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Almeno per la Cina, il presidente Donald Trump è un regalo che non smette di dare soddisfazioni. Sono queste le parole usate da Minxin Pei per introdurre la sua analisi sui rapporti Cina-Usa e sulle ripercussioni di scelte e azioni dei rispettivi governanti, riportata da Internazionale. Tutto il caos ingenerato dalle parole del presidente Trump e dagli scontri sull’esito delle elezioni sono infatti una vera e propria manna per la propaganda cinese.

Ciò, unitamente alle politiche ostili portate avanti in questi anni dal governo americano, non faranno altro che aumentare consenso e popolarità di quello cinese, servendo inoltre a smussare toni e azioni di tradizionali alleati i quali, al grido “prima gli Stati Uniti”, hanno trovato davvero difficile perseverare nella costruzione di un’ampia coalizione che potesse, in qualche modo, contrastare la Cina.

E così, ancora una volta, potrebbero essere stati gli stessi americani, questa volta per tramite del loro presidente, la causa dell’insorgere di incomprensioni, risentimenti e atteggiamenti ostili a livello internazionale. Sono in tanti a guardare e sperare che l’elezione del democratico Biden possa servire anche a scongiurare e mitigare accadimenti di questo tipo.

Sulla scia degli attacchi che Al Qaeda sferrò agli Stati Uniti l’11 settembre 2001, gli esperti di marketing promisero di rivedere la cattiva immagine dell’Impero del Mercato. Gli strateghi della comunicazione si misero al lavoro: il terrorismo islamico era forse la conseguenza di qualche incomprensione di base degli argomenti americani? Forse la “macchina del marketing globale” che aveva pubblicizzato le abitudini e i prodotti tipici dello stile di vita americano aveva in qualche modo alimentato un profondo fraintendimento dei valori positivi inerenti alla cultura materiale occidentale?

Una politica all’insegna del “Prima l’America” in effetti era dagli anni di inizio Millennio che non si sentiva, allorquando la Guerra Globale al Terrore scatenata dagli americani si sarebbe trasformata in una di quelle guerre infinite che hanno luogo nel momento in cui i grandi imperi combattono contro il proprio declino, provocando il caos.

E questo, nell’analisi di Victoria De Grazia, è segno inequivocabile della caduta del “grande impero del mercato”, ovvero dell’America che, con la sua democrazia degli affari, ha assunto per decenni la guida della lotta per la conquista del mondo con mezzi pacifici. 

«Fate in modo che le vostre idee e la vostra fantasia si diffondano per il mondo intero e, forti della convinzione che gli Americani siano chiamati a portare libertà, giustizia e umanità ovunque vadano, andate all’estero a vendere beni che giovino alla comodità e alla felicità degli altri popoli, convertendoli ai principi sui quali si fonda l’America»

(presidente Thomas Woodrow Wilson, Detroit 10 luglio 1916)

Come sottolinea più volte nel testo De Grazia, nel suo discorso pubblico, il presidente Wilson pose l’accento su quegli scaltri accorgimenti, su quella comunicazione seduttiva, su quella empatia calcolata che solitamente si identificano con la società dei consumi. Facendo in questo modo propria una nozione squisitamente statunitense della democrazia, quella che si potrebbe definire “democrazia del riconoscimento”, bassata su un minimo di elementi comuni, come indossare la stessa maglietta o le stesse scarpe da ginnastica, oppure ancora le stesse marche.

Un’immagine da esportare calcolata fin nei minimi dettagli. E, quando questa immagine vacilla o risulta essere distorta rispetto alle intenzioni, prontamente si cerca di correre ai ripari.

Il 2 ottobre del 2001, l’amministrazione Bush assegnò a Charlotte Beers, celebrata nel mondo delle relazioni pubbliche come la regina del branding, una nuova carica all’interno del dipartimento di Stato, nominandola sottosegretario per la Diplomazia pubblica e le Relazioni pubbliche. Nel marzo 2003, quando l’amministrazione Bush mosse guerra all’Iraq, Beers rassegnò le dimissioni per motivi di salute. Testimoniando davanti alla Commissione relazioni estere del Senato una settimana prima di dimettersi, concluse: Il divario tra ciò che siamo, ciò che vorremmo apparire e ciò che gli altri vedono in noi è spaventosamente grande.

Fino agli anni Novanta, il progresso della cultura americana del consumo, nel bene e nel male, è sembrato davvero il filo conduttore del progresso globale. Era una forza rivoluzionaria, dotata di invenzioni sociali e di un messaggio sul diritto al benessere efficaci quanto una rivoluzione politica nello scegliere i vecchi legami. Tuttavia, una rivoluzione non è permanente per natura, cambia rotta, si esaurisce. Oppure i principi e le istituzioni che difende si diffondono tanto da non essere più identificati con i promotori originali. Entrano in gioco nuove forze. Accade che le soluzioni del passato si trasformano in problemi del presente.

Anche se forse gli Stati Uniti sono ancora la forza più dinamica che sospinge l’attuale cultura del consumo globale, per certo non esercitano più un’influenza tecnologica tale da monopolizzare le innovazioni né nella produzione né nel consumo. E questo giustifica molte delle preoccupazioni commerciali del presidente Trump. E urlare il primato americano a gran voce non poteva di certo bastare a celare il bluff, esattamente come, agli inizi del nuovo millennio, le iniziative intraprese dal governo per assumere la gestione delle vendite avevano finito per rivelare che l’arte di vendere era diventata non uno strumento dell’arte di governare, bensì un suo surrogato e l’inquietante vetrina dove era esposta la politica dell’Impero, con la sua bellicosità globale.

Allora, tra le incertezze dell’opinione pubblica globale, le aziende statunitensi non sapevano più se fosse proficuo o meno associare la vendita dei propri prodotti alla vendita dell’immagine della nazione americana. E, ora che le multinazionali si sono globalizzate, nulla impedisce ai pionieri del multinazionalismo di cadere vittime dei predatori globali.

Potrà Biden rappresentare una efficace rete di sicurezza per l’immagine, prima ancora dell’operatività, del vecchio irresistibile Impero americano del Mercato?

Bibliografia di riferimento

Victoria De Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006 e 2020.

Titolo originale: Irresistible empire. America’s advance through twentieth-century europe.

Edizione italiana tradotta da Andrea Mazza e Luca Lamberti.

Victoria De Grazia insegna Storia europea alla Columbia University di New York. Sull’Italia del Novecento ha pubblicato Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista (1981) e Le donne nel regime fascista (1993). Con Sergio Luzzato ha curato il Dizionario del fascismo (2002).


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Giulio Einaudi Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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