioni, né le circostanze storiche e la tradizione letteraria nelle quali lavorano. Un poeta che scrive il sonetto non ha creato la forma del sonetto.
Per cogliere ciò che accade in una poesia, inoltre, i fatti riguardanti l’autore possono arrivare ad apparire meno importanti dei fatti relativi alla tradizione, alla cultura e al contesto storico nel quale l’autore scrive. Tale è il percorso che conduce alla “spersonalizzazione” della poesia, fino alla “morte dell’autore”, che ha caratterizzato la critica del XX secolo ed è sembrato emergere in maniera inevitabile da importanti tensioni già presenti nell’idea stessa di autore.
Uno dei bersagli del New Criticism che si sviluppò negli anni Trenta e Quaranta del XX secolo era il culto dell’autore, o ciò che Lewis chiamava “poetolatria”, l’idolatria nei confronti del poetaxxx.
Il culto della personalità del poeta fiorì nei primi del XIX secolo con i romantici. Connessa all’idea del poeta come saggio o individuo dalle doti speciali è l’idea del genio, della quale esistono versioni che risalgono agli antichi greci.
I biografi di poeti, romanzieri e drammaturghi vorranno – non a sproposito – incorporare le opere e ciò che esse contengono nella storia della loro vita. Nella misura in cui la “biografia letteraria” è semplicemente la biografia degli autori di letteratura, questa non dà luogo ad alcuna controversia con la critica. Lamarque ci tiene a sottolineare però gli ovvi e comprovati pericoli dell’uso delle opere per integrare i dettagli delle vite quando non sono indipendentemente documentati. Esemplare il caso di William Shakespeare: poco è noto della sua vita, ancora meno delle sue convinzioni e dei suoi comportamenti; non esistono diari, lettere o frammenti autobiografici a cui appellarsi. Eppure, nella sua biografia c’è una speculazione interminabile su cosa egli pensasse veramente riguardo immortalità amore matrimonio sovranità religione potere ricchezza teatro famiglia e molto altro ancora.
Egualmente rischioso per il critico è il processo inverso, ovvero leggere le opere influenzati da ciò che si conosce della vita dell’autore.
Ecco allora che ritorna l’interrogativo principale per l’autore: cosa significa leggere un’opera letteraria come un’opera d’arte?
Numerosi sono stati i tentativi del New Criticism di stabilire l’autonomia dell’opera. Nelle versioni forti dell’autonomia, un’opera letteraria è concepita come un’icona verbale autosufficiente e indipendente, che possiede un interesse e un carattere basati esclusivamente sulle sue proprietà linguistiche. Per Lamarque i limiti di questa visione sono evidenti, poiché ci dice poco o nulla su quale tipo di interesse o carattere dovremmo ricercare. Se le opere letterarie sono dei meri testi indifferenziati, o sequenze di frasi, o écriture che significano tutto ciò che possono significare, è impossibile capire perché abbiano qualsivoglia valore speciale. Soltanto collocando le opere in cornici “istituzionali” più ampie si può comprendere perché esse coinvolgano i lettori e siano apprezzate. Per cui, invece di porre l’accento sull’autonomia della singola opera, l’autore ritiene più fruttuoso enfatizzare l’autonomia della pratica entro la quale le opere vengono lette. Ciò che distingue un’opera letteraria è intimamente connesso a ciò che distingue la pratica della lettura quando le opere vengono lette come letteratura. Esplorare tale pratica, per Lamarque, è la chiave per comprendere che cosa dia alle opere letterarie il valore e l’interesse che esse possiedono. Se le opere letterarie sono opere d’arte, allora è ragionevole aspettarsi che sollecitino un certo tipo di attenzione non dissimile da quella associata ad altre forme d’arte. Con la peculiarità dell’interpretazione. Ritiene infatti l’autore che l’interpretazione applicata alla letteratura si distingue sia per gli scopi che per i procedimenti. In nessun altro campo l’interdipendenza tra interpretazione e oggetto dell’interpretazione è sentita più intensamente.
Nel XX secolo il critico letterario era al centro del gioco ideologico e politico, poiché la decifrazione delle narrazioni richiedeva un metodo universale per la comprensione di un mondo sociale percepito come un costrutto testuale. Quando regnava un paradigma linguistico, per il quale il pensiero e l’azione potevano essere letti come codici e sintassi, le competenze specialistiche del critico gli conferivano una legittimità quasi universale.
Pur privilegiando un progetto di decostruzione critica delle forme di dominazione, come nel postcolianismo e nel femminismo, i Cultural Studies sono oggi vertiginosamente diversificati: che si occupino di disabilità, culture urbane o omosessualità, essi adottano un approccio volutamente interdisciplinare per temi e argomenti, privilegiando angolazioni originali perché culturalmente minoritarie e spingendosi fino a un orizzonte postumanista. A essi si affiancano gli Studiesbasati su aree geografiche (Area Studies o Ethnic Studies) o su tematiche di ricerca ampie e originali, come gli importantissimi Trauma Studies.
Questa pluralizzazione dà luogo a una grande quantità di approcci tematici, tutti accomunati da una visione volutamente pragmatica del testo letterario, concepito nella sua stretta relazione con una questione culturale o politica.
La “svolta etica” e la “svolta pragmatica” hanno segnato chiaramente la tendenza decisiva della teoria letteraria del XXI secolo, tendenza che si rifletterà nella rinnovata importanza della psicologia e delle scienze cognitive: l’interesse critico non si concentra più, come nell’Ottocento, sull’autore e sull’atto creativo, o, come nel Novecento, sul testo in sé considerato nella sua autonomia, o ancora nella ricezione considerata come una questione teorica astratta come aveva imposto la scuola di Costanza, ma sul lettore concreto, incarnato e socializzato. Si tratta ormai degli effetti del testo, concepito come potenziale beneficio morale o come beneficio cognitivo, addestramento alla “teoria della mente” (cioè i saperi che permettono di intuire e capire lo stato mentale degli altri) o come strumento di conoscenza pratica o addirittura filosofica. La letteratura non è soltanto una rappresentazione che registra il presente, lo svela, ma può anche denaturalizzarlo diventando uno strumento di trasformazione (di riparazione individuale o collettiva, di trasformazione politica e sociale)xxxi. Da qui una visione della narrativa come agente, persino come virus, capace di disseminare concetti: in questo approccio, che risente delle teorie latouriane e dei “nuovi realismi” filosofici contemporanei, e che può essere definito prasseologico, la finzione non è tanto una relazione rappresentativa di somiglianza con la realtà o “atteggiamento epistemico”xxxii, quanto ciò da cui scaturiscono eventi con i quali si possono intessere relazioni reali e spesso molto fortixxxiii. In questo approccio pragmatista, che enfatizza la nozione di performativoxxxiv e le teorie della perlocuzionexxxv, sono importanti gli effetti della narrativa (il suo potere di agire) esistenziali o politici sul lettore.
Le persone leggono in molti modi diversi, così come sono molto diversi gli interessi che influenzano le loro scelte di lettura. Per Lamarque, non riconoscere ciò equivale a supportare un essenzialismo completamente ingiustificabile nella critica letteraria. Anche gli stessi critici letterari possono senza dubbio trovarsi a leggere teologia, filosofia o manifesti rivoluzionari. Non significa che li considerino opere di critica letteraria e men che meno che li leggano come letteraturaal pari opere teatrali, poesie o romanzi. Inoltre, possono occuparsi di altri tipi di scrittura oltre alla critica letteraria, come fecero in molti, da Samuel Johnson a T. S. Eliot. Non c’è motivo di etichettare tutti i loro scritti e in ugual modo le loro letture come critica letteraria.
Ma allora come possono esistere caratteristiche fondamentali o essenziali della pratica critica se i critici si avvicinano ai testi con presupposti tanto diversi? Le “metodologie” sono diverse (marxismo, materialismo culturale, strutturalismo, decostruttivismo, psicoanalisi, femminismo, New Criticism) e le differenze reali, pur se concentrate su aspetti differenti delle opere letterarie e del loro contesto. Al filosofo della letteratura interessa, invece, ciò che hanno in comune. Che cosa rende tutte queste “metodologie” esemplificazioni della “critica letteraria”? La filosofia della letteratura deve restare concentrata sul porre domande fondamentali sui requisiti minimi per considerare la letteratura una forma d’arte. Ènecessario, per Lamarque, che i critici in attività diano alle opere sempre questo tipo di attenzione.
Lettore e critico letterario sono termini usati più o meno in modo intercambiabile, ma si può sostenere con l’autore che, mentre tutti i critici letterari sono dei lettori, non tutti i lettori sono critici. Eppure, il presupposto di fondo dell’indagine di Peter Lamarque è che non sembra esserci un confine netto tra la pratica della critica, concepita in senso ampio, e le risposte di un pubblico di lettori istruito e interessato all’arte e alla letteratura. Una tradizione che si rifà a ciò che Samuel Johnson chiama il “lettore comune”: «Provo gioia nel convenire con il lettore comune, poiché è con il buon senso dei lettori, incorrotti dai pregiudizi letterari, dopo tutte le rifiniture della sottigliezza e il dogmatismo dell’apprendimento, che vengono infine decise tutte le rivendicazioni di gloria poetica»xxxvi.
Per cui, sottolinea Lamarque nel testo, il critico letterario è semplicemente un lettore che ha più esperienza e una percettività amplificata rispetto al “lettore comune”. Egli è più avanti nel percorso verso i “veri giudici” di David Hume.
Ma se non ci fossero i lettori comuni non ci sarebbero le opere letterarie. L’istituzione della letteratura richiede una comunità di lettori con un interesse condiviso nei valori che la letteratura può offrire, e sembra improbabile che tale istituzione possa reggersi solo su una minuta intellighenzia di esperti.
La critica letteraria è inestricabilmente connessa ai giudizi di valore, ma essi non devono emergere per forza in forma sommativa (x è buono, y è cattivo). Nel caso di opere dalla fama consolidata, un giudizio sommativo è raramente richiesto.
Se i critici accademici si occupano in primo luogo di opere dalla fama consolidata, i critici giornalistici si concentrano sulle novità editoriali e sono pagati per offrire le loro valutazioni. I lettori si rivolgono a questi critici per una guida alle loro letture. Qui i giudizi tendono a essere espliciti, però anche in questo caso quelli privi di argomentazioni non valgono a molto.
Molta narrativa di genere può godere di grande considerazione come fantasy o puro intrattenimento, senza avere però alcuna aspirazione letteraria. La distinzione è tuttavia controversa, perché talvolta è ritenuta basarsi su elitismo o snobismo invece che su elementi intrinseci dell’opera. Ma il fatto che molti romanzi di genere non invitino analisi letterarie sistematiche, né le ricompensino, non dovrebbe essere considerato, nell’analisi di Lamarque, un elemento negativo. I loro meriti sono altrove. Nell’adempiere alla funzione per cui sono generati. Il gioioso ma trito distico in rima in un biglietto di compleanno può servire ottimamente allo scopo (del biglietto), e tuttavia essere del tutto privo di interesse letterario.
I valori strumentali della letteratura sono associati ai valori connessi agli effetti della letteratura, i quali sembrano ben lontani dal qualificarsi come qualità artisticamente rilevanti, tra cui far ricordare la propria infanzia, dare l’abilità di passare un esame o fornire esempi di teoria psicoanalitica. L’atto della lettura produce questi effetti desiderati, ma questi non indicano valori intrinseci. Tuttavia il valore intrinseco di un’opera non può essere indipendente da tutti gli effetti perché le opere d’arte hanno valore solo per gli esseri umani: l’esistenza stessa delle opere d’arte dipende dalle reazioni degli esseri umani all’arte. I valori artistici e, di conseguenza, i valori letterari sono in questo senso valori relazione-dipendenti. Dunque ora la domanda è: quali effetti – o quali reazioni – sono direttamente correlati al valore intrinseco di un’opera, e quali sono soltanto effetti “fortuiti” o strumentali?
Un’idea è che il valore intrinseco di un’opera sia connesso solo alle proprietà intrinseche dell’opera, quelle proprietà che le conferiscono un carattere unico. Un’altra idea colloca il valore intrinseco assieme al valore di un’esperienza intimamente legata all’opera. Ma una volta ammesso che alcuni effetti dell’opera – come l’esperienza piacevole – sono connessi al valore intrinseco, dove si può tracciare il confine fra intrinseco e strumentale? La questione non è di facile risoluzione, ma per Lamarque farlo è anche relativo. A prescindere dal modo in cui la questione intrinseco/strumentale viene risolta, sembra proprio che bisogna ricercare il valore letterario, per quanto possibile nei valori intrinseci e non in quelli strumentali, nel modo in cui tale distinzione è normalmente intesa. Con la particolarità che parlando di letteratura, e non di arte in generale, necessita una concezione più definita delle esperienze rilevanti cui sono legati i valori intrinseci.
E il valore di un’opera letteraria, ve bene ribadirlo, è legato alla misura in cui adempie al suo scopo. Un’opera letteraria – una poesia, un romanzo, un dramma – è un oggetto istituzionale, un testo collocato in una rete di convenzioni e azioni: un’“opera”.
La comunità letteraria include sotto la stessa etichetta “letteratura” «poesie e poemi, novelle e romanze, ma anche la testimonianza davanti a un giudice di un agricoltore analfabeta su questioni di proprietà privata; o una raccolta di privatissime lettere di un carcerato delle prigioni fasciste»xxxvii. Sia testi, quindi, concepiti e realizzati secondo precise intenzioni, norme e finalità estetiche, sia testi la cui originaria funzionalità è inconfutabile ma che, una volta perduta, possono entrare a far parte del dominio della letteratura, come i Placiti cassinesi, le Lettere di Gramsci o la produzione storiografica, filosofica, politica, didattica, religiosa di una determinata cultura. Impostando il problema in termini diacronici, dunque, la distinzione tra finalità “pratiche”, che qualificherebbero un testo come non letterario, e l’assenza di finalità “pratiche”, propria del testo letterario, e quindi artistico, viene a caderexxxviii.
All’interno della corrente relativistica, che prevede una differente considerazione delle opere a seconda del contesto storico-culturale in cui sono prodotte e recepite, Di Girolamo ha asserito l’impossibilità di individuare a priori le caratteristiche intrinseche della letteratura e ritenuto che la sola ricerca possibile sulle costanti letterarie debba considerare l’evoluzione storica del termine, poiché spetta al pubblico dei lettori decretare lo statuto letterario di un’operaxxxix. Sulla stessa scia, Eagleton afferma la connessione tra l’idea della letteratura e l’ideologia sociale, rifiuta il carattere di pura finzione attribuito alle opere e sostiene la variabilità dello statuto letterario al modificarsi delle contingenze storiche e culturali di riferimentoxl.
Inoltre l’attività letteraria sembra avere e aver avuto una funzione rilevante nell’evoluzione umana perché, coinvolgendo fortemente l’uomo in mondi possibili che sono lontani dalle sue abitudini e dalle sue certezze, lo rende più preparato ad affrontare i mutamenti del suo ambiente. Ha quindi un ruolo importante nell’evoluzione dell’uomo e nel suo adattamento all’ambiente esternoxli. Essa è una forma di gioco cognitivo che presenta la simulazione di situazioni, nelle quali troviamo modelli di comportamento che ci permettono di entrare mentalmente all’interno dell’esperienza di altre persone. Prima dello sviluppo delle scienze umane, è stata la lettura a offrire informazioni sull’uomo. Per gran parte della storia umana, i migliori psicologi sono stati i drammaturghi, i poeti, i romanzierixlii.
L’efficacia della letteratura sta in ciò per cui, nel momento in cui l’io del lettore si identifica con quello del protagonista, quest’ultimo, pur difettando di verità in senso proprio, acquisisce di universalitàxliii.
Mentre Lamarque e Olsen accordano alla finzione uno “spazio logico”xliv che in teoria travalica la specificità della letteratura, Currie insiste sulla sovrapponibilità tra letteratura e finzionexlv, e Matravers si concentra su una più graduale distinzione tra fiction e non fictionxlvi. Lamarque e Olsen promuovono una no-truth theory della letteratura, ovvero l’idea per cui il riferimento alla verità perde costitutivamente di importanza quando si parla del rapporto tra letteratura e finzione.
Basti pensare al cosiddetto emotional engagement, che trae origine da una riflessione sul paradosso della finzione, o paradosso della tragedia, e che si chiede come sia possibile che emozioni reali siano generate da vicende e personaggi di finzione. Tutte le possibili soluzioni al dilemma vengono confutate a partire dal confronto con l’esperienza del falso nella vita reale e di dialoghi inventati ma non per questo considerati meno esemplari pur nella loro ostentata astrattezza.
Chissà se poi è così vero che le emozioni suscitate dall’arte siano uguali a quelle della vita realexlvii. Può essere, al contrario, proprio la differenza tra la vita e la letteratura, l’immaginazione e la realtà, la condizione dell’esperienza estetica e della produttività della riflessione artisticaxlviii.
Solo la narrativa, come una sorta di educazione sentimentale, può rappresentare quell’intreccio di pensieri, sentimenti, emozioni, desideri e movimenti dell’animo che contribuisce a esercitare la nostra intelligenza e a orientare le nostre deliberazionixlix.
A questo punto è necessario ricordare l’importante distinzione operata nel testo da Lamarque tra il valore strumentale della promozione dell’empatia e il valore intrinseco della natura empatica di certi brani di prosa letteraria. L’empatia di un testo non provoca automaticamente una risposta empatica.
L’opera letteraria, lungi dall’essere fine a sé stessa, si concretizza mediante la cooperazione tra autore empirico e il suo lettore realel. Solo questa interazione dialogica porta alla formazione dell’ouvrage de l’esprit: uno sforzo letterario che unisce la libertà autoriale e la responsabilità che l’atto di scrittura comporta, sia nei confronti del pubblico sia della scrittura stessali.
Ed è proprio il legame che unisce autore e lettore a condurre all’ultimo significativo tema trattato da Lamarque: la critica valutativa di un’opera letteraria.
Quando si giudica un’opera come letteratura la si pensa non solo come testo, storia o versi, bensì sempre dalla prospettiva di quello che si ritiene sia il fine dell’opera o di ciò che spinge a considerarla un’opera d’arte. Un’interpretazione che incide per forza sul giudizio dell’opera.
Non sempre è stato sottolineato quanto in realtà, in origine, la critica letteraria moderna sia stata una critica della modernità.
La critica che ha preceduto la svolta, ossia quella di ispirazione classicistica, si fondava su un curpus di testi che una lunga tradizione aveva reso canonici. Una tradizione sufficientemente omogenea, che traeva la sua legittimazione dal referente classico e in particolare aristotelico, e che si era espressa attraverso prevedibili architetture formali e collaudate retoriche espositive.
La critica cosiddetta “romantica”, a cui si deve la formazione dei nuovi paradigmi teorici relativi all’idea di letteratura e di critica moderna, si è espressa invece in una varietà tipologica di scritture e ha adottato modalità del discorso critico antitetiche alla forma del trattato e alla sua retorica dell’argomentazione e della dimostrazione. Ciò che si imporrà a fine Settecento sarà non solo un pensiero della relativizzazione storica delle espressioni culturali in ragione della loro localizzazione temporale e geografica, ma soprattutto la consapevolezza che quelle espressioni entrano in relazione con un regime di aspettative e con modalità di lettura altrettanto soggette al cambiamento storico. Si trattava cioè di superare l’immagine del proprio tempo storico come età della privazione, della mancanza e della decadenza artistica per declinare per la prima volta un discorso in positivo, dicendo ciò che il Moderno era anziché ciò che non eralii.
Partendo dall’idea che tutte le azioni umane, comprese quelle dell’immaginazione, sono parte di un processo evolutivo, la concezione evolutiva dei meccanismi estetici consiste nel mettere da parte le interpretazioni metafisiche, sociologiche, economiche, formali e psicologiche (non nel senso evolutivo del termine), per chiedersi come le rappresentazioni estetiche illustrino, esemplifichino e modellino l’interazione di forze biologiche “cablate”: la sopravvivenza, la riproduzione e l’espansione della specie, la competizione e la cooperazione tra persone, famiglie e comunità, la parentela, l’affiliazione sociale, gli sforzi per acquisire risorse e influenza, la dominazione, l’aggressività e il bisogno di immaginazioneliii. Queste imprese riduzioniste sono congruenti con la preoccupazione fondamentale delle teorie letterarie di oggi: vedere la letteratura non come un intrattenimento o un’attività seria ma tutto sommato marginale e disinteressata, bensì come una necessità universale della specie umana, presente in tutte le culture e che svolge un ruolo funzionale nelle societàliv.
Irma Galgano, laureata in Lettere, indirizzo geografico-antropologico, è docente per le classi di concorso A012, A018, A019, A021, A022, A054. Formatore e Supervisore EIPASS, docente esperto nei percorsi di orientamento e formazione per il potenziamento delle competenze STEM, digitali e innovazione, docente L2 – Insegnante di italiano per stranieri, collabora con varie riviste.
Note
iPeter Lamarque, Filosofia della letteratura, edizione italiana a cura di Lorenzo Graziani, Mimesis Edizioni, 2024. Traduzione di Matteo Gozzi e Lorenzo Graziani. Titolo originale: The Philosophy of Literature (2008).
iiMassimo Rizzante, La letteratura è un’arte?, in Peter Lamarque, Filosofia della letteratura, Mimesis Edizioni, 2024.
iiiWolfgang Iser, La struttura di appello del testo, tr. it. di P. Laffi, in R. Ruschi (a cura di), Estetica tedesca oggi, Unicopli, 1986.
ivStanislas Dehaene, I neuroni della lettura, trad. it. di C. Sinigaglia, Raffaello Cortina, 2009 e Maryanne Wolf, Proust e il calamaro, trad. it. di S. Galli, V&P, 2009.
vDario Cecchi, Il lettore esemplare. Fenomenologia della lettura ed estetica dell’interazione, in The science of future. Promises and previsions in architecture and philosophy – rivista di estetica – 71 | 2019.
viMarta C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, trad. it. di R. Falcioni, Il Mulino, 2011.
viiMarta C. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, a cura di G. Zanetti, trad. it. di S. Paderni, Carocci, 1999.
viiiGiuseppe Mantovani, Analisi del discorso e contesto sociale, Il Mulino, 2008.
ixJerome Bruner, La ricerca del significato: per una psicologia culturale, trad. it. Bollati Boringhieri, 1992.
xSimone Giusti, L’esperienza della lettura, introduzione a S. Giusti e F. Batini (a cura di), Imparare dalla lettura, Loescher Editore, 2013.
xiTzvetan Todorov, La letteratura in pericolo, trd. it. Garzanti, 2008.
xiiVittorio Spinazzola, La modernità letteraria, Il Saggiatore, 2001.
xiiiSimone Giusti, L’esperienza della lettura, op. cit.
xivJoseph Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte? Lezioni di filosofia dell’arte, trd. E cura di Andrea Baldini, Mimesis, 2011.
xvAlessandra Tosi, L’esperienza estetica: un varco oltre i limiti del significato, in Comparatismi 3 2018.
xviTerence Cave, The Cornucopian Text. Problems of Writing in the French Renaissance, Clarendon Press, 1979.
xviiLorenzo Graziani, Introduzione all’edizione italiana, in Peter Lamarque, Filosofia della letteratura, edizione italiana a cura di Lorenzo Graziani, Mimesis Edizioni, 2024.
xxviiLuigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1971.
xxviiiMarika Tantillo, Che cos’è la letteratura? Di Jean-Paul Sartre, in Diacritica, A.X. n. 53, 23 agosto 2024.
xxixMichele Stanco, In che modo gli scrittori ci parlano di letteratura? Saggi e paratesti, disseminazioni, maschere, Introduzione a La letteratura dal punto di vista degli scrittori, a cura di M. Stanco, Il Mulino, 2018.
xxxE.M.W. Tillyard e C.S. Lewis, The Personal Heresy: A Controversy, Oxford University Press, 1939.
xxxiAlexandre Gefen, A che punto è la teoria letteraria?, in narrativa – nuova serie 46 | 2024.
xxxiiJean-Marie Schaeffer, Les Trobles du récit. Pour une nouvelle approche des processus narratifs, Thierry Marchaisse, 2020.
xlTerry Eagleton, Literary Theory: An Introduction, Pencil Notations and Underlining, 1983.
xliSi vedano: Joseph Carroll, The Human Revolution and the Adaptive Function of Literature, in Philosophy and Literature, 30, 1, 2006; Brian Boyd, On the origin of Stories, cognition and fiction, Belknap Press of Harvard University Press, 2009; Aldo Nemesio, La letteratura e altre esperienze, in Comparativistica e intertestualità, a cura di G. Sertoli, C. Vaglio Marengo, C. Lombardi, Edizioni dell’Orso, 2010; Keith Oatley, Such Stuff as Dreams. The Psychology of Fiction, Wiley-Blackwell, 2011.
xliiAldo Nemesio, Le ragioni della ricerca empirica sul testo, in CoSMo – Comparative Studies in Modernism, n. 4 – 2014.
xliiiArthur Danto, La destituzione filosofica dell’arte, a cura di T. Andina, trad. it. Di C. Barbero, Aesthetica, 2020.
lCesare Segre, Avviamento all’analisi di un testo letterario, Einaudi, 1985.
liDenis Benoît, Littérature et engagement, Éditions du Seuil, 2002.
liiRoberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e Schleiermacher, Mimesis, 2013.
liiiJoseph Carroll, An Evolutionary Paradigm for Literary Studies, in Reading Human Nature: Literary Darwinism in Theory and Practice, Suny Press, 2011.
livAlexandre Gefen, A che punto è la teoria letteraria, in Narrativa – Nuova Serie, 46 | 2024.
Articolo pubblicato sul numero 76 di Dialoghi Mediterranei , rivista scientifica per le aree disciplinari 10 e 11 (delibera Anvur n. 110 del 11-05-2023, con decorrenza dal 2018), link all’articolo: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lettura-e-lettori-filosofia-e-critica-dellarte-della-letteratura/
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Fin dall’infanzia la passione di Teodoro Lorenzo è stato il pallone che egli bambino rincorreva nel cortile di casa. Passione che poi si è trasformata in amore per il gioco del calcio. Un amore che per un breve periodo è diventata anche una professione. Il suo ritiro dal mondo del calcio risale al 1988 ma egli sembra non aver mai tradito la sua grande passione né accantonato il suo amore. Per il pallone, per il calcio e per tutto ciò che sta intorno. Anche se nel libro afferma il contrario, dichiarandosi innamorato del “giocare al pallone” e non del “gioco del calcio”.
Come sottolineava il sociologo tedesco Kurt Weiss, nella percezione del tempo dei tifosi il presente ha un ruolo marginale1. Il legame identitario che anima una comunità di tifosi li porta infatti a privilegiare il passato, esaltando le gesta che sono parte della memoria collettiva della fandom2.
Anche l’autore sembra mantenere questo mood laddove ricorda, per quasi l’intero libro, i tempi andati.
Il libro si apre al lettore con un adagio che è la sintesi perfetta dell’intero libro: Nel corso del tempo i paesaggi cambiano; di quel che era restano soltanto cartoline ricordo. Esattamente ciò che risulta essere il libro di Teodoro Lorenzo al letto: una cartolina del tempo andato.
La struttura del libro è un po’ particolare. L’autore imposta i capitoli come fossero pagine del suo diario, iniziando sempre con indicazioni spazio-temporali e descrizioni che introducono l’argomento. Di quello che dovrebbe essere l’argomento. Perché, durante la narrazione, egli si lascia spesso andare a divagazioni che toccano le più svariate argomentazioni e che lasciano, in alcuni momenti, il lettore sconcertato, incerto sulla reale e ben comprensione dello scritto. Del contenuto come anche del messaggio che l’autore voleva comunicare. A tratti, le divagazioni presenti nel testo sembrano più delle arringhe da tribunale che narrazioni di parti biografiche.
In alcuni tra i più recenti scritti di Gianni Celati (Avventure in Africa, Cinema naturale, Fata morgana), la scrittura seguiva in modo singolare e autonomo il carattere, la fisionomia dello spazio rappresentato, e si faceva pertanto il più possibile senza ondulazioni. Ed era su quella piattezza che prendevano corpo quelle apparenze disperse negli spazi vuoti che il narratore cercava di ricucire: apparenze che cambiano a ogni apertura d’occhi, disorientamenti infiniti che richiedono sempre nuovi racconti, sospesi tra il fascino di un meraviglioso quotidiano da riscoprire tramite dettagli a prima vista insignificanti e terra desolata ostile e inappartenente come un pianeta lontano3. Teodoro Lorenzo sembra inseguire lo stesso ideale di scrittura.
Nel corso dei secoli la letteratura che ha ruotato intorno al tema dello sport e che a esso si è ispirata o come fonte di poesia o per ricavarne indicazioni morali si è trasformata, non sempre seguendo modelli uniformi. Essa ha piuttosto seguito i cambiamenti che hanno coinvolto non solo le varie attività atletiche ma anche i sistemi e i modi della comunicazione, secondando le mode e le culture delle epoche e delle civiltà diverse. Nella tradizione italiana, una testimonianza esemplare agli inizi dell’Ottocento ha impegnato uno dei giganti della nostra poesia: Giacomo Leopardi. Sul rapporto tra vigore del corpo e forza dell’animo lo Zibaldone è ricco di annotazioni. Nel mondo antico c’era una corrispondenza diretta tra possanza corporea e possanza spirituale, immaginativa, eroica, la quale è stata via via cancellata col progresso della ragione e con l’indebolimento dei corpi, disabituati a coltivare il vigore e l’agonismo4.
L’autore compie un’accurata critica del gioco del calcio oggi che, a suo dire, è diventato un altro sport. Una sorta di rugby giocato con i piedi. Manifesta apertamente la sua ostilità verso l’idea che il calcio sia un gioco collettivo a discapito del talento individuale. Per vincere, nella sua ottica, una squadra ha bisogno di giocatori forti, necessita di campioni. Non è il collettivo o la tattica a far vincere le partite: sono i giocatori.
Nella fisicità naturale del corpo umano i piedi, destinati all’equilibrio e al movimento, sono governati da una quantità di neuroni minore a quella degli apparati prensili e dell’articolazione. Ciò ha un’importante conseguenza: è difficile riuscire a padroneggiare un oggetto con un organo così sfavorito. Eppure è proprio la capacità di utilizzare i piedi per costruire la trama ripetuta delle azioni di gioco che viene esibita, con maggiore o minore destrezza, ogni volta che due squadre di calciatori si affrontano su un campo di calcio, sia esso un grande stadio che raccoglie migliaia di spettatori o un anonimo campetto di periferia. Il calcio non è un gioco naturale, ma, al contrario, un gioco tecnico difficile ed è proprio questa caratteristica che gli conferisce il fascino dell’imprevedibilità, spesso accompagnata dalla bellezza estetica con cui si manifesta.
Nonostante le variazioni locali e nazionali, gli antecedenti popolari del calcio moderno – sia in Francia sia in Inghilterra (soule e hurling over country) – avevano in comune almeno una caratteristica: erano tutte lotte fatte per gioco, ma con una tolleranza consuetudinaria per il livello di violenza fisica notevolmente superiore a quella consentita di norma nel calcio moderno.
In Italia, qualche secolo più tardi, il gioco del calcio raggiunge il suo momento di massimo fulgore a Firenze, sotto la signoria dei Medici. Gli incontri di calcio fiorentino si disputavano soprattutto in occasione di matrimoni principeschi e visite illustri avendo per teatro la piazza di Santa Croce o Santa Maria Novella, quando non venivano giocati in un grande prato, posto subito fuori le mura della città. Inizialmente riservato esclusivamente ai nobili, in seguito vi prendevano parte i giovani di tutte le contrade cittadine ed era un’attività nella quale tutti si sentivano coinvolti. Non vi era una separazione chiaramente definita tra il ruolo dei giocatori e quello degli spettatori. Ciò si riscontra a partire dall’epoca rinascimentale.
Se è storicamente vero che le regole del calcio sono nate nelle Public Schools inglesi, la diffusione di questo gioco come fenomeno sociale su scala internazionale ha seguito percorsi differenti a seconda delle nazioni in cui, nel corso del primo Novecento, esso ha messo profonde radici. Un processo che ha portato il calcio a divenire, in un arco di tempo abbastanza breve, the people’s game. Un gioco di tutti sia perché praticato, a livello professionistico e amatoriale, da giocatori di ogni classe sociale, sia perché il pubblico che assisteva alle partite era in genere socialmente molto composito.
Il calcio, inteso come attività sportiva di tipo agonistico praticata da un gran numero di giovani e meno giovani, è un aspetto tutto sommato secondario del calcio moderno, che è essenzialmente “calcio spettacolo”, una forma composita di attività agonistica e intrattenimento ludico nella quale il pubblico non è formato esclusivamente da semplici spettatori che assistono a una competizione/rappresentazione. Oggi il pubblico è divenuto esso stesso parte integrante di un evento sportivo, che manifesta la propria presenza partecipata con esibizioni scenografiche di vario tipo5.
Per quanto concerne i giocatori, se è vero che nelle gerarchie sociali alcuni si collocano ai gradini più alti della scala di ricchezza e popolarità, il loro prestigio e il loro potere sociale restano nel complesso modesti. Essi appartengono a quella che Alberoni ha definito, parlando del divismo, “l’élite senza potere”6.
In alcuni passaggi del libro anche l’autore sembra sentirsi una “élite senza potere”, soprattutto laddove ritiene che alle sue idee e opinioni non venga dato il giusto risalto e critica, e narra degli immeritati, a suo dire, avanzamenti di carriera di altri giocatori o allenatori. E la sua sembra diventare a tutti gli affetti una “voce senza potere”.
Sicuramente uno dei motivi che può averlo spinto a scrivere il libro è proprio la divulgazione del suo pensiero e delle sue personali opinioni.
L’autore dedica il libro a: Comandante Mark, Pietro Anastasi, Primo levi e se stesso.
Si tratta di una dedica quantomeno singolare, diretta a persone in vita e non, reali e no.
Il Comandante Mark è un personaggio immaginario, protagonista dell’omonima serie a fumetti western ideata nel 1966 dal gruppo di autori noto come EsseGesse (Pietro Sartoris, Dario Guzzon e Giovanni Sinchetto). Rimasto orfano e cresciuto in un villaggio pellerossa, Mark aderirà alla causa dei patrioti americani contro le Giubbe Rosse e, intorno a lui, si crea un gruppo di coloni denominati i Lupi dell’Ontario. Le avventure raccontate sono tipiche delle produzioni western.
Il genere western è il frutto dell’immaginazione di scrittori pulp, illustratori, pittori, fumettisti, politici e intellettuali. Non corrisponde alla realtà storica. La fortuna del genere è dovuta anche alle contraddizioni e ambivalenze che si possono trovare al suo interno, le quali permettono al western di adattarsi alle esigenze dei vari momenti culturali senza venire mai meno a una certa coerenza a una certa coerenza stilistica – fatto che dimostra quanto il western sia un genere molto meno statico e formulaico di quanto certa critica abbia voluto riconoscere7.
Come per il genere western anche la narrazione intorno al gioco del calcio è lontana dalla realtà?
Se da un lato la trasformazione di un gioco popolare inglese polimorfo in Association Football o soccer ebbe il carattere di un lungo sviluppo in direzione di una maggiore regolazione e uniformità8, dall’altro il calcio, come fenomeno storico-sociale, si è intrecciato dicaronicamente in maniera dialettica con diversi e complessi aspetti; certamente con il processo di progressiva industrializzazione e di crescita economica, come pure la transizione demografica, con l’urbanizzazione e con la modernizzazione politica.
L’agilità, la vigoria e le plastiche figure dei calciatori se richiamano, già nell’età giolittiana, l’attenzione di molti pittori – da Boccioni a Campigli a Montanari e, più tardi, Carrà sino a Guttuso e Schifano, tra gli altri – diventano pure argomento di racconti e narrazioni entusiastiche per il dinamismo del gioco e per quei gol talvolta inaspettati che gonfiano la rete.
Dall’entusiasmo al fanatismo il passo fu breve per Marinetti e i suoi accoliti futuristi. Lo sport era per loro un credo, un mito, ne facevano anch’essi una Musa ispiratrice9. Certamente il dannunzianesimo e il futurismo rispondevano ideologicamente al disegno fascista di mutazione antropologica della gioventù italiana.
L’interesse verso il gioco del calcio è proseguito anche nel secondo dopoguerra. Iperbole, alliterazioni, figure retoriche e metafore dal giornalismo sportivo trasmigrano nelle pagine della letteratura, ma anche nelle riflessioni filosofiche10 e psicoanalitiche11, configurando una riflessione culturale e un ampio dibattito non solo sul gioco ma anche sugli aspetti tecnici del calcio. Gli scrittori associano il gioco del calcio con un flash rivolto alle spalle: alla propria infanzia e alla propria adolescenza.
Il tema calcistico si dipana in molti articoli di Pasolini per quotidiani e periodici. Con sicura consapevolezza, egli afferma: Non sono né Roland Barthes né Greimas, ma da dilettante, se volessi, potrei scrivere un saggio sulla ‘lingua del calcio’12. Dunque il calcio è, tra le diverse tipologie, una lingua, ossia un sistema di segni, così come sistemi di segni non verbali sono propri della pittura, del cinema e della moda.
Una ragione per cui il calcio è considerato il “re” dei giochi potrebbe essere che, per praticarlo, lo si può fare con chiunque, in qualunque modo e ovunque. Si caratterizza, ieri come oggi, per il collettivo, la squadra, la cui organizzazione di gioco si può considerare un paradigma che aiuta a capire concretamente le implicazioni filosofiche a esso sottese. Se la squadra è la totalità, i giocatori sono le parti.
Riprendendo la definizione di Stato di Hegel, Matassi sovrappone i due concetti: Lo Stato rispetto alle sue componenti è il primo principio perché la famiglia e la società civile (le parti) realizzano il proprio fine solo se si commisurano allo Stato (la totalità)13.
Il gioco del calcio che, in questo senso, assume, o dovrebbe assumere, una forte valenza formativa nei giovani: educarli al rispetto delle regole, alla socializzazione, all’amicizia, al senso di appartenenza e alla sensibilizzazione interculturale.
Ma questo sport va in questa direzione, o contravviene ai principi etico-formativi appena accennati?14
Il presente sembra carico di dubbi, interrogativi e di premesse in parte negative; i principi etici fanno e faranno sempre i conti con il sistema di interessi economici delle oligarchie finanziarie; le squadre di calcio costituiscono un volano pubblicitario strategico proprio per la loro importanza mediatica. Appartiene ormai al passato il mecenatismo calcistico, quando i soci ne facevano una questione di prestigio sociale, oggi tutti parlano di soldi. Ma non si tratta nemmeno più di soldi, bensì di qualcosa di virtuale, che somiglia alle vendita all’asta di Sotheby’s, l’impressione è che le cose non abbiano più prezzo. Siamo entrati nel mondo della magia15.
L’autore sembra giungere alle medesime conclusioni e alle stesse critiche, giudicando severamente il calcio e il sistema in generale da cui si discosta e dissocia affermando di preferire di gran lunga il “gioco del pallone” a quello del “calcio” proprio per la sua estraneità a giochi di potere e interesse. Rievoca la spensieratezza del praticare questo sport in gioventù e in libertà, in un tempo che fu e che fa diventare il libro intero una “cartolina ricordo” del suo personale paesaggio cambiato.
1K. Weis, Tifosi di calcio nella Repubblica Federale Tedesca: violenze e provvedimenti, in A. Roversi (a cura di), Calcio e violenza in Europa, Inghilterra, Germania, Italia, Olanda, Belgio e Danimarca, Il Mulino, 1990.
2J. Bassi e E. Belloni, Più che un club. Tifoserie e identità storiche, in Diacronie. Studi di Storia contemporanea, n. 42, 2 | 2020.
3G. Almansi, Il letamaio di Babele, in Idem, La ragion comica, Feltrinelli, 1986.
4N. Soglia, Letteratura sportiva come genere? A un vincitore nel pallone, il rischio per vincere la noia, in Sinestesieonline – Supplemento della Rivista «Sinestesie», a. XI, n. 36, 2022.
5A. Cavalli, A. Roversi, Calcio: un fenomeno non solo sportivo, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002.
6F. Alberoni, L’élite senza potere, Vita e Pensiero, 1962.
7E. Bordin, L’invenzione del west(ern). Fortuna di un genere nella cultura del Novecento, in Iperstoria – Testi Letterature Linguaggi, 12 novembre 2012.
8N. Elias, La genesi dello sport come problema sociologico, in N. Elias Eric Dunning, Sport e aggressività, Il Mulino, 1989.
9S. Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion, 2017.
10Si vedano: B. Welte, Filosofia del calcio, Morcelliana, 2021; S. Critchley, A cosa pensiamo quando pensiamo al calcio, Einaudi, 2021; E. Matassi, La filosofia del calcio. In dialogo con Lucrezia Ercoli, Mimesis, 2023.
11U. Amato, La psicoanalisi del calcio. In dialogo con Sabrina Semprini, Tabula Fati, 2015.
12P.P. Pasolini, Il calcio «è» un linguaggio con i suoi poeti e prosatori, su Il Giorno, 3 gennaio 1971.
13E. Matassi, La filosofia del calcio. In dialogo con Lucrezia Ercoli, Mimesis, 2013.
14F. Bacchetti, Tra le pagine di scrittori e giornalisti-scrittori: una svolta stilistica, linguistica e interpretativa del calcio, in Studi sulla formazione, 26, 2023.
15V. Dimitrijević, La vita è un pallone rotondo, Adelphi, 2000.
Leggere uno scritto è sempre come entrare, ogni volta, nell’anima dell’autore, condividerne esperienze e sentimenti, passioni ed emozioni. Ciò è ancor più vero quando si legge una poesia, intima e profonda, come quella di Antonietta Gnerre. Un verso delicato il suo che sembra accarezzare il mondo, abbracciarlo senza riuscire a stringerlo. Cercarlo, trovarlo e lasciarlo andare perché esso, il mondo, non può essere posseduto ma solo ammirato. Come la natura. Come l’anima.
Attraverso i suoi versi, Gnerre racconta se stessa e la sua terra: l’Irpinia, con le sue colline, i boschi, i torrenti e i crinali.
I temi dell’opera di Gnerre sono quelli cari alla poesia del Novecento. Con lo sguardo sempre rivolto alla poesia religiosa.
Il rapporto tra poesia e religione cristiana è un sottoinsieme del rapporto tra poesia e poesia religiosa in genere, dove si configura il sentimento del divino intrinseco in ogni uomo con l’espressione poetica. Giambattista Vico sottolinea questo legame tra poesia e religione quando parla di “poeti teologi”. Tutto ciò che è un fatto di anima o si svolge nell’ambito della coscienza, se manda fremiti o armonie, è pura poesia e poesia religiosa, perché l’anima, immagine di Dio, rende sacro il canto1.
«Il linguaggio metaforico, parabolico, visionario, profetico dei libri sacri vive di una mutua esaltazione tra spirito religioso e spirito poetico, al punto che sarebbe difficile operare a posteriori una separazione che non ci fu nella scrittura». In questo modo Luzi in Poesia e romanzo descriveva la considerazione della poesia come linguaggio organico originariamente manifestazione del pensiero religioso.
Antonietta Gnerre sembra rifarsi molto a queste correnti di pensiero nella scrittura delle sue poesie, riconducendo sempre il suo pensiero alla volontà e all’opera di Dio.
Lo sguardo dell’autrice è rivolto all’osservazione della natura e degli elementi naturali del suo territorio, di cui dimostra di conoscere anche gli angoli più nascosti che diventano intimi, come i suoi versi, allorquando, partendo dall’osservazione di ciò che la circonda, ella giunge a ispezionare se stessa. Ed è proprio questo viaggio introspettivo che sembra condurla verso la riflessione mistica, coscienziale. La sua poesia sembra diventare, allora, una preghiera.
«Sradicato dai vivi, cuore provvisorio, sono limite vano». Scriveva Quasimodo in Al tuo lume naufrago. In questi versi Carlo Bo vedeva compendiato il senso stesso della ricerca umana e religiosa del poeta2, e viene messa in luce proprio la condizione di ontologica precarietà in cui versa l’uomo invischiato nella sua mortale finitudine3.
Anche Gnerre sembra perseguire una simile ricerca, ma dai suoi versi traspare una maggiore speranza, con ogni probabilità legata ai dettami della religione e ai suoi insegnamenti su aldilà e riscatto dell’anima.
«Da qui pronuncio che c’è fiducia per il mondo, per la piuma che trema sull’intonaco delle nostre mani.»
L’uso accorto dell’espressione “per la piuma che trema sull’intonaco delle nostre mani” rimanda a un’immagine molto chiara dell’essere umano e della fragilità della sua esistenza. Un essere, l’umano, che deve fare ammenda per la violenza, la guerra. Per l’esser sordo al mondo e alla natura.
«Noi siamo tronchi secchi che fingono di non conoscere più il mondo. Stiamo imparando di nuovo, come i bambini, il nome dell’arbusto del viale. Che nel tramonto si pettina di luce.»
Riconciliarsi con la natura è un modo per riconciliarsi con la propria esistenza e con il mondo? Questo sembra essere l’interrogativo base del libro di Gnerre. E come si fa ad appropriarsi del concetto giusto di “vivere secondo natura”?
Ogni poeta guarda il mondo e la natura attraverso i suoi occhi e trascrive le sensazioni e le emozioni, le riflessioni e le analisi che sono sempre e comunque personali, uniche e, per certi versi, irripetibili. Eppure per Rondoni l’unico modo per comprendere cos’è la natura è affidarsi ai poeti4.
La poesia di Antonietta Gnerre non sembra avere in sé questa ambizione, se non riferita alla persona della stessa autrice, la quale dimostra di avere una visione più intima e intimistica della poesia, strumento di espressione del personale cammino di studio e conoscenza, di se stessa e del mondo che la circonda, attraverso la natura e tutti i suoi elementi.
Arriva sempre un momento nella vita nel quale ci si sente quasi obbligati a fare i conti con ciò che è successo, con i desideri realizzati e quelli disattesi, con le emozioni provate e il dolore subito, le delusioni e le aspettative che ancora animano anche gli animi più provati. Un bilancio emotivo ed esistenziale che Fratus sembra aver messo per iscritto in Una foresta ricamata e voluto condividere con i suoi imponderabili lettori.
È proprio all’imponderabile lettore che l’autore si rivolge fin dal proemio della sua opera, un lettore, un soggetto, una persona che a tratti sembra essere o diventare la coscienza stessa di Fratus, emersa dagli abissi del suo essere per ricordargli del tempo passato e dell’uomo che è diventato.
Ricorda l’autore i tempo andati e si rivede fanciullo in giardino a scoprire il mondo che lo circonda e gli animali che lo popolano. Oppure su uno scoglio a scrutare l’orizzonte e l’infinito. Da quei momenti all’oggi, Fratus sente che è sfumata una vita. Non si dichiara apertamente deluso. Afferma di aver, nonostante tutto, realizzato i suoi sogni. Eppure traspare, dalle sue parole, una sorta di malinconia, afferente più alle perdite subite che agli obiettivi mancati. Vuoti, mancanze che l’autore sembra aver voluto sempre riempire con solitudine e silenzio. Il bosco con i suoi alberi e i suoi “rumori” hanno aiutato Fratus a non sentirsi solo o abbandonato. Parte di quella stessa natura che lo ha da sempre attratto e mai deluso.
Descrivere svevianamente una vita, partendo dal limen della gioventù e possibilmente sbordando in un accrescimento non tanto materiale quanto psichico, tutto cucito di motivi interiori, ha in sé un’innegabile attrattiva1. E Tiziano Fratus sembra essersi lasciato attrarre dal racconto, in chiave quasi confessionale, del suo essere interiore oltre che della sua esistenza pubblica e privata.
Stefano Agosti ha definito la scrittura di Flaubert una «poesia della prosa»2. Anche la scrittura di Fratus sembra una poesia della prosa che racconta la natura, nella doppia accezione: botanica e umana. Indaga l’autore il mondo che lo circonda. Esplora il territorio e l’ambiente. E, a ogni sentiero di bosco percorso, sembra ritrovare una parte di sé, del suo essere nascosto.
La scrittura di Flaubert è servita, invece, a Lalla Romano per realizzare che «la prosa può essere altrettanto rigorosa della poesia, che prosa e poesia anzi sono la stessa cosa»3. Si ritrova, nella prosa di Fratus, quel legame interno tra le parole tipico della poesia. Parimenti, si ritrova nella sua poesia quell’attenzione alla descrizione più che al dettaglio tipica della prosa.
L’autore sembra guardare anche al Futurismo, laddove ripudia la struttura classica della frase o del verso e lascia che le sue parole si abbarbichino intorno a una struttura centrale, portante e rassicurante come un albero, che assume svariate forme e dimensioni. Più che un avvicinarsi a i temi del Futurismo però, l’opera di Fratus sembra volerne ricalcare la ribellione. Fare propria la volontà di libertà e di liberazione. Dagli schemi certo ma, soprattutto, dal male, dal dolore, dall’inciviltà del viver “civile”. Con lo sguardo sempre rivolto alla Natura amica. Un cammino, quello percorso da Fratus nella vita e nella scrittura, che lo porta dal Futurismo a Naturalismo e Verismo, e viceversa.
Seguendo le riflessioni di Hyppolite Taine, il narratore non viene più visto come un inventore ma un osservatore che analizza una tranche de vie sottolineando i rapporti di causa-effetto che determinano i rapporti umani.
Nell’opera di Fratus i rapporti posti sotto la lente d’ingrandimento sono soprattutto quelli dell’uomo con la natura. E i rapporti di causa-effetto sono perlopiù le conseguenze dell’agire umano: «chiedo scusa al filo d’erba e chiedo scusa all’usignolo che batte le ali in gabbia e chiedo scusa al ruscello di cui ho deviato il corso e chiedo scusa al mare che ho inquinato».
Il rapporto uomo-natura è stato declinato in maniera diversa nelle differenti culture ma, nel corso del tempo vi è stata una progressiva accentuazione della visione antropocentrica.
Per noi europei la condizione generica è sempre stata l’animalità: tutti sono animali, solo che alcuni (esseri, speci) sono più animali di altri. Noi umani siamo i meno animali di tutti. Nelle mitologie indigene, al contrario, sono tutti umani, solo che alcuni di questi umani lo sono meno di altri. Tutti gli animali hanno un’anima antropomorfa: il loro corpo, in realtà, è una specie di abbigliamento che nasconde una forma fondamentalmente umana (con un’anima)4.
Negli scritti di Fratus si ritrova, innata, questa filosofia. Egli sembra esserci arrivato mediante l’osservazione di ogni essere abitante il bosco, la cui esistenza ha incontrato quella dello stesso autore, cambiandola radicalmente. Gli occhi di Fratus sembrano diventare quelli di Pascoli, ed egli stesso veste i panni del fanciullino osservando il mondo che lo circonda con lo stupore e la naturalezza che solo l’essere in bilico tra infanzia e maturità può dare.
Un equilibrio da cui l’autore sembra subito prendere le distanze, in uno slancio di ribellione che diventa volontà di diniego del passato e tensione verso il futuro.
«c’è questo mio silenzio e c’è il silenzio che abita i grandi alberi, e ci sono le vaste foreste, che sono grandi silenzi suddivisi e ordinati. e poi c’è la vastità dell’esistere, del pulsare, del nascere e del morire. E, alfine, c’è il pensiero, che non si adagia un attimo, che anche quando medito galoppa e invade e si incunea.»
Un pensiero, quello descritto da Fratus, che inneggia alla velocità, al dinamismo. In contrasto con il silenzio del bosco e della persona, statici, quasi fermi, passivi. Il pensiero in movimento si allinea di più con la vastità dell’esistere, del pulsare, del nascere e del morire. I versi di Fratus ricordano a tratti il manifesto futurista di Marinetti, lo scontro aperto con il latino, quel classico imbecille che ha testa, ventre, gambe e piedi piatti, ma non due ali per volare. Cerca, invece, Marinetti la velocità e il movimento5. Egli volveva chiudere i ponti con il passato, distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie. Fratus vuole chiudersi nel bosco. Il fruscio degli alberi e il cinguettio degli uccelli divengono allora l’elica turbinante di un aereo sopra Milano che ha ispirato il Manifesto tecnico della letteratura futurista, ed è questo nuovo “rumore” a ispirare Tiziano Fratus nella scrittura del suo personalissimo manifesto che egli immagina e descrive come un’opera d’arte, prima ancora che letteraria, e la suddivide in “quadri”.
Anche Fratus, come Marinetti e i futuristi, abbandona e ripudia le vecchie regole grammaticali e di sintassi creandone di proprie, tessendo i suoi versi come un vero e proprio ricamo che parte da alberi e natura e si sviluppa intorno a essi. Una tela nutrita e curata dai sentimenti e dalle emozioni dello stesso autore. Dalla sua stessa esistenza che galoppa intorno al pensiero incessante di questo autore il quale, in questo modo, urla tutto il suo silenzio.
Il libro
Tiziano Fratus, Una foresta ricamata. Parole scucite tra selve e silenzi, Mimesis, 2025.
1A. Fraccacreta, Crescere sempre con il romanzo di formazione, su Maremosso. Il magazine dei lettori, 22 marzo 2023.
2S. Agosti, Tecniche della rappresentazione verbale in Flaubert, Milano, Il Saggiatore, 1981.
3L. Romano, Vi racconto una storia. Itinerari nella narrativa italiana contemporanea, in Scuola e Territorio, Rimini, 1985, p. 155.
4E. Viveiros De castro, Lo sguardo del giaguaro. Introduzione al prospettivismo amerindio, Milano, Meltemi, 2023.
5A. Cipolloni, Marinetti e il Futurismo: il Manifesto, in Maremosso. Il magazine dei lettori, 18 novembre 2022.
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