Se non ci fa più alcun effetto interagire con un chatbot, dovrebbe invece scuoterci sapere che non c’è più ambito umano che non sia colonizzato da sistemi automatizzati – dall’istruzione al lavoro, dal bene pubblico ai diritti, dall’economia alla salute – e che il libero arbitrio forse non esiste più. È questo il nodo centrale dell’analisi condotta da Madhumita Murgia inEssere umani (Neri Pozza, 2025). Un libro non sull’intelligenza artificiale ma sugli esseri umani, sulla pervasività dell’IA sull’agentività umana, sul nostro essere umani che viene costantemente trasformato in dati vendibili e acquistabili. E così che le nostre vite vengono quotidianamente vendute, svendute e rimodellate.
I data broker sono delle società che raccolgono dati sulla vita online delle persone e li trasformano in profili vendibili. Le aziende di maggior valore oggi, genericamente indicate come Big Tech, hanno guadagnato secondo il medesimo principio: trasformando le nostre vite in nuvole brulicanti di dati in vendita.
Con l’aiuto di una piccola start up pubblicitaria, l’autrice è riuscita a rintracciare il suo profilo, ovviamente anonimo ma agevolmente riconoscibile. La versione di sé stessa anonimizzata era un dossier di circa dieci pagine compilate da un’agenzia di rating che opera anche come broker di dati.
Google, Meta e Amazon hanno raffinato le strabordanti riserve di dati che si riversano sulle loro piattaforme, generati da miliardi di persone in tutto il mondo, e, per fare soldi, hanno imparato a estrarre i dati e usarli per vendere raccomandazioni, contenuti e prodotti personalizzati e mirati. L’erede del business dei big data è una singola tecnologia: l’intelligenza artificiale. Negli ultimi anni il significato dell’espressione è cambiato, ma essenzialmente l’IA è un software statistico complesso applicato alla ricerca di schemi e relazioni in grandi dataset del mondo reale.
La questione di come allineare il software di IA ai valori umani è al centro del dibattito attuale – insieme alla questione di quali siano questi valori universali.
L’IA generativa è in grado di produrre testi scorrevoli, immagini e codici indistinguibili dalle creazioni umane, che vengono trasmessi senza filtri in tutto il mondo, influenzando profondamente pensieri e convinzioni. Si usano sistemi di IA per assumere personale, prendere decisioni in materia di investimenti, per consigliare alle persone come calmare l’ansia o diagnosticare disturbi. Ma quale morale è incorporata nel software? È un interrogativo evidenziato dall’autrice e indagato dai leader religiosi.
Sottolinea Murgia quanto il motto “innovazione responsabile” non sia mai stato il mantra della Silicon Valley dove, piuttosto, vigeva la regola indicata da Mark Zuckerberg “muoviti veloce e spacca tutto”. Il costo elevato di queste forze dirompenti è diventato evidente soltanto negli ultimi anni, basti pensare al ruolo dei social media nella manipolazione elettorale, nelle teorie del complotto e nei disturbi mentali degli adolescenti, all’impatto delle piattaforme di trasporto e consegna tramite app sui diritti dei lavoratori e alla perdita collettiva della privacy online.
E così l’autrice raccontando di sé stessa, di una poetessa britannica, di un rider di Pittsburg, di un attivista cinese in esilio, di una rifugiata irachena a Sofia e di un frate francescano a Roma, racconta in realtà dell’umanità tutta di questo ombroso Terzo Millennio in cui le luci abbaglianti del progresso a ogni costo rischiano di oscurare proprio ciò di cui avremmo più bisogno: il nostro “essere umani”.
Il libro
Madhumita Murgia, Essere umani. L’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2025.
Traduzione dall’inglese di Simonetta Frediani.
Titolo originale: Code Dependent. Living in the Shadow of AI.
Come si formano le identità politiche? Cosa collega le identità personali, individuali, alle identità di gruppo? Quale rapporto c’è tra le identità politiche, i gruppi, le istituzioni? Quesiti che possono essere soddisfatti solo mettendo in relazione le conoscenze acquisite dalla psicologia scientifica in tema di identità, individuali e collettive, con l’analisi istituzionale, con quanto si sa sulla genesi, il funzionamento e le trasformazioni delle organizzazioni e delle istituzioni politiche. Lo scopo che Panebianco si è prefisso nel libro è mettere a fuoco, nei suoi vari aspetti, un fenomeno così complesso in modo tale che risulti evidente la necessità per gli studiosi di superare gli steccati e le barriere disciplinari.
L’argomento del libro di Panebianco è il rapporto fra le identità politiche (individuali e collettive) e le dinamiche istituzionali: l’unico modo per poterlo affrontare è attingendo a una pluralità di tradizioni disciplinari. Nel corso del Novecento si affermano le specializzazioni disciplinari e si consolidano confini e barriere tra esse. Ma, sottolinea l’autore, non tutti i pesci restano impigliati nella rete. Diversi sono gli studiosi i quali, anche in tempi recenti, hanno condotti studi che avvicinavano due o più discipline e lo stesso Panebianco basa la sua indagine sulla necessità di erodere il confine tra le scienze sociali e, più precisamente, fra le scienze del macro (soprattutto scienza politica e sociologia) e la psicologia, nella ferma convinzione che ai politologi sia utile fare ricorso alle conoscenze acquisiste dalla psicologia per comprendere vari aspetti dei processi politici, e che agli psicologi sia parimenti utile tenere conto dei contesti istituzionali per spiegare credenze, atteggiamenti e comportamenti individuali e di gruppo.
L’identità è il tratto qualificante di una persona, riconoscibile proprio grazie a determinati caratteri. I valori provengono da un contesto diverso dallo spazio intimo in cui la persona coltiva la propria identità. C’è, quindi, il rischio che l’adesione a certi valori, ove non sia il frutto di una spontanea espressione di volontà, finisca col mortificare proprio quella libertà e autonomia dalle cui manifestazioni concrete dipende il progressivo affinamento dell’identità personale. Detto altrimenti, c’è il rischio che la persona debba piegare o, quanto meno, adattare la propria identità alla supremazia coattiva dei valori, rinunciando a una parte più o meno rilevante e cospicua di libertà e autonomia. Importante è, quindi, l’individuazione di un percorso metodologico, costruito intorno alla centralità della persona, che permetta ai “valori” di concorrere al processo di graduale definizione dell’identità personale senza che gli stessi attentino alla integrità dell’indefettibile e irretrattabile autonomia della persona stessa.
La persona può essere considerata quale entità che si muove su tre piani: quello psicobiologico (dimensione individuale); quello comunitario (dimensione sociale); quello istituzionale (dimensione politica). Il primo piano riguarda i rapporti della persona con sé stessa, il secondo i rapporti con gli altri consociati, il terzo i rapporti con l’autorità. Per cui si ipotizza che l’identità personale scaturisca dalla combinazione di identità individuale, identità sociale, identità politica1.
La domanda ora è se e in quale misura lo Stato, che incarna l’autorità e il potere, sia legittimato a concorrere a definire l’identità personale, agendo su quel segmento della stessa indicato come identità politica.
Lo Stato e la persona, pur avendo molteplici occasioni di contatto e di interazione, dovrebbero muoversi su piani distinti quanto alla identità personale2.
La politica, sottolinea Panebianco, ha due peculiarità: la prima è la territorialità – all’universalismo, almeno tendenziale, dell’economia o della cultura, si contrappone il particolarismo (territoriale) della politica -, la seconda è l’uso della forza – peculiarità connessa alla possibilità del ricorso alla violenza fisica.
La politica è, prima di tutto, un gioco contro personam3, implica sempre un conflitto. I rapporti tra governanti e governati sono dominati dalla «paura». La paura dei governati di essere oppressi dai governanti, la paura dei governanti che i governati si ribellino4.
Per cui la società non è soltanto un luogo di potenziale collaborazione tra le parti: è un contesto in cui si consumano ingiustizie, antagonismi, diseguaglianze, divisioni5.
È tuttavia doveroso fare una distinzione tra Stato liberale e Stato etico. Accedendo alla prospettiva liberale è giocoforza ammettere che l’identità personale sia il frutto specifico di un esercizio quotidiano di libertà e di autonomia. Se il perno intorno al quale ruota questa filosofia è la libertà, allora ciò che connota in modo esclusivo la persona stessa rappresenta il confine che l’autorità non può mai oltrepassare. Per un liberale, lo Stato garantisce la pace e l’ordine, distribuendo diritti e doveri, autorizzando le istituzioni all’uso della forza per ripristinare la legalità violata, presidiando la sovranità interna contro il rischio di ingerenze e aggressioni da parte di altri Stati. Stando così le cose, appare chiaro che l’opera di progressivo affinamento dell’identità personale non possa che essere un fatto individuale, una questione di coscienza propria e incoercibile della persona. Attraverso l’equilibrio così raggiunto dei diritti, lo Stato deve porre i cittadini nella condizione di educare sé stessi6. Il che significa conformare la propria esistenza all’identità che ogni persona possiede in via esclusiva. Forse, l’unico contributo che lo Stato offre al processo di emersione dell’identità personale è la cura verso la libertà degli altri. La filosofia liberale, dunque, è ostile a ogni impostazione organica dell’etica che subordini la persona a entità superiori, a cominciare proprio dallo Stato.
All’opposto si muove lo Stato etico che ha visto in Hobbes prima e in Hegel poi i suoi più autorevoli cultori. Per Hegel, lo Stato è sostanza etica consapevole di sé, quale unità e fusione di moralità e diritto astratto. Esso, dunque, assurge a fine supremo e arbitro assoluto del bene e del male.
Tra queste due contrapposte concezioni si colloca, però, la storia: un lungo e multiforme tragitto che ha visto alternarsi momenti di dominio tangibile della dimensione comunitaria a frangenti nei quali lo Stato, e l’autorità da esso incarnata, hanno assunto sembianze preponderanti sino a mettere in secondo piano la stessa autonomia sociale7.
L’identità del soggetto non si fonda però su un’esclusiva e onnicomprensiva visione del mondo, che fornisce indicazioni tanto dal punto di vista valoriale che per l’agire quotidiano, ma si costruisce attraverso pluriappartenenze, con la conseguenza del non poter più parlare di assolutizzazione dell’identità sociale8. Le condizioni di vita tipiche della società post-moderna e globale consentono agli attori sociali una maggiore libertà nella definizione della propria posizione sociale e successivi riadattamenti9. La loro quotidianità appare infatti caratterizzata da continui e profondi processi di riorganizzazione del tempo e dello spazio, differenziazione, disaggregazione che rendono le interazioni sociali sempre più complesse e interconnesse, fornendo all’individuo molteplici possibilità di scelta e introducendo una costante dimensione di incertezza10.
C’è poi un ulteriore aspetto trattato da Panebianco, ovvero in che modo l’insieme di relazioni politiche convenzionalmente definito “politica internazionale” condiziona le identità collettive e, a sua volta, ne è condizionato.
Le democrazie europee attraversano un momento di forti difficoltà. Per una molteplicità di cause. Ne Vecchio Continente stato nazionale e democrazia sono due facce della stessa medaglia. Molte delle difficoltà che oggi sperimentano le democrazie europee sembrano derivare da uno scollamento, e dalle connesse tensioni, fra lo stato nazionale e il regime politico democratico. Stato nazionale e democrazia in Europa sono messe sotto pressione a causa di tre sfide e del loro intreccio: gli effetti dell’accresciuta interdipendenza internazionale; le migrazioni e la conseguente trasformazione degli stati nazionali europei in stati multietnici; le minacce alla sicurezza. La pressione concomitante di queste tre sfide provoca riallineamenti e cambiamenti nelle identità politiche.
Panebianco descrive l’attuale situazione europea come la sovrapposizione di un’arena hobbesiana militare e un’arena hobbesiana civile. I cittadini hanno perso i punti di riferimento della loro identità politica “tradizionale” e altalenano tra posizioni favorevoli alla globalizzazione e posizioni contrarie alla globalizzazione, tra posizioni europeiste e atlantiste e anti-europeiste e anti-atlantiste, tra favorevoli all’immigrazione e contrari all’immigrazione.
Vacillando l’identità collettiva ne risente giocoforza anche quella individuale e qui si ritorna al punto centrale dell’indagine dell’autore: la necessità di un approccio multidisciplinare per comprendere innanzitutto quanto sta accadendo e tentare poi di trovarne le soluzioni.
Il libro
Angelo Panebianco, Identità e istituzioni. L’individuo, il gruppo, la politica, Il Mulino, Bologna, 2025.
1Q. Camerlengo, Valori e identità: per un rinnovato umanesimo costituzionale, in Consultaonline, 15 giugno 2022.
8F. Crespi, Le identità distruttive e il problema della solidarietà, in L. Leonatini (a cura di), Identità e movimenti sociali in una società planetaria, Guerini, Milano, 2003.
9L.M. Daher, Che cos’è l’identità collettiva? Denotazioni empiriche e/o ipotesi di ipostatizzazione del concetto, in SocietàMutamentoPolitica, Firenze University Press, Firenze, vol. 4, n. 8, 2013.
10A. Giddens, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994.
La democrazia non gode di buona salute. Sono molti i fattori che ne stanno erodendo le fondamenta e che mettono in serio pericolo la tenuta delle istituzioni. Non si tratta di una questione tecnica, lontana dal sentire della gente: è un problema che tocca da vicino la nostra vita quotidiana, la nostra società, minando il futuro di ciascuno di noi. Fornaro racconta dei quattro silenziosi “tarli del legno” che stanno scavando nel tessuto vivo delle democrazie: le diseguaglianze sempre più marcate (economiche e non solo), la perdita di memoria storica, l’uso spregiudicato delle fake news con il conseguente avvelenamento delle fonti della conoscenza e la mancata fiducia nel futuro.
L’autore invoca una difesa quotidiana e a oltranza della democrazia, per la difesa di quanto faticosamente raggiunto dopo il fascismo e per scongiurare il rischio di scivolamento verso forme di democrazia illiberale.
È importante partire dall’analisi del concetto stesso di democrazia e dal significato che le viene comunemente attribuito. Se la si vuol considerare come il governo del popolo allora non si può parlare di crisi perché ciò è sempre stato e sempre sarà un ideale irrealizzabile. Piuttosto intenderla come una formula di giustizia: un criterio per distribuire un bene, il potere politico, secondo il voto degli elettori1.
Uno dei punti su cui l’autore maggiormente si sofferma è l’astensionismo elettorale, da lui ritenuto, seguendo la scia dei pensatori europei, una grande criticità che comporta un elevato rischio di delegittimazione della democrazia.
Dei quattro “tarli” da lui indicati il più insidioso è la perdita di memoria storica, lesiva non solo per il presente, che diviene incomprensibile, ma soprattutto per il futuro. L’oblio della memoria che preannuncia l’eclissi del futuro, una contraddizione che ci induce a vivere in un eterno presente. Non si riesce più a comprendere la complessità della contemporaneità e la necessità di avere un approccio critico.
I quattro silenziosi “tarli del legno” che agiscono indisturbati da anni ormai producono, per Fornaro, una polvere bianca rappresentata dagli astensionisti. In Italia come in tutta Europa questi appartengono, per l’autore, in maggioranza al ceto medio-basso, con un basso livello di istruzione, e con una percezione dello Stato distante da interessi e problemi. Si sentono esclusi e demotivati. Marginali, come le aree dove vivono. Più alto infatti risulterebbe l’astensionismo nelle periferie rispetto al centro. Nelle aree montane e rurali rispetto al capoluogo della provincia. Un ritorno alla marginalità sociale ed economica che è evoluta in un risentimento che vede nell’astensionismo una forma di protesta.
Il non voto sfida la democrazia nella misura in cui costituisce una critica, nemmeno tanto velata, ai suoi attori e alle sue procedure. Astenendosi, gli elettori intendono ripagare i governanti con la loro stessa moneta, le cui due facce sono l’indifferenza e l’ostilità. Gli astensionisti sono un popolo più nomade che stanziale, la cui composizione è alquanto mutevole. I fattori che vanno a incidere, di volta in volta, sull’astensionismo sono molteplici e svariati ed è proprio il peculiare mix di questi fattori che spiega, per ogni elezione, quante e quali persone si recheranno alle urne. Sempre più spesso, però, questo mix produce una scarsa affluenza. Il problema che ne deriva è che se la soglia della partecipazione si abbassa più di un tanto, l’astensionismo sembra destinato ad avvitarsi su se stesso. Se a votare è una minoranza di elettori, è evidente che anche il senso di doverosità del voto, vero argine all’astensione, prima o poi verrà meno2.
La tesi espressa dall’autore è che il rischio reale non è un ritorno al passato, alle dittature del secolo scorso, bensì un andare incontro alle cosiddette “democrature”, forme di governo nelle quali non viene messo in discussione l’impianto generale della democrazia ma solo l’uso che delle sue strutture se ne fa. Una democrazia illiberale nella quale chi vince ritiene di avere pieno accesso e possesso per l’intera durata del mandato senza preoccuparsi minimamente degli equilibri politici e di potere.
La democrazia di derivazione liberale, o democrazia costituzionale, è una variante della classe “democrazia” o “Stato democratico” nella sua evoluzione storica. Si tratta del contemperamento tra diverse componenti – liberale, democratica e sociale – riflesse in una specifica cornice costituzionale che ha avuto un’espansione continua a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Tale evoluzione ha prodotto un risultato che ha consentito per oltre 70 anni alle democrazie occidentale di costituire un modello da esportare in altre aree d’Europa e del globo al termine dei regimi autoritari o socialisti e che è riflesso nei requisiti della condizionalità democratica europea. Tuttavia, la divaricazione tra profilo liberale e profilo democratico torna all’attenzione della dottrina nel momento in cui la componente liberale (in termini di divisione dei poteri, contrappesi contro-maggioritari e libertà fondamentali) viene confutata nelle versioni demagogiche e populiste o iper-maggioritarie della democrazia3. Già Sartori chiariva bene la diversa origine dell’ideale liberale e di quello democratico che, nella seconda metà del XIX secolo, si sarebbero fusi e confusi4. Gli equivoci deriverebbero dal fatto che, per indicare la democrazia, a volte si usa il termine “liberal-democrazia” (riversando nella democrazia tutti gli attributi del liberalismo) e altre solo “democrazia” (divaricando i due contenuti). Nel primo caso si lega il concetto di democrazia a quello di “governo costituzionale”5.
La tendenza emergente è che alcune “democrazie liberali” stiano diventando sempre meno democratiche e sempre meno liberali, proprio mentre alcuni regimi autoritari e semi-autoritari stiano diventando ancora più autoritari. La normalizzazione del fenomeno, dovuta anche a un aumento del sentimento di disaffezione verso le istituzioni democratiche, di un crescente sostegno a interpretazioni autoritarie di governo e la sua espansione in diverse aree del mondo, sta portando alcuni sistemi costituzionali a mutare in direzione di forme light di democrazia, che mettono da parte la tutela e la protezione dei diritti e delle libertà delle persone. In Europa, per esempio, insieme all’Ungheria è emblematico anche il caso della Polonia, che ha subito dei profondi cambiamenti da quando è stata ammessa nell’UE. Al momento dell’ammissione, aveva garantito il rispetto dei principi della “democrazia liberale”, mentre ora si assiste a una sottomissione progressiva del potere giudiziario all’organo esecutivo6.
Per Fornano questi nuovi nemici della democrazia sono più subdoli di quelli del secolo scorso perché non agiscono con attacchi diretti, per esempio alla costituzione, ma operano indirettamente, sminuendo l’antifascismo o ridimensionando gli attacchi ripetuti alla libertà di stampa.
Per l’autore è tempo di agire e di essere risoluti come i silenziosi quattro “tarli del legno” affinché si torni ad avere fiducia nella politica e nelle istituzioni democratiche e non si cada nella trappola della demagogia.
La politica e le istituzioni democratiche hanno quindi il precipuo dovere di porsi nella condizione di meritare la piena fiducia dell’elettorato e dei cittadini tutti. Coerenza, credibilità e affidabilità potrebbero risultare essere la migliore arma contro la sfiducia e l’astensionismo. L’urlo silenzioso delle urne vuote è un boomerang che attacca il presente, intacca il futuro e cancella gli sforzi di un passato che mai andrebbe dimenticato.
Il libro
Federico Fornaro, Una democrazia senza popolo. Astensionismo e deriva plebiscitaria nell’Italia contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino, 2025.
1M. Barberis, L’incanto del mondo. Un’introduzione al pluralismo, Meltemi, Sesto San Giovanni (Milano), 2024.
2V. Mete, D. Tuorto, Gli astensionisti, in Il Mulino – Rivista di Cultura e di Politica, 3 giugno 2025.
3A. Di Gregorio, La degenerazione delle democrazie contemporanee e il pluralismo semantico dei termini “democrazia” e “costituzionalismo”, in Saggi-DPCE online, 2020/3.
4G. Sartori, Democrazia e definizioni (1957), Il Mulino, Bologna, 2025.
6G. D’Ignazio, Le democrazie illiberali in prospettiva comparata: verso una nuova forma di Stato? Alcune considerazioni introduttive, in Saggi-DPCE online, 2020/3.
Le persone single, ovvero che vivono da sole e non hanno una relazione stabile, sono in aumento in tutto il mondo, compresa l’Italia. In aumento sono anche i singles studies: memoir, saggi, podcast e quant’altro analizzi e racconti questa condizione dell’esistenza sempre più diffusa ma ancora poco accettata e compresa.
Nel libro Smettetela di dirci che non siamo felici (Enrico Damiani Editore, 2025), Gabriella Grasso intreccia la sua voce a quella di altre trenta donne italiane di età compresa tra i 30 e i 69 anni che nella loro vita abitano o hanno abitato a lungo la singolitudine. I temi affrontati nel testo sono numerosi e spaziano dalla solitudine all’amicizia, dal sesso alla maternità, dalla quotidianità ai viaggi, dagli aspetti economici alla spiritualità e sono tutti affrontati dall’autrice con un certo spirito di ribellione, alle etichette e agli stereotipi innanzitutto ma anche alle paure e alle indecisioni. Un racconto volto a sconfiggere definitivamente quel senso di inadeguatezza che ottenebra l’esistenza di chi, per scelta o per caso, si ritrova a essere “persona singola”.
Nelle intenzioni di Grasso non sembra esserci una volontà di attacco o critica o denuncia. L’intento appare fin da subito quello di raccontare un modo di essere e di vivere che nulla toglie alla felicità e alle gioie di chi intraprende un percorso di vita diverso, fatto di relazioni stabili, matrimonio, figli.
Smettetela di dirci che non siamo felici non è una narrazione ridondante, l’autrice non enfatizza e non edulcora la realtà. Si limita a raccontarla. Le conseguenze, siano esse positive o negative, ci sono per ogni tipo di scelta, ovvio, per cui sarebbe inutile nasconderle. Grasso non lo fa. Eppure lo stesso, leggendo il libro non si può non chiedersi come sia possibile che nel 2025 sia ancora necessario puntualizzare e precisare che ognuno ha la piena libertà di scegliere come vivere la propria esistenza. Dovrebbe essere pleonastico e invece il reportage di Grasso si rivela una lettura necessaria proprio perché questa libertà di scelta sembra ancora non esserci, vittima di una stigmatizzazione che sembra colpire l’universo femminile con una ferocia anche maggiore di quello maschile.
Sono trascorsi oltre venti anni ormai da quando il ciclo di film di Bridget Jones ha portato alla ribalta uno stigma sociale – quello legato alle donne nubili over 30 (Shahrak et al., 2021) – e una forma particolare di fobia: la paura di restare single. Un recente studio ha scoperto che tale paura potrebbe rappresentare uno tra i principali fattori in grado di motivare la ricerca e il mantenimento di una relazione sentimentale (Apostolou et al., 2024). Più una persona ha paura di rimanere single, più si impegna nella ricerca di un partner. Le persone con maggiore autostima presentano una paura minore della vita da single (A. Boccaccio, 2024). Va da sé che le persone con maggiore autostima e consapevolezza di se stessi vivranno anche in maniera migliore una eventuale relazione di coppia.
Oltre alle parti autobiografiche e ai racconti delle 30 donne italiane, trovano spazio nel libro di Grasso anche le interviste fatte a antropologhe, sociologhe, esperte e podcaster di tutto il mondo che hanno unito la loro voce e le loro esperienze a favore dell’indagine condotta volontariamente su sole donne. Il motivo va ricercato ancora una volta nelle maggiori difficoltà riscontrate dalle donne a trovare una giusta collocazione sociale e familiare senza che il loro essere una soladiventi un’accezione negativa o peggio spregiativa.
Il libro di Gabriella Grasso fa comprendere quanto il mondo stia e debba allontanarsi dalla disperazione di fondo che emerge da narrazioni quali le vicende di Bridget Jones come anche di Carrie Bradshaw. Quest’ultima iconica protagonista del telefilm Sex and city che solo in apparenza liberava le donne dai tabù di sesso e relazioni mentre, in realtà, raccontava di un’infinita corsa, o meglio rincorsa all’anima gemella, al grande amore della vita.
Smettetela di dirci che non siamo felici è un libro che focalizza su un aspetto della società contemporanea spesso ignorato perché temuto: la consapevolezza che ognuno, anche le donne che scelgono di essere single, possano e debbano compiere le proprie scelte e vivere la propria vita come meglio credono senza per questo doversi sentire in debito o in difetto. Un libro che in una società evoluta e civilizzata non avrebbe avuto ragione di esistere ma che qui, oggi, di motivazioni ne ha tante. Purtroppo.
La strada è ancora lunga e tortuosa ma lavori come quello di Gabriella Grasso la fanno sembrare più agevolmente percorribile.
Daniel Miller suggerisce di concentrare l’attenzione su cosa fanno le persone con i media e non su quello che i media fanno alle personei, ovvero il loro condizionare l’agentività, la capacità umana di agire e insieme di costruire la propria identità, tenendo conto dei vincoli sociali, culturali e linguistici che determinano il nostro margine di azione. Le innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni hanno cambiato il nostro modo di rapportarci con il mondoii. Prencipe e Sideri svelano come, tra intelligenze artificiali senzienti, dilemmi morali e saperi frammentati, il “cavaliere” diventa figura-simbolo di un nuovo umanesimo, chiamato a riconciliare la potenza computazionale con la vulnerabilità umana. Il cavaliere artificiale conclude la trilogia di libri dedicati a Italo Calvino e alla sua operaiii con una narrazione che è a un tempo racconto filosofico e scientifico, riflessione socratica e ricerca sperimentale incerta (o in equilibrio) tra l’algoritmico e il cavalleresco.
In una realtà appesantita da problematiche ogni giorno più opprimenti e concrete gli autori scelgono di dedicarsi all’intangibile e farlo con leggerezza. Una leggerezza che è però quella di Calvino, non superficialità ma l’arte di planare sulle cose dall’alto e non avere macigni nel cuore.
«Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio.»iv
La pesantezza, l’inerzia, l’opacità sono qualità che appesantiscono il mondo al punto che sembra pietrificarsi, come sotto lo sguardo di Medusa cui solo Perseo è riuscito a sottrarsi. Ecco perché Calvino si rivolge a lui come idolo nella lezione sulla leggerezza, perché Perseo «si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole, e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio».
Il cavaliere artificiale trae spunto da diverse opere di Calvino – Il cavaliere inesistente, La memoria del mondo, Palomar, Amori difficili – per esplorare il paradosso delle tecnologie digitali: invenzioni invisibili, eppure, pervasivamente trasformative nella vita quotidiana, nel lavoro, nella politica e nella percezione del reale. L’intelligenza artificiale esiste in uno spazio virtuale senza possedere, almeno per ora, un corpo tangibile. Eppure, essa esercita un’influenza concreta: gli algoritmi filtrano l’informazione, i sistemi di automazione rivoluzionano intere industrie, supportano diagnosi e assistenti digitali o creano la Memoria del mondo, proprio come immaginato da Calvino.
Il mondo, visto come un “sistema di sistemi” dimostra come ogni cosa sia legata al sistema del mondo. E l’obiettivo della letteratura è quello di “descrivere e raccontare di tutto, il mondo e tutto il suo contenuto”v. La molteplicità si trova sia nel concetto di mondo in generale che nel concetto specifico che Calvino ha della letteratura e degli scrittori, i quali dovrebbero avere una visione plurima e articolata del mondovi.
Visione che si ritrova in toto nelle riflessioni di Prencipe e Sideri, i quali avevano già dimostrato di essere approfonditi studiosi e conoscitori dell’opera e del pensiero di Italo Calvino, che hanno utilizzato per offrire una prospettiva nuova, un’angolatura originale per interpretare i fenomeni sociali attuali: le implicazioni dei cambiamenti tecnologici sul comportamento umano e organizzativo, i nuovi modelli educativi, l’interfaccia umano/macchina e, più in generale, l’innovazione come fenomeno socio-antropologico.
L’accostamento tra il decollo dei media e delle tecnologie dell’informazione e la riflessione sul pensiero della contemporaneità è così pregnante e denso di valenze che, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, Jean-François Lyotard ha identificato l’eziologia della nascita della «condizione postmoderna» proprio con l’avvento della società informatizzatavii e Gianni Vattimo ha rintracciato l’essenza stessa della postmodernità nella moltiplicazione delle «immagini del mondo» a opera dei mediaviii.
Giddens mette programmaticamente l’accento sulla differenza semantica tra postomodernità e modernità, rintracciando nella prima l’essenza della “radicalizzazione” della secondaix. In altri termini, più che limitarci a definire la situazione contemporanea come un’epoca nella quale la fine delle ideologie ha imposto una epistemologia debole e frammentaria, consacrata all’eterogeneità delle rivendicazioni del sapere, dovremmo scorgere in essa lo scarto “insoluto”, i conflitti rimossi e non analizzati che ritornano oggi più cogenti che in passatox.
Nel transito dall’età della stampa all’età del web, la rete culturale, la spinta a comunicare, l’affermazione del linguaggio come motore di una civiltà, e nello stesso tempo il crescente primato dell’immagine, permangono, pur nella rilevante differenza delle proporzioni. Si comprende bene che il rapporto tra umanesimo e tecnologia abbia costituito presto, negli ambiti della ricerca avanzata, la questione più urgente, da seguire con tutti gli strumenti possibili, per ricondurre alla centralità dell’umano la fuga irresistibile della progressione digitale e, nello stesso tempo, per ricostituire una trading zone, luogo di scambio, tra studia humanitatis e scienzexi.
La rivoluzione digitale ha trasformato le vite umane. Buona parte dello sconvolgimento provocato dalla Rivoluzione industriale fu dovuta all’automazione della forza muscolare. La Rivoluzione digitale sta automatizzando il lavoro mentale umano. Si tende a sottovalutare la minaccia all’agentività umana – human agency – da parte delle macchine. Questo accade perché, per esempio, molte delle odierne intelligenze artificiali non sembrano rappresentare una reale minaccia per i nostri posti di lavoro. Così facendo si ignora però il rapido ritmo di miglioramento che esse hanno in assoluto e in confronto a quello umanoxii.
Siamo certi che l’unica via possibile per una coabitazione e una coevoluzione fra la vita, la cultura e la tecnica sarebbe questa vera e propria «artefattualizzazione del mondo»? Quella attuale è la prima cultura a essere letteralmente «posseduta dalla tecnologia» che ha generato l’idea di vivere un’epoca dove tutto è possibile, e dove ciò che appare impossibile in realtà viene interpretato come non ancora possibilexiii. Questa tentazione di una potenza illimitata, che si affianca sempre più spesso alla promessa di deregolazione totale, si pone in netta antitesi all’essenza stessa della vita in tutte le sue dimensioni: la fragilità. Che non va intesa come debolezza, bensì come caducità della vita di ungarettiana memoria.
«Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del Dna, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti dall’inizio dei tempi… Poi, l’informatica. È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d’acciaio, ma come i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma di impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono a bits senza peso.»xiv
Il cervello umano viene di continuo equiparato a una Macchina di Turing, capace di elaborare una quantità enorme di dati e di “trarre conclusioni” a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato, ovvero il software. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto questo è legato e strutturato al corpo che lo contiene e la deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza tra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e se stesso. L’eccesso di informazione codificata priva di esperienza diretta trasforma gradualmente il cervello in una lastra di gestione di informazioni, ma si tratta di informazioni che non modellano il cervello perché non passano per il corpo. La digitalizzazione del mondo, la sostituzione di qualunque riferimento al mondo, per passare a funzionare con modellazioni di esso implica un importante mutamento qualitativo. Il ruolo degli umani diventa secondario anche nella circolazione ultrafluida dell’informazione. L’umano non è che un segmento di tale circolazione, un segmento ogni volta sempre più destrutturato e fluidoxv.
Salvaguardare il contributo umano non significa di certo respingere le meraviglie tecnologiche che la Rivoluzione digitale ha portato, richiede piuttosto un’attenta considerazione degli ambiti dell’attività umana che cederemo alle macchinexvi.
Occorre affrontare la situazione con una cultura nuova, perché il mondo della tecnica e le sue forze scatenate non potranno essere dominati che da un nuovo atteggiamento che a esse si adatti e sia loro proporzionato. L’uomo è chiamato a fornire una nuova fase di intelligenza e libertàxvii. Bisogna partire dal concetto stesso di persona per salvare anche solo quel minimo che permette di conservare la qualità di essere umano. Da qui si deve partire per la riconquista dell’esistenza attraverso l’uomo e per l’umano. Ciò rappresenta il compito per l’avvenirexviii.
La profondità e la rapidità del cambiamento mettono in crisi i tradizionali modelli di lettura della realtà e di previsione del futuro. Le interpretazioni di tipo fenomenologico, basate sull’osservazione e l’esperienza, rischiano di arrivare dopo che la tecnologia ha dispiegato i suoi effetti e si sta già avviando un nuovo ciclo di innovazione. Le interpretazioni filosofiche fondate sulla concezione antropocentrica proiettano sul futuro una visione antropomorfa della tecnologia, rischiando un appiattimento riduzionista tra l’uomo e le macchine, in nome di una lettura puramente funzionalistica, basata sugli aspetti intellettivo-razionali. Il rischio della identificazione tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, con la conseguenza di affermare una implicita equivalenza tra le caratteristiche della persona umana e dei robot antropomorfi, è un rischio che corre non solo la filosofia, ma per certi aspetti anche la tecnologia. Non aiuta la comprensione l’ambiguità dei termini trasferiti meccanicamente tra i due ambiti: sarebbe improprio considerare equivalenti spiritualità, immaterialità, virtualità e astrazione, e il rapporto tra anima e corpo non corrisponde al dualismo informatico tra virtuale e realexix.
In dialogo ideale con Calvino, Il cavaliere artificiale mostra come la letteratura possa decifrare le dinamiche di un mondo sempre più complesso e connesso. Attraverso l’analisi delle opere calviniane, emerge come Calvino avesse intuito l’importanza dell’immateriale, della narrazione e dell’immaginazione nella costruzione della realtà. Il libro si rivolge a chi desidera comprendere il rapporto tra tecnologia e umanità, proponendo una consapevolezza nuova circa l’influenza pervasiva dell’intangibile.
Il cavaliere artificiale è il tentativo di rispondere all’appello di un nuovo Umanesimo e di offrire spunti di azioni – politiche, formative, organizzative – rispettando le cinque dimensioni chiave indagate da Calvino: essenza, confine, attenzione, immaginazione e memoria.
«Uno sguardo d’insieme ci dà l’impressione che sia la natura sia l’uomo stesso siano sempre più alla mercé dell’imperiosa pretesa del potere economico, tecnico, organizzativo, statale. Sempre più nettamente si delinea una situazione in cui l’uomo tiene in suo potere la natura, ma insieme l’uomo tiene in suo potere l’uomo, e lo Stato tiene in suo potere il popolo e il circolo vizioso del sistema tecnico-economico tiene in suo potere la vita.»xx
Un circolo vizioso che si alimenta di una cultura che ha solo un fondamento razionale e tecnico. Occorre pertanto individuare un nuovo approccio alla conoscenza e all’interpretazione del mondo contemporaneo, tracciando le linee guida di un’aggiornata visione della persona umana che tenga conto del contesto digitale in cui ci troviamo. Occorre un nuovo umanesimo tecnologicoxxi.
Il richiamo alla nozione di umanità assume nella nostra epoca una vocazione sempre più etico-giuridico-politica a cui si legano i concetti di dignità e autonomia, sviluppati non più da una prospettiva squisitamente individualistica ed eurocentrica, bensì a partire dal confronto serrato con l’altro uomo e con l’altro dall’uomo, sia esso l’animale, l’ambiente o il robot. Il processo di informatizzazione e digitalizzazione del mondo della vita ormai trasformato in infosferaxxii,parallelamente al cambiamento cui è sottoposto il nostro corpo nell’Antropocenexxiii sollevano sempre più l’esigenza di una comprensione della relazione che lega indissolubilmente l’uomo alla tecnicaxxiv, in quella che Plessner definiva la natura tecnico-strumentale del vivente umanoxxv. Plessner riconosce nello schema corporeo del vivente umano una peculiare via di accesso al mondo-ambientexxvi.
La domanda se la tecnica alteri la natura umana porta con sé un’impronta “umanistica” e presuppone l’esistenza di una specifica “natura” o “essenza” dell’uomo (come in effetti ha sostenuto nei secoli gran parte del pensiero occidentale) che possa rischiare di essere modificata nelle sue peculiarità e quindi “snaturata”. La difesa dell’idea di una natura umana come essenza o realtà peculiare qualitativamente diversa da quella di ogni altro essere vivente è stata spesso (benché non sempre) funzionale alla salvaguardia di una presunta “nobiltà”, che ha condizionato anche il dibattito sul significato e il ruolo della tecnica per l’uomo e per il mondo interoxxvii. Stando alla posizione di Gehlen, non ha senso considerare la tecnica come qualcosa di estraneo alla natura umana. La tecnica è “vecchia quanto l’uomo”; gli è indispensabile al punto che di “uomo” si può parlare propriamente soltanto in presenza di attività tecnicaxxviii. Potremmo chiederci allora se questa capacità di produrre l’artificiale non sia a sua volta da considerare qualcosa di naturale (in quanto spontaneo) benché in contrasto con una situazione originaria. In questa sede serve, piuttosto, osservare l’insistenza su una frattura tra la natura biologica e la vocazione (o la necessità) culturale e tecnologica dell’uomo: proprio questo iato serve infatti per allontanare l’uomo dall’animalexxix.
Nel Cavaliere artificiale Prencipe e Sideri compiono una sorta di viaggio tra le pagine di Calvino e i paesaggi incerti della contemporaneità, muovendosi tra sentieri che oscillano tra l’umano e l’artificiale, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, tra memoria e immaginazione. L’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie plasmano sempre più ogni aspetto della nostra vita, modificando finanche il modo in cui percepiamo noi stessi. Eppure la soglia di questo cambiamento non è da loro considerata come una linea retta da oltrepassare bensì una soglia mobile, frastagliata. Un vero e proprio luogo di confine, una frontiera che possiamo abitare con consapevolezza, immaginazione e attenzione. Non si tratta di scegliere se essere Gurdulù o Agilulfoxxx: è proprio nella tensione tra i due che l’umanità si mantiene viva.
Il libro
Andrea Prencipe, Massimo Sideri, Il cavaliere artificiale. Italo Calvino e la memoria del futuro, Luiss University Press, Roma, 2025.
iD. Miller, Tales from Facebook, Polity Press, Cambridge, 2011.
iiL. Salvia, Agentività, immersività ed esistenza nei social media, in Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024.
iiiA. Prencipe, Massimo Sideri, Il cavaliere artificiale. Italo Calvino e la memoria del futuro, Luiss University Press, Roma, 2025; A. Prencipe, M. Sideri, Il visconte cibernetico. Italo Calvino e il sogno dell’intelligenza artificiale, Luiss University Press, Roma, 2023; A. Prencipe, M. Sideri, L’innovatore rampante. L’ultima lezione di Italo Calvino, Luiss University Press, Roma, 2022.
ivI. Calvino, La leggerezza, in Lezioni americane, Garzanti, Milano, 1988.
vI. Calvino, Saggi 1945-1985 (vol.I), a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano, 2022.
viM. Di Franco, La memoria del mondo di Italo Calvino: realtà, immaginazione e intelligenza artificiale, in Zibaldone. Estudios Italianos – Vol. XI, 2023.
viiJ. F. Lyotard, La condizione postomoderna, Feltrinelli, Milano, 1980.
viiiG. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985.
ixA. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Miluno, Bologna, 1994.
xM. Pavese, Globalizzazione e localismo tra antropologia e sociologia, in Dialegesthai – Rivista di Filosofia, 20 luglio 2003.
xiL. Floridi, La quarta rivoluzione: come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.
xiiN. Agar, Non essere una macchina. Come restare umani nell’era digitale, Luiss University Press, Roma, 2020.
xiiiM. Benasayag, Il cervello aumentato l’uomo diminuito, Erckson, Trento, 2016.
xivI. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, 1984, Lezione I: Leggerezza.
xviiR. Guardini, Lettere dal lago di Como, Morcelliana, Brescia, 1959.
xviiiR. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia, 1993.
xixA. Tomasi, Umanesimo tecnologico: una antropologia per il futuro dell’uomo. La visione profetica di Romano Guardini, in Alpha Omega XXII, n.1, 2019.
xxR. Guardini, Il potere, Morcelliana, Brescia, 1993.
xxiA. Tomasi, Informatica. Tecnologia e cultura per il futuro dell’uomo, in Il margine, anno IV, n. 8, 1984.
xxiiL. Floridi, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Cortina Editore, Milano, 2020.
xxiiiV. Cregan-Reid, Il corpo dell’antropocene. Come il mondo che abbiamo creato ci sta cambiando, Codice Edizioni, Torino, 2020.
xxivR. Redaelli, Corpo, mondo e tecnica. Una riflessione a partire dall’antropologia plessneriana, in Bollettino Filosofico, n. 38, 2023.
xxvH. Plessner, Sul rapporto di mondo e ambiente nell’essere umano, ETS, Pisa, 2020.
xxxGurdulù e Agilulfo sono due personaggi del Cavaliere inesistente di Italo Calvino: il primo è lo scudiero del secondo, un individuo privo di coscienza e identità, che si immedesima completamente nelle cose che incontra e rappresenta la corporeità senza consapevolezza. Il secondo è un cavaliere senza corpo, un’armatura vuota che esiste solo grazie alla forza di volontà e alla sua coscienza di sé e rappresenta la perfezione meccanica ma priva di corporeità.
Che cosa vuol dire vedere la letteratura come un’arte? Perché solo alcuni romanzi, poesie e drammi possono essere considerati opere d’arte? Che valore viene attribuito a un testo quando diviene letteratura?
Sono tali interrogativi a dare l’avvio all’analisi condotta da Peter Lamarque in Filosofia della letteratura (Mimesis, 2024), in cui particolare attenzione viene data alla natura e all’ontologia delle opere letterarie, alle modalità d’interpretazione, al ruolo della cognizione nella fruizione dei testi e alle basi per la loro valutazionei.
L’interrogativo principale riguarda l’effettiva possibilità di studiare la letteratura da un punto di vista estetico: si può ancora parlare di esperienza estetica e di piacere estetico quando si legge un’opera letteraria? La risposta di Lamarque è sì: l’opera letteraria, in quanto frutto di una personalità artistica, possiede un repertorio di qualità estetiche ed espressive che in nessun caso si possono riscontrare nell’oggetto materiale. Ogni opera letteraria è un oggetto storico e culturale, non sempre la storia e la cultura sono in grado di stabilirne il valore. Le opere letterarie possiedono qualità estetiche ed espressive mai completamente disgiunte dalle pratiche culturali di coloro che le producono come di coloro che le interpretanoii.
La lettura non è una prestazione sottoposta a un protocollo di operazioni prestabilite, ma richiede un atteggiamento complessivo e comporta un’esperienza. Sono i gusti e le preferenze del lettore a orientarne l’esplorazione del testo. Prima ancora che come interpretandum o come test di verifica di abilità cognitive, il testo letterario si presenta come una “struttura di appello” che il lettore deve far emergere affrontando i “luoghi di indeterminazione” (Unbestimmheltsstellen) presenti nel testoiii.
In un’epoca di neuromania si ricerca di tutto l’origine in meccanismi della mente o del cervello. La lettura, in particolare di testi narrativi, non fa eccezioneiv. Essa merita però un’attenzione particolare, sotto il profilo non tanto dell’interpretazione quanto dell’esperienza estetica a essa connessa. La lettura stimola la sensibilità, non limitandosi ad attrarre il lettore e mirando bensì a orientarne i criteri di giudizio. Essa sensibilizza all’apertura al mondo e, cosa ancor più stupefacente, lo fa in assenza di una percezione diretta di eventi e personaggi: è un esercizio esemplare di immaginazione. È il lettore, molto più che l’autore, a fare esercizio di immaginazione, chiamata a ridefinire i tracciati e i contorni dell’esperienza. L’autore si concentra sul momento dell’invenzione, mentre il lettore è chiamato a muoversi dentro e fuori dal testo, a progettare un modello di interazione e a prendere la misura dei rapporti tra la realtà e la finzionev.
L’approccio alla lettura delle opere della letteratura dovrebbe essere centrato sull’attivazione e sull’esercizio dell’immaginazione narrativa, ovvero sulla capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desiderivi. La lettura dovrebbe essere praticata facendo procedere di pari passo una lettura simpatetica con una lettura invece critica, in modo da poter valutare perché certi personaggi attirano e monopolizzano i nostri sentimentivii.
Ciò che, per Lamarque, differenzia un’opera letteraria da altri tipi di opere è il “fattore istituzionale”, ovvero il fatto che ogni opera letteraria è il prodotto di un patto tra l’autore e i lettori, un patto non scritto e neppure totalmente consapevole, determinato dal momento storico, dalle convenzioni artistiche, dall’orizzonte culturale.
La lettura è un’attività fondata sull’utilizzo di alcuni “artefatti” (per esempio i libri) che a loro volta si basano su un “meta-artefatto”, uno strumento che sostiene tutti gli altri strumenti che usiamo: il linguaggio. Il libro è un artefatto perché è uno strumento creato all’interno della comunità umana per permettere lo svolgimento di una determinata attività (nel caso specifico, la lettura). Si distingue dagli altri artefatti per il suo carattere linguistico. Esso è un artefatto che supporta un meta-artefatto, il linguaggio appunto, lo strumento fondamentale – fisico e ideale allo stesso tempo – col quale l’essere umano dà senso alla propria esperienzaviii.
Ben prima che una persona cominci a leggere e scrivere, è certo che essa abbia una certa dimestichezza con la narrazione, una delle forme di discorso più diffuse e più potenti nella comunicazione umana, su cui si fonda l’acquisizione del linguaggio, a partire dall’assimilazione delle forme grammaticali. I racconti sono “la moneta corrente della cultura”, lo strumento attraverso il quale una comunità umana costruisce continuamente il fondale contro cui si stagliano e acquisiscono un senso le esperienze individuali. La stessa comprensione della realtà è mediata dalle narrazioni di cui le persone sono partecipi, come narratori e come destinatariix.
Secondo le scienze umane, la spinta che muove verso la narrazione, e anche, quindi, verso la lettura di testi narrativi, è il bisogno di dare un senso alle azioni e alle intenzioni degli esseri umani. Sia che si legga una lettera di cui siamo destinatari, sia che si legga un romanzo, il motore dell’azione è l’interesse a comprendere l’altro e sé stessi, e, in generale, il desiderio di perfezionare la capacità di attribuire un significato all’esperienzax. I testi narrativi poi si distinguono dai testi non narrativi per la possibilità che danno al lettore di provare emozioni.
Usando come criterio fondamentale della letterarietà la narratività di un testo, è possibile recuperare il valore conoscitivo della letteratura, che sembra ormai essere riconosciuto solo dai comuni lettori e dagli scienziati, e non più dagli specialisti della materia. Il lettore non specialista, oggi come un tempo, non legge le opere letterarie per padroneggiare meglio un metodo di lettura, né per ricavarne informazioni sulla società in cui hanno visto la luce, ma per trovare in esse un significato che gli consenta di comprendere meglio l’uomo e il mondo, per scoprire una bellezza che arricchisca la sua esistenza; così facendo, riesce a capire meglio se stessoxi.
Da tempo gli studiosi di letteratura hanno cominciato a riflettere sul ruolo del lettore e della lettura nel determinare la letterarietà di un testo, segnando il passaggio da una concezione ontologica della produzione letteraria a una concezione funzionalista e relazionalexii, che pone al centro dell’attenzione il lettore come “coprotagonista”, “collaboratore” o “cooperatore” dell’autore e dell’opera. Alle opere che nascono col fine esplicito di far compiere al lettore un’esperienza di tipo estetico, secondo una concezione dell’arte in auge fin dall’antichità, si aggiungono le opere che, indipendentemente dall’intenzione dell’autore, raggiungono fini estetici, cioè garantiscono al lettore una qualche forma di piacere. La letterarietà, dunque, cioè l’appartenenza o meno alla categoria della letteratura, non dipenderebbe da qualche caratteristica immanente al testo scritto, al suo meccanismo, alla sua forma specifica, bensì dalla sensibilità e dal giudizio del lettorexiii.
L’opera d’arte è tale solo se possiede una aboutness, un essere a proposito di qualcosa, e se il suo significato si presenta in forma materialmente incarnata. Inoltre deve presentare il significato che essa esprime in forma incorporata poiché un oggetto artistico è tale solo se è legato a un supporto materiale, a un medium fisico. La struttura ontologica dell’essere umano è simile a quella che caratterizza l’opera d’arte: entrambe sono entità incarnate in qualcosa di fisico, ma aventi una natura culturale, intenzionale e sociale, non riducibile alla controparte fisico-biologica che dà loro struttura. L’arte possiede l’energia propulsiva di trasformazione che consente al soggetto di umanizzarsi, imparando a conoscere se stesso e il proprio posto nel mondoxiv. Così come l’uomo non può essere considerato in modo vago un animale razionale, egualmente la sua opera dev’essere compresa entro uno spettro più ampio che diventa luogo di rigenerazione dell’esperienza in genere e rivela l’esperienza estetica come momento di riflessione sulle condizioni della conoscenzaxv.
Lamarque ribadisce che ci sono alcuni valori prettamente letterari che non possono essere confusi con altri, come il potere di suscitare emozioni, di esprimere verità politiche o morali. Ci sono cose che solo un romanzo può dire. Includendo anche poesia, teatro, cinema. Le opere non devono essere vere, non devono per forza possedere una morale, non hanno il compito di portare in seno una tesi politica e anche quando contenessero tutto ciò, il giudizio di valore, in quanto giudizio estetico, non dovrebbe esserne intaccato. Inoltre egli afferma che un grande romanzo viene letto come deve essere letto, cioè in piena libertà e mostrando tutto il suo splendore, solo una volta che si è allontanato dalle sue origini, dal suo contesto storico e politico. Allontanamento che può essere temporale o geografico.
L’io dello scrittore si esprime solo in un rapporto con un Altro, con qualcosa che è radicalmente diverso e lontanoxvi.
L’allontanamento temporale o geografico rende anche meno pregnante il giudizio morale su un’opera letteraria. E allora ci si chiede se e quanto la valutazione morale di un’opera d’arte influisce o dovrebbe influire sulla valutazione artistica dell’opera.
È forse possibile interpretare, comprendere e apprezzare un’opera d’arte a prescindere dalla mediazione della cultura e delle pratiche da cui l’opera trae origine, identità e significato? La risposta di Lamarque è risolutamente negativa. Le opere d’arte possiedono essenzialmente proprietà di natura relazionale poiché dipendono dal modo in cui vengono concepite dagli artisti e interpretate dai fruitori. Sono oggetti culturali che vanno considerati come entità reali, pubbliche e percepibili che risiedono nei rispettivi supporti materiali, dai quali sono però numericamente distinte. È allora unicamente grazie al loro radicamento storico e culturale che le opere d’arte possono essere distinte dai meri oggetti che le incarnano.
Il dualismo di Lamarque nell’ambito dell’ontologia dell’arte ha molteplici conseguenze sull’esperienza estetica. Innanzitutto, se è vero che le opere sono degli oggetti culturali distinti dai loro supporti, nell’atto di apprezzarle e valutarle entrano in gioco anche processi cognitivi – e quindi non solo e semplicemente percettivi. Gli oggetti artistici non sono oggetti naturali, bensì istituzionali, e pertanto si avrebbe torto a considerare i fattori storici, contestuali e culturali come irrilevanti per la corretta fruizione. E se la risposta alle opere d’arte è mediata dalla nostra cultura, la capacità di apprezzarla non è una dote naturale, bensì un’abilità che va sviluppata attraverso l’educazione: per valutare un’opera d’arte è necessaria una certa competenza, accompagnata da determinate credenze e aspettativexvii.
Parafrasando Wolheim (1968) – il quale concepisce l’arte come una forma di vita – diventa necessario spostare lo sguardo dalle diversità potenziali nel testo a quelle che interagiscono entro le diverse culture. Queste fervono in civiltà che non sono blocchi identitari omogenei, così come non lo è il tessuto, pertanto il conflitto che provoca la diffèrance deve essere assunto entro una prospettiva dinamica, che non indugi dinanzi l’inattuabilità di una nuova composizione, ma che lavori all’incontro tra universi distanti ed eterogenei, riconoscendo nelle differenze reciproche possibilità creative in grado di generare dissonanze fecondexviii.
Le facoltà intellettuali non agiscono esclusivamente in un secondo momento, sul materiale greggio fornito dai sensi, ma sono attive fin da subito poiché la percezione è completamente permeata dal pensieroxix. Lamarque può essere considerato un pieno sostenitore dell’empirismo estetico, ossia della tesi secondo cui il valore estetico di un’opera d’arte è essenzialmente legato al modo in cui l’opera viene esperita.
Se il valore di un’opera letteraria si fonda su quelle che sono le specifiche prassi di apprezzamento della letteratura, si dovrà distinguere tra valori intrinseci – ossia propri della fruizione delle opere letterarie in quanto tali – e strumentali. Tra questi ultimi figurano – a parere di Lamarque – il potere di suscitare emozioni e di essere veicolo di verità morali e politiche.
Si tratta di valori che non di rado vengono oggi chiamati in causa per giustificare il nostro interesse nei confronti della letteratura. Una visione che non convince Lamarque, orientato invece verso una visione umanistica della letteratura e del valore letterario: alle opere non viene richiesto di essere vere, moralmente giuste o di supportare visioni politiche progressiste, bensì di essere interessanti – in quanto sviluppano temi di universale interesse umano – e scritte bene – ovvero costruite in modo tale che gli artifici formali (stile, modalità d’intreccio, disposizione dei versi e tutte le altre strategie di organizzazione del materiale) siano adeguati al contenuto (l’interesse umano che viene portato allo scoperto) o, per dirla breve, che vi sia consonanza tra mezzi e finixx.
A differenza del mondo reale, i mondi di invenzione, che formano il contenuto delle opere letterarie, sono costruiti dal modo in cui ci vengono dati attraverso il materiale linguistico e, pertanto, la loro identità – e quella degli elementi che li compongono (personaggi, oggetti, eventi) – dipende in maniera essenziale da come vengono presentati. L’opacità è una risorsa che arricchisce di sfumature l’esperienza di lettura quando l’attenzione è rivolta verso le sfumature testuali, le valutazioni implicite, l’affidabilità del narratore, la risonanza simbolica, lo humor, l’ironia, il tono, le allusioni o i significati del testoxxi. In sintesi, dunque, l’opacità è una proprietà che caratterizza i testi letterari quando ne fruiamo in maniera appropriata, ossia in quanto letteratura.
«Sono poche le persone che richiedono ai libri quello che possono dare. Più comunemente ci ritroviamo davanti ai libri con le idee incerte e confuse, chiedendo alla narrativa di essere vera, alla poesia di essere falsa, alla biografia di essere lusinghiera, alla storia di rafforzare i nostri pregiudizi. Se, quando leggiamo, potessimo mettere da parte tutti questi preconcetti, sarebbe già un buon inizio»xxii.
Ma come possiamo avvicinarci alle opere che abbiamo letto prestando attenzione a quello che queste ci possono offrire? Forse, semplicemente, tentando un approccio che tenga conto anche dello stile, delle proprietà estetiche, della struttura, in breve che si soffermi su ciò che le rende opere specifiche dotate di un certo interessexxiii.
Se si fosse ancora in dubbio sul fatto che il valore di un’opera d’arte – letteraria o di altro genere – non risiede nel suo contenuto edificante o nella sua capacità di veicolare empaticamente pressanti messaggi volti a orientare la condotta pratica delle persone, Lamarque suggerisce – sulla scorta di Hume – di ricorrere alla cosiddetta prova del tempo.
Non si tratta solamente di constatare il fatto che opere molto apprezzate al momento della loro pubblicazione sono poi state dimenticate, bensì notare come le vere opere d’arte acquistino il loro status di capolavori immortali proprio quando i motivi ideologici e politici che le hanno ispirate risultano meno impellenti.
La concezione del tempo costituisce uno dei modelli portanti di ogni cultura e civiltà. Intorno a essa gravitano rituali, visioni metafisiche, organizzazione sociale, espressioni dell’immaginario e, in sintesi, i significati stessi dell’esistere. I rivolgimenti scientifici della modernità cancellano definitivamente le narrazioni mitiche connesse alle concezioni tradizionali del tempo, e inseriscono questo nell’ottica di formule e calcoli matematici che perseguono dati obiettivi, svincolati da esigenze umane di ordine emozionale ed esistenziale. In contrapposizione al postulato di un tempo assoluto avanzato dalla fisica newtoniana, Einstein introduce nella scienza della modernità un tempo relativo che sconvolgerà le visioni stesse dello spazio. Il tempo subisce un rallentamento in proporzione all’incremento del moto. Il tempo degli eventi del cosmo non ha un valore assoluto e universale. Le stesse sequenze (linearità) di passato-presente-futuro, considerate irreversibili nelle nostre esperienze quotidiane, non reggono più. Il tempo nella versione tradizionale della scienza è spazializzato, cioè formato da punti distinti e coesistenti indipendentemente l’uno dall’altro, ma per il filosofo francese Henri Bergson non esistono eventi temporali separati e distinti nell’esperienza concreta della nostra esistenza. La scienza segue un modello meccanicistico del tempo che cristallizza gli attimi del presente e ne fornisce una conoscenza esclusivamente pragmatica che non corrisponde alla temporalità del vissuto, al fluire incessante della coscienza. Il tempo coscienziale, discontinuo e sconnesso, o riordinato dagli interventi memoriali, può essere colto dalla letteratura e dalle arti in genere e non dalla scienza, poiché legato alla complessità e all’instabilità stessa dell’esperienza umanaxxiv. L’esistenza, intesa come progetto di possibilità, è radicata nel tempo. Esistere nel tempo significa che siamo ciò che non siamo, nella misura in cui non siamo più il nostro passato e non siamo ancora il nostro futuro. Il tempo determina la nostra coscienza del nullaxxv. La percezione di un tempo non assoluto, relativo, ambiguo e incerto, sottratto nel suo fluire dalla fiducia in un télos, ha conseguenze irreversibili sulle costruzioni identitarie, sulla concezione stessa del soggettoxxvi. In Pirandello, ad esempio, il tempo distrugge le maschere e scopre le immagini fittizie del sé. Se si esamina un romanzo come Uno, nessuno e centomila il tempo è alla base dell’estraniamento dell’io da se stesso: «la realtà d’oggi è destinata a scoprirsi illusione di domani»xxvii.
Nella concezione che Sartre ha dello scrittore e, in generale, dell’uomo, questo risulta l’essere che non può vedere o vivere una situazione senza cambiarla perché il suo sguardo cambia l’oggetto in se stesso. Lo scrittore, nello specifico, ha scelto di svelare il mondo agli altri uomini, perché questi assumano di fronte agli oggetti messi a nudo tutta la loro responsabilità. La funzione dello scrittore è di far sì che nessuno possa ignorare il mondo. Egli voleva che ogni suo libro contenesse una rivelazione sugli aspetti del mondo e della vita. Una rivelazione così potente da scuotere e sconvolgere il lettorexxviii.
La letteratura osservata attraverso l’occhio degli scrittori assume significati e funzioni specifici. Rispetto alla prospettiva dei teorici e dei critici, il punto di vista degli scrittori sulla letteratura è un punto di vista, per così dire, interno. Si tratta, cioè, di uno sguardo in cui la riflessione sulla parola altrui diventa riflessione sulla propria arte verbale, in cui la letteratura viene esaminata non solo in termini descrittivi, ma anche in quanto generatrice di modelli. Cosicché l’atto critico che riflette sulla tradizione letteraria risulta, il più delle volte, indistinguibile dall’atto creativo che di quella tradizione si appropriaxxix.
Le concezioni della letteratura istituzionali e contestualiste rivelano connessioni con gli autori piuttosto complesse. Per il contestualista l’opera letteraria è essenzialmente incorporata nel contesto storico della sua creazione: senza il contesto l’opera non sarebbe l’opera che è. Alcune versioni forti del contestualismo legano l’essenza di un’opera al suo autore: autore diverso, opera diversa. Un altro dibattito di primo piano che interessa gli autori nella filosofia della letteratura riguarda il significato e la misura in cui un autore sia la fonte del significato. Ovvero il grado di autorità da lui posseduto sulle interpretazioni valide della propria opera. Un autore è in qualche maniera un creativo, un progettista, la fonte di qualcosa di valore. È ragionevole pensare che tra autore e opera esista anche una relazione “interna”, concettuale persino, nel senso che chiunque scriva un’opera letteraria (un’opera riconosciuta come tale) diventa di conseguenza un autore, e che un’opera letteraria non potrebbe essere “letteraria” senza essere “d’autore”.
Ma quanto sono davvero creativi gli autori? Si domanda Lamarque, il quale ritiene che, in realtà, essi non creano nulla. Non creano (nella maggior parte dei casi) il linguaggio che usano; i significati che esprimono devono già essere, in un certo senso, contenuti nel linguaggio stesso. Non creano nemmeno l’istituzione di cui seguono le convenzioni, né le circostanze storiche e la tradizione letteraria nelle quali lavorano. Un poeta che scrive il sonetto non ha creato la forma del sonetto.
Per cogliere ciò che accade in una poesia, inoltre, i fatti riguardanti l’autore possono arrivare ad apparire meno importanti dei fatti relativi alla tradizione, alla cultura e al contesto storico nel quale l’autore scrive. Tale è il percorso che conduce alla “spersonalizzazione” della poesia, fino alla “morte dell’autore”, che ha caratterizzato la critica del XX secolo ed è sembrato emergere in maniera inevitabile da importanti tensioni già presenti nell’idea stessa di autore.
Uno dei bersagli del New Criticism che si sviluppò negli anni Trenta e Quaranta del XX secolo era il culto dell’autore, o ciò che Lewis chiamava “poetolatria”, l’idolatria nei confronti del poetaxxx.
Il culto della personalità del poeta fiorì nei primi del XIX secolo con i romantici. Connessa all’idea del poeta come saggio o individuo dalle doti speciali è l’idea del genio, della quale esistono versioni che risalgono agli antichi greci.
I biografi di poeti, romanzieri e drammaturghi vorranno – non a sproposito – incorporare le opere e ciò che esse contengono nella storia della loro vita. Nella misura in cui la “biografia letteraria” è semplicemente la biografia degli autori di letteratura, questa non dà luogo ad alcuna controversia con la critica. Lamarque ci tiene a sottolineare però gli ovvi e comprovati pericoli dell’uso delle opere per integrare i dettagli delle vite quando non sono indipendentemente documentati. Esemplare il caso di William Shakespeare: poco è noto della sua vita, ancora meno delle sue convinzioni e dei suoi comportamenti; non esistono diari, lettere o frammenti autobiografici a cui appellarsi. Eppure, nella sua biografia c’è una speculazione interminabile su cosa egli pensasse veramente riguardo immortalità amore matrimonio sovranità religione potere ricchezza teatro famiglia e molto altro ancora.
Egualmente rischioso per il critico è il processo inverso, ovvero leggere le opere influenzati da ciò che si conosce della vita dell’autore.
Ecco allora che ritorna l’interrogativo principale per l’autore: cosa significa leggere un’opera letteraria come un’opera d’arte?
Numerosi sono stati i tentativi del New Criticism di stabilire l’autonomia dell’opera. Nelle versioni forti dell’autonomia, un’opera letteraria è concepita come un’icona verbale autosufficiente e indipendente, che possiede un interesse e un carattere basati esclusivamente sulle sue proprietà linguistiche. Per Lamarque i limiti di questa visione sono evidenti, poiché ci dice poco o nulla su quale tipo di interesse o carattere dovremmo ricercare. Se le opere letterarie sono dei meri testi indifferenziati, o sequenze di frasi, o écriture che significano tutto ciò che possono significare, è impossibile capire perché abbiano qualsivoglia valore speciale. Soltanto collocando le opere in cornici “istituzionali” più ampie si può comprendere perché esse coinvolgano i lettori e siano apprezzate. Per cui, invece di porre l’accento sull’autonomia della singola opera, l’autore ritiene più fruttuoso enfatizzare l’autonomia della pratica entro la quale le opere vengono lette. Ciò che distingue un’opera letteraria è intimamente connesso a ciò che distingue la pratica della lettura quando le opere vengono lette come letteratura. Esplorare tale pratica, per Lamarque, è la chiave per comprendere che cosa dia alle opere letterarie il valore e l’interesse che esse possiedono. Se le opere letterarie sono opere d’arte, allora è ragionevole aspettarsi che sollecitino un certo tipo di attenzione non dissimile da quella associata ad altre forme d’arte. Con la peculiarità dell’interpretazione. Ritiene infatti l’autore che l’interpretazione applicata alla letteratura si distingue sia per gli scopi che per i procedimenti. In nessun altro campo l’interdipendenza tra interpretazione e oggetto dell’interpretazione è sentita più intensamente.
Nel XX secolo il critico letterario era al centro del gioco ideologico e politico, poiché la decifrazione delle narrazioni richiedeva un metodo universale per la comprensione di un mondo sociale percepito come un costrutto testuale. Quando regnava un paradigma linguistico, per il quale il pensiero e l’azione potevano essere letti come codici e sintassi, le competenze specialistiche del critico gli conferivano una legittimità quasi universale.
Pur privilegiando un progetto di decostruzione critica delle forme di dominazione, come nel postcolianismo e nel femminismo, i Cultural Studies sono oggi vertiginosamente diversificati: che si occupino di disabilità, culture urbane o omosessualità, essi adottano un approccio volutamente interdisciplinare per temi e argomenti, privilegiando angolazioni originali perché culturalmente minoritarie e spingendosi fino a un orizzonte postumanista. A essi si affiancano gli Studiesbasati su aree geografiche (Area Studies o Ethnic Studies) o su tematiche di ricerca ampie e originali, come gli importantissimi Trauma Studies.
Questa pluralizzazione dà luogo a una grande quantità di approcci tematici, tutti accomunati da una visione volutamente pragmatica del testo letterario, concepito nella sua stretta relazione con una questione culturale o politica.
La “svolta etica” e la “svolta pragmatica” hanno segnato chiaramente la tendenza decisiva della teoria letteraria del XXI secolo, tendenza che si rifletterà nella rinnovata importanza della psicologia e delle scienze cognitive: l’interesse critico non si concentra più, come nell’Ottocento, sull’autore e sull’atto creativo, o, come nel Novecento, sul testo in sé considerato nella sua autonomia, o ancora nella ricezione considerata come una questione teorica astratta come aveva imposto la scuola di Costanza, ma sul lettore concreto, incarnato e socializzato. Si tratta ormai degli effetti del testo, concepito come potenziale beneficio morale o come beneficio cognitivo, addestramento alla “teoria della mente” (cioè i saperi che permettono di intuire e capire lo stato mentale degli altri) o come strumento di conoscenza pratica o addirittura filosofica. La letteratura non è soltanto una rappresentazione che registra il presente, lo svela, ma può anche denaturalizzarlo diventando uno strumento di trasformazione (di riparazione individuale o collettiva, di trasformazione politica e sociale)xxxi. Da qui una visione della narrativa come agente, persino come virus, capace di disseminare concetti: in questo approccio, che risente delle teorie latouriane e dei “nuovi realismi” filosofici contemporanei, e che può essere definito prasseologico, la finzione non è tanto una relazione rappresentativa di somiglianza con la realtà o “atteggiamento epistemico”xxxii, quanto ciò da cui scaturiscono eventi con i quali si possono intessere relazioni reali e spesso molto fortixxxiii. In questo approccio pragmatista, che enfatizza la nozione di performativoxxxiv e le teorie della perlocuzionexxxv, sono importanti gli effetti della narrativa (il suo potere di agire) esistenziali o politici sul lettore.
Le persone leggono in molti modi diversi, così come sono molto diversi gli interessi che influenzano le loro scelte di lettura. Per Lamarque, non riconoscere ciò equivale a supportare un essenzialismo completamente ingiustificabile nella critica letteraria. Anche gli stessi critici letterari possono senza dubbio trovarsi a leggere teologia, filosofia o manifesti rivoluzionari. Non significa che li considerino opere di critica letteraria e men che meno che li leggano come letteraturaal pari opere teatrali, poesie o romanzi. Inoltre, possono occuparsi di altri tipi di scrittura oltre alla critica letteraria, come fecero in molti, da Samuel Johnson a T. S. Eliot. Non c’è motivo di etichettare tutti i loro scritti e in ugual modo le loro letture come critica letteraria.
Ma allora come possono esistere caratteristiche fondamentali o essenziali della pratica critica se i critici si avvicinano ai testi con presupposti tanto diversi? Le “metodologie” sono diverse (marxismo, materialismo culturale, strutturalismo, decostruttivismo, psicoanalisi, femminismo, New Criticism) e le differenze reali, pur se concentrate su aspetti differenti delle opere letterarie e del loro contesto. Al filosofo della letteratura interessa, invece, ciò che hanno in comune. Che cosa rende tutte queste “metodologie” esemplificazioni della “critica letteraria”? La filosofia della letteratura deve restare concentrata sul porre domande fondamentali sui requisiti minimi per considerare la letteratura una forma d’arte. Ènecessario, per Lamarque, che i critici in attività diano alle opere sempre questo tipo di attenzione.
Lettore e critico letterario sono termini usati più o meno in modo intercambiabile, ma si può sostenere con l’autore che, mentre tutti i critici letterari sono dei lettori, non tutti i lettori sono critici. Eppure, il presupposto di fondo dell’indagine di Peter Lamarque è che non sembra esserci un confine netto tra la pratica della critica, concepita in senso ampio, e le risposte di un pubblico di lettori istruito e interessato all’arte e alla letteratura. Una tradizione che si rifà a ciò che Samuel Johnson chiama il “lettore comune”: «Provo gioia nel convenire con il lettore comune, poiché è con il buon senso dei lettori, incorrotti dai pregiudizi letterari, dopo tutte le rifiniture della sottigliezza e il dogmatismo dell’apprendimento, che vengono infine decise tutte le rivendicazioni di gloria poetica»xxxvi.
Per cui, sottolinea Lamarque nel testo, il critico letterario è semplicemente un lettore che ha più esperienza e una percettività amplificata rispetto al “lettore comune”. Egli è più avanti nel percorso verso i “veri giudici” di David Hume.
Ma se non ci fossero i lettori comuni non ci sarebbero le opere letterarie. L’istituzione della letteratura richiede una comunità di lettori con un interesse condiviso nei valori che la letteratura può offrire, e sembra improbabile che tale istituzione possa reggersi solo su una minuta intellighenzia di esperti.
La critica letteraria è inestricabilmente connessa ai giudizi di valore, ma essi non devono emergere per forza in forma sommativa (x è buono, y è cattivo). Nel caso di opere dalla fama consolidata, un giudizio sommativo è raramente richiesto.
Se i critici accademici si occupano in primo luogo di opere dalla fama consolidata, i critici giornalistici si concentrano sulle novità editoriali e sono pagati per offrire le loro valutazioni. I lettori si rivolgono a questi critici per una guida alle loro letture. Qui i giudizi tendono a essere espliciti, però anche in questo caso quelli privi di argomentazioni non valgono a molto.
Molta narrativa di genere può godere di grande considerazione come fantasy o puro intrattenimento, senza avere però alcuna aspirazione letteraria. La distinzione è tuttavia controversa, perché talvolta è ritenuta basarsi su elitismo o snobismo invece che su elementi intrinseci dell’opera. Ma il fatto che molti romanzi di genere non invitino analisi letterarie sistematiche, né le ricompensino, non dovrebbe essere considerato, nell’analisi di Lamarque, un elemento negativo. I loro meriti sono altrove. Nell’adempiere alla funzione per cui sono generati. Il gioioso ma trito distico in rima in un biglietto di compleanno può servire ottimamente allo scopo (del biglietto), e tuttavia essere del tutto privo di interesse letterario.
I valori strumentali della letteratura sono associati ai valori connessi agli effetti della letteratura, i quali sembrano ben lontani dal qualificarsi come qualità artisticamente rilevanti, tra cui far ricordare la propria infanzia, dare l’abilità di passare un esame o fornire esempi di teoria psicoanalitica. L’atto della lettura produce questi effetti desiderati, ma questi non indicano valori intrinseci. Tuttavia il valore intrinseco di un’opera non può essere indipendente da tutti gli effetti perché le opere d’arte hanno valore solo per gli esseri umani: l’esistenza stessa delle opere d’arte dipende dalle reazioni degli esseri umani all’arte. I valori artistici e, di conseguenza, i valori letterari sono in questo senso valori relazione-dipendenti. Dunque ora la domanda è: quali effetti – o quali reazioni – sono direttamente correlati al valore intrinseco di un’opera, e quali sono soltanto effetti “fortuiti” o strumentali?
Un’idea è che il valore intrinseco di un’opera sia connesso solo alle proprietà intrinseche dell’opera, quelle proprietà che le conferiscono un carattere unico. Un’altra idea colloca il valore intrinseco assieme al valore di un’esperienza intimamente legata all’opera. Ma una volta ammesso che alcuni effetti dell’opera – come l’esperienza piacevole – sono connessi al valore intrinseco, dove si può tracciare il confine fra intrinseco e strumentale? La questione non è di facile risoluzione, ma per Lamarque farlo è anche relativo. A prescindere dal modo in cui la questione intrinseco/strumentale viene risolta, sembra proprio che bisogna ricercare il valore letterario, per quanto possibile nei valori intrinseci e non in quelli strumentali, nel modo in cui tale distinzione è normalmente intesa. Con la particolarità che parlando di letteratura, e non di arte in generale, necessita una concezione più definita delle esperienze rilevanti cui sono legati i valori intrinseci.
E il valore di un’opera letteraria, ve bene ribadirlo, è legato alla misura in cui adempie al suo scopo. Un’opera letteraria – una poesia, un romanzo, un dramma – è un oggetto istituzionale, un testo collocato in una rete di convenzioni e azioni: un’“opera”.
La comunità letteraria include sotto la stessa etichetta “letteratura” «poesie e poemi, novelle e romanze, ma anche la testimonianza davanti a un giudice di un agricoltore analfabeta su questioni di proprietà privata; o una raccolta di privatissime lettere di un carcerato delle prigioni fasciste»xxxvii. Sia testi, quindi, concepiti e realizzati secondo precise intenzioni, norme e finalità estetiche, sia testi la cui originaria funzionalità è inconfutabile ma che, una volta perduta, possono entrare a far parte del dominio della letteratura, come i Placiti cassinesi, le Lettere di Gramsci o la produzione storiografica, filosofica, politica, didattica, religiosa di una determinata cultura. Impostando il problema in termini diacronici, dunque, la distinzione tra finalità “pratiche”, che qualificherebbero un testo come non letterario, e l’assenza di finalità “pratiche”, propria del testo letterario, e quindi artistico, viene a caderexxxviii.
All’interno della corrente relativistica, che prevede una differente considerazione delle opere a seconda del contesto storico-culturale in cui sono prodotte e recepite, Di Girolamo ha asserito l’impossibilità di individuare a priori le caratteristiche intrinseche della letteratura e ritenuto che la sola ricerca possibile sulle costanti letterarie debba considerare l’evoluzione storica del termine, poiché spetta al pubblico dei lettori decretare lo statuto letterario di un’operaxxxix. Sulla stessa scia, Eagleton afferma la connessione tra l’idea della letteratura e l’ideologia sociale, rifiuta il carattere di pura finzione attribuito alle opere e sostiene la variabilità dello statuto letterario al modificarsi delle contingenze storiche e culturali di riferimentoxl.
Inoltre l’attività letteraria sembra avere e aver avuto una funzione rilevante nell’evoluzione umana perché, coinvolgendo fortemente l’uomo in mondi possibili che sono lontani dalle sue abitudini e dalle sue certezze, lo rende più preparato ad affrontare i mutamenti del suo ambiente. Ha quindi un ruolo importante nell’evoluzione dell’uomo e nel suo adattamento all’ambiente esternoxli. Essa è una forma di gioco cognitivo che presenta la simulazione di situazioni, nelle quali troviamo modelli di comportamento che ci permettono di entrare mentalmente all’interno dell’esperienza di altre persone. Prima dello sviluppo delle scienze umane, è stata la lettura a offrire informazioni sull’uomo. Per gran parte della storia umana, i migliori psicologi sono stati i drammaturghi, i poeti, i romanzierixlii.
L’efficacia della letteratura sta in ciò per cui, nel momento in cui l’io del lettore si identifica con quello del protagonista, quest’ultimo, pur difettando di verità in senso proprio, acquisisce di universalitàxliii.
Mentre Lamarque e Olsen accordano alla finzione uno “spazio logico”xliv che in teoria travalica la specificità della letteratura, Currie insiste sulla sovrapponibilità tra letteratura e finzionexlv, e Matravers si concentra su una più graduale distinzione tra fiction e non fictionxlvi. Lamarque e Olsen promuovono una no-truth theory della letteratura, ovvero l’idea per cui il riferimento alla verità perde costitutivamente di importanza quando si parla del rapporto tra letteratura e finzione.
Basti pensare al cosiddetto emotional engagement, che trae origine da una riflessione sul paradosso della finzione, o paradosso della tragedia, e che si chiede come sia possibile che emozioni reali siano generate da vicende e personaggi di finzione. Tutte le possibili soluzioni al dilemma vengono confutate a partire dal confronto con l’esperienza del falso nella vita reale e di dialoghi inventati ma non per questo considerati meno esemplari pur nella loro ostentata astrattezza.
Chissà se poi è così vero che le emozioni suscitate dall’arte siano uguali a quelle della vita realexlvii. Può essere, al contrario, proprio la differenza tra la vita e la letteratura, l’immaginazione e la realtà, la condizione dell’esperienza estetica e della produttività della riflessione artisticaxlviii.
Solo la narrativa, come una sorta di educazione sentimentale, può rappresentare quell’intreccio di pensieri, sentimenti, emozioni, desideri e movimenti dell’animo che contribuisce a esercitare la nostra intelligenza e a orientare le nostre deliberazionixlix.
A questo punto è necessario ricordare l’importante distinzione operata nel testo da Lamarque tra il valore strumentale della promozione dell’empatia e il valore intrinseco della natura empatica di certi brani di prosa letteraria. L’empatia di un testo non provoca automaticamente una risposta empatica.
L’opera letteraria, lungi dall’essere fine a sé stessa, si concretizza mediante la cooperazione tra autore empirico e il suo lettore realel. Solo questa interazione dialogica porta alla formazione dell’ouvrage de l’esprit: uno sforzo letterario che unisce la libertà autoriale e la responsabilità che l’atto di scrittura comporta, sia nei confronti del pubblico sia della scrittura stessali.
Ed è proprio il legame che unisce autore e lettore a condurre all’ultimo significativo tema trattato da Lamarque: la critica valutativa di un’opera letteraria.
Quando si giudica un’opera come letteratura la si pensa non solo come testo, storia o versi, bensì sempre dalla prospettiva di quello che si ritiene sia il fine dell’opera o di ciò che spinge a considerarla un’opera d’arte. Un’interpretazione che incide per forza sul giudizio dell’opera.
Non sempre è stato sottolineato quanto in realtà, in origine, la critica letteraria moderna sia stata una critica della modernità.
La critica che ha preceduto la svolta, ossia quella di ispirazione classicistica, si fondava su un curpus di testi che una lunga tradizione aveva reso canonici. Una tradizione sufficientemente omogenea, che traeva la sua legittimazione dal referente classico e in particolare aristotelico, e che si era espressa attraverso prevedibili architetture formali e collaudate retoriche espositive.
La critica cosiddetta “romantica”, a cui si deve la formazione dei nuovi paradigmi teorici relativi all’idea di letteratura e di critica moderna, si è espressa invece in una varietà tipologica di scritture e ha adottato modalità del discorso critico antitetiche alla forma del trattato e alla sua retorica dell’argomentazione e della dimostrazione. Ciò che si imporrà a fine Settecento sarà non solo un pensiero della relativizzazione storica delle espressioni culturali in ragione della loro localizzazione temporale e geografica, ma soprattutto la consapevolezza che quelle espressioni entrano in relazione con un regime di aspettative e con modalità di lettura altrettanto soggette al cambiamento storico. Si trattava cioè di superare l’immagine del proprio tempo storico come età della privazione, della mancanza e della decadenza artistica per declinare per la prima volta un discorso in positivo, dicendo ciò che il Moderno era anziché ciò che non eralii.
Partendo dall’idea che tutte le azioni umane, comprese quelle dell’immaginazione, sono parte di un processo evolutivo, la concezione evolutiva dei meccanismi estetici consiste nel mettere da parte le interpretazioni metafisiche, sociologiche, economiche, formali e psicologiche (non nel senso evolutivo del termine), per chiedersi come le rappresentazioni estetiche illustrino, esemplifichino e modellino l’interazione di forze biologiche “cablate”: la sopravvivenza, la riproduzione e l’espansione della specie, la competizione e la cooperazione tra persone, famiglie e comunità, la parentela, l’affiliazione sociale, gli sforzi per acquisire risorse e influenza, la dominazione, l’aggressività e il bisogno di immaginazioneliii. Queste imprese riduzioniste sono congruenti con la preoccupazione fondamentale delle teorie letterarie di oggi: vedere la letteratura non come un intrattenimento o un’attività seria ma tutto sommato marginale e disinteressata, bensì come una necessità universale della specie umana, presente in tutte le culture e che svolge un ruolo funzionale nelle societàliv.
Irma Galgano, laureata in Lettere, indirizzo geografico-antropologico, è docente per le classi di concorso A012, A018, A019, A021, A022, A054. Formatore e Supervisore EIPASS, docente esperto nei percorsi di orientamento e formazione per il potenziamento delle competenze STEM, digitali e innovazione, docente L2 – Insegnante di italiano per stranieri, collabora con varie riviste.
Note
iPeter Lamarque, Filosofia della letteratura, edizione italiana a cura di Lorenzo Graziani, Mimesis Edizioni, 2024. Traduzione di Matteo Gozzi e Lorenzo Graziani. Titolo originale: The Philosophy of Literature (2008).
iiMassimo Rizzante, La letteratura è un’arte?, in Peter Lamarque, Filosofia della letteratura, Mimesis Edizioni, 2024.
iiiWolfgang Iser, La struttura di appello del testo, tr. it. di P. Laffi, in R. Ruschi (a cura di), Estetica tedesca oggi, Unicopli, 1986.
ivStanislas Dehaene, I neuroni della lettura, trad. it. di C. Sinigaglia, Raffaello Cortina, 2009 e Maryanne Wolf, Proust e il calamaro, trad. it. di S. Galli, V&P, 2009.
vDario Cecchi, Il lettore esemplare. Fenomenologia della lettura ed estetica dell’interazione, in The science of future. Promises and previsions in architecture and philosophy – rivista di estetica – 71 | 2019.
viMarta C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, trad. it. di R. Falcioni, Il Mulino, 2011.
viiMarta C. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, a cura di G. Zanetti, trad. it. di S. Paderni, Carocci, 1999.
viiiGiuseppe Mantovani, Analisi del discorso e contesto sociale, Il Mulino, 2008.
ixJerome Bruner, La ricerca del significato: per una psicologia culturale, trad. it. Bollati Boringhieri, 1992.
xSimone Giusti, L’esperienza della lettura, introduzione a S. Giusti e F. Batini (a cura di), Imparare dalla lettura, Loescher Editore, 2013.
xiTzvetan Todorov, La letteratura in pericolo, trd. it. Garzanti, 2008.
xiiVittorio Spinazzola, La modernità letteraria, Il Saggiatore, 2001.
xiiiSimone Giusti, L’esperienza della lettura, op. cit.
xivJoseph Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte? Lezioni di filosofia dell’arte, trd. E cura di Andrea Baldini, Mimesis, 2011.
xvAlessandra Tosi, L’esperienza estetica: un varco oltre i limiti del significato, in Comparatismi 3 2018.
xviTerence Cave, The Cornucopian Text. Problems of Writing in the French Renaissance, Clarendon Press, 1979.
xviiLorenzo Graziani, Introduzione all’edizione italiana, in Peter Lamarque, Filosofia della letteratura, edizione italiana a cura di Lorenzo Graziani, Mimesis Edizioni, 2024.
xxviiLuigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1971.
xxviiiMarika Tantillo, Che cos’è la letteratura? Di Jean-Paul Sartre, in Diacritica, A.X. n. 53, 23 agosto 2024.
xxixMichele Stanco, In che modo gli scrittori ci parlano di letteratura? Saggi e paratesti, disseminazioni, maschere, Introduzione a La letteratura dal punto di vista degli scrittori, a cura di M. Stanco, Il Mulino, 2018.
xxxE.M.W. Tillyard e C.S. Lewis, The Personal Heresy: A Controversy, Oxford University Press, 1939.
xxxiAlexandre Gefen, A che punto è la teoria letteraria?, in narrativa – nuova serie 46 | 2024.
xxxiiJean-Marie Schaeffer, Les Trobles du récit. Pour une nouvelle approche des processus narratifs, Thierry Marchaisse, 2020.
xlTerry Eagleton, Literary Theory: An Introduction, Pencil Notations and Underlining, 1983.
xliSi vedano: Joseph Carroll, The Human Revolution and the Adaptive Function of Literature, in Philosophy and Literature, 30, 1, 2006; Brian Boyd, On the origin of Stories, cognition and fiction, Belknap Press of Harvard University Press, 2009; Aldo Nemesio, La letteratura e altre esperienze, in Comparativistica e intertestualità, a cura di G. Sertoli, C. Vaglio Marengo, C. Lombardi, Edizioni dell’Orso, 2010; Keith Oatley, Such Stuff as Dreams. The Psychology of Fiction, Wiley-Blackwell, 2011.
xliiAldo Nemesio, Le ragioni della ricerca empirica sul testo, in CoSMo – Comparative Studies in Modernism, n. 4 – 2014.
xliiiArthur Danto, La destituzione filosofica dell’arte, a cura di T. Andina, trad. it. Di C. Barbero, Aesthetica, 2020.
lCesare Segre, Avviamento all’analisi di un testo letterario, Einaudi, 1985.
liDenis Benoît, Littérature et engagement, Éditions du Seuil, 2002.
liiRoberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e Schleiermacher, Mimesis, 2013.
liiiJoseph Carroll, An Evolutionary Paradigm for Literary Studies, in Reading Human Nature: Literary Darwinism in Theory and Practice, Suny Press, 2011.
livAlexandre Gefen, A che punto è la teoria letteraria, in Narrativa – Nuova Serie, 46 | 2024.
Articolo pubblicato sul numero 76 di Dialoghi Mediterranei , rivista scientifica per le aree disciplinari 10 e 11 (delibera Anvur n. 110 del 11-05-2023, con decorrenza dal 2018), link all’articolo: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lettura-e-lettori-filosofia-e-critica-dellarte-della-letteratura/
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Un tempo fonte di imbarazzo, vergogna, senso di inferiorità, l’ignoranza è oggi un prodotto di straordinario successo, spesso sbandierato con orgoglio. E l’Italia è uno dei migliori luoghi al mondo per la sua ideazione, produzione, commercializzazione e consumo.
Questa, in sostanza, la tesi del libro di Paolo Guenzi. Un testo che indaga a fondo il fenomeno che ormai sembra dilagare nella vita reale come anche in quella virtuale.
Ma come si è arrivati a tutto ciò? Si chiede l’autore.
Anche attraverso il marketing dell’ignoranza, ovvero il sofisticato processo di creazione e diffusione dell’ignoranza quale valore e pratica quotidiana nella vita della società. È la risposta che si dà e che argomenta ampiamente nel libro.
Logiche e strumenti di marketing pensati per migliorare i rapporti fra le imprese e i loro clienti possono diventare nocivi per la comunità se diffusi su larga scala senza responsabilità e senso critico, in modo malevolo, spregiudicato e opportunistico. Si tratta di un meccanismo subdolo e sublimale, un’asticella invisibile che si alza progressivamente, un virus che inesorabile divora la coscienza della collettività contaminando ideali, pensieri, emozioni e comportamenti.
È inutile negarlo, sottolinea Guenzi nel libro, l’ignoranza da noi piace, e molto. E fa fare anche un sacco di soldi.
Un posto d’onore, in questo processo di galoppante affermazione del marketing dell’ignoranza, l’autore lo riserva ai politici e ai pubblici amministratori, nonché al sistema dei mezzi di informazione.
Per la maggior parte dei filosofi e dei principali pensatori della storia, l’ignoranza è un fenomeno negativo. La cultura, invece, ha una connotazione positiva. Per Spinoza, chi aumenta il proprio sapere accresce anche la gioia di vivere. Conoscenza e cultura sono precondizioni per essere felici. Ma allora perché l’ignoranza è così diffusa e addirittura valorizzata?
L’autore ricorda l’antico detto dell’Ecclesiaste: «Qui auget scientiam, auget et dolorem» (Chi accresce la propria sapienza, aumenta anche le proprie sofferenze).
È una visione condivisa da Schopenhauer, secondo il quale «nella stessa misura in cui la conoscenza perviene alla chiarezza, e la conoscenza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge perciò il suo massimo grado nell’uomo, tanto più, quanto più l’uomo distintamente conosce ed è più intelligente. La persona in cui vive il genio, soffre più di tutti».
L’ignoranza costituisce un potente antidoto a molte forme di sofferenza, un formidabile anestetico a molte delle difficoltà, dei dubbi, dei tormenti che la vita inevitabilmente propone. All’estremo, l’ignoranza porta a una insensibilità che riduce o elimina la vulnerabilità. Non è solo una condizione, ma in molti casi anche una filosofia esistenziale, una scelta quotidiana (più o meno consapevole), un modo di essere, di intendere la propria vita e la relazione con il mondo e, in particolare, con le persone intorno a noi. Al riguardo, sottolinea Guenzi, in Italia la situazione è decisamente grave: secondo il Rapporto PIACC del 2024, nel nostro Paese il 35% degli adulti è in una condizione di analfabetismo funzionale, cioè sa leggere ma fatica a comprendere il senso anche solo di frasi semplici, e non riesce a eseguire calcoli matematici elementari. Questi dati ci collocano agli ultimi posti fra i Paesi OCSE, industrializzati.
Lo studio di Paolo Guenzi dimostra quanto queste persone, in tali condizioni, difficilmente possono gestire le complessità della vita contemporanea, orientarsi nella massa delle informazioni e contribuire al raggiungimento di decisioni e politiche più consapevoli, il che rappresenta una preoccupazione crescente per le democrazie moderne.
Nella maggior parte dei casi le compagnie di comunicazione delle strategie di marketing di maggiore successo sono accomunate dalla volontà e capacità di costruire un mondo idealizzato e rasserenante in cui i problemi, le preoccupazioni, le fatiche, le difficoltà e le fisiologiche brutture della vita sono magicamente assenti. Di per sé, trasmettere un modello di esistenza leggero, sereno e allegro non è un crimine, tuttavia, come per altri ingredienti del marketing dell’ignoranza, l’impatto sulla collettività della sistematica disseminazione a reti unificate di questa visione idealizzata e irrealistica del mondo ha conseguenze profonde sul sistema di valori e sullo stile di vita di un’intera società. Per Guenzi, l’interiorizzazione collettiva di uno pseudomondo artificiale in cui quasi tutti sorridono e si godono la vita rende inconciliabili con la propria esistenza altri concetti connaturati agli esseri umani come fatica, sofferenza, dolore, impegno.
In una società così profondamente e pervasivamente dominata dall’apparire e dalla sovra-comunicazione, qualsiasi dato, abilità, conquista, risultato non conta in sé, ma vale solo nella misura in cui viene mostrato ad altri. Non c’è gratificazione senza condivisione.
Ed ecco allora che la vita immaginaria delle campagne di comunicazione diventa la vita immaginata degli utenti dei social network.
Anche la smart-economy, per certi versi, è un sintomo del marketing dell’ignoranza nella misura in cui si producono prodotti sempre più intelligenti per consumatori sempre più stupidi. Ritiene infatti Guenzi che, a livello sistemico, all’aumentare dell’intelligenza dei prodotti corrisponda necessariamente, o comunque con un alto grado di probabilità, una generale riduzione dell’intelligenza degli esseri umani che li acquistano, utilizzano e consumano. Lo sviluppo della conoscenza e dell’intelligenza in senso più lato deriva infatti in buona parte dall’apprendimento che scaturisce dagli errori.
Il marketing dell’ignoranza è un racconto in chiave minuta di quanto è sotto gli occhi di tutti. L’autore, contrariamente a quanto accade per le sue altre pubblicazioni, ha accantonato lo stile accademico e ricercato, ha ridotto al minimo fonti, citazioni e dati. Limitandosi a riportare la cruda a amara realtà dei fatti. L’ovvietà di ciò che l’autore scrive – intendendo con ovvietà il fatto che quanto egli racconta sia palesemente oggettivo e reale – dovrebbe essere di per sé un deterrente a proseguire lungo questa via eppure sembra che questo delirio del marketing dell’ignoranza, con tutti gli annessi e connessi, volga invece in direzione opposta, coinvolgendo un numero sempre maggiore di persone, e colpisca trasversalmente per fasce di età e reddito. Gocce di un vero e proprio “lento tsunami” che si abbatte ogni giorno su cultura, formazione e intelletto.
Il libro
Paolo Guenzi, Il marketing dell’ignoranza. Un prodotto Made in Italy di straordinario successo, Milano, Egea, 2025.
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Che cos’è l’Africa per l’Italia e per l’Europa? La si dipinge alternativamente come terra delle opportunità o come mostro demografico pronto a schiacciarci, giacimento a cielo aperto o antro di malattie e pandemie, partner per gli aiuti internazionali o socio nel commercio internazionale, lions on the movei o bottom billionii. Cosa sono l’Italia e l’Europa per l’Africa? Di fronte ai mutamenti indotti dalla deglobalizzazione e dalle guerre in corso, l’Africa è alla ricerca di un’autonomia che le permetta di fare le proprie scelte in maniera indipendente. Il modello di sviluppo occidentale sembra stia portando tutti in un vicolo cieco ecologico. Il continente africano, che non ha ancora intrapreso tale percorso, è forse nella posizione migliore per inventare un nuovo modello iii.
I saggi raccolti in Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa (Edizioni Angelo Guerini e Associati, 2024), volume collettaneo curato da Mario Giro iv, indagano i vari aspetti delle relazioni fra Italia, Europa e Africa per comprendere se davvero la risposta agli interrogativi sia inclusa o meno nel Piano Mattei del governo Meloni. Ma, soprattutto, mettono in evidenza i punti programmatici mancanti o su cui si dovrebbe lavorare per rendere il Piano, attualmente in una fase ancora embrionale, davvero incisivo ed efficace nella costruzione di un partenariato equo e duraturo.
Il Continente africano sta attraversando una serie di transizioni epocali in campo economico, sociale, politico e demografico. Si prevede che la sua popolazione sarà più che raddoppiata entro il 2050 e supererà quota 2,5 miliardi, un quarto di quella globale. L’Africa rimarrà, in futuro, anche la regione più giovane del mondo, con un’età media di 25 anni. Possiede circa il 30% delle riserve minerarie, il 7% delle risorse petrolifere e di gas e oltre il 60% delle terre arabili incolte del mondo. Il Governo italiano guidato da Giorgia Meloni intende imprimere, con il Piano Mattei, un cambio di paradigma nei rapporti con il Continente africano e costruire un partenariato su base paritaria, che rifiuti tanto l’approccio paternalistico e caritatevole quanto quello predatorio, e che sia capace di generare benefici e opportunità per tutti v.
Fondamentale per l’attuazione del Piano Mattei per l’Africa è il ricorso al Fondo italiano per il Clima, il cui 70% è dedicato all’Africa per la realizzazione di iniziative nei settori dell’idrogeno verde, dell’energia rinnovabile e dell’adattamento agricolo al cambiamento climatico, per il ripristino della biodiversità e per l’uso sostenibile delle risorse naturali. La dotazione iniziale del Piano Mattei è di 5 miliardi e 500 milioni di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, di cui circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il Clima e 2,5 miliardi dei Fondi della Cooperazione allo Sviluppo vi.
Si consideri che nello stesso arco temporale durante il quale la popolazione africana crescerà e l’età media sarà sempre più bassa, l’Europa vivrà un forte declino demografico. Nel 2050, l’Italia avrà registrato un presumibile calo di 7 milioni di abitanti, con piccoli comuni svuotati, un rilevante aumento degli ultraottantenni e una conseguente riduzione della ricchezza nazionale e del welfare, a partire dall’insostenibilità del sistema pensionistico vii.
Viceversa, la popolazione in età lavorativa in Africa, attualmente pari a circa il 56% del totale, aumenterà fino al 63% nello stesso periodo. Il Piano Mattei si propone di dare priorità a quegli interventi che si prefiggono di promuovere la formazione e l’aggiornamento dei docenti, l’adeguamento dei curricula, l’avvio di nuovi corsi professionali e di formazione in linea con i fabbisogni dei mercati del lavoro locali. Potranno essere impiegate le nuove piattaforme digitali per l’apprendimento della lingua italiana a distanza. Egualmente, si potrà considerare il coinvolgimento delle Università italiane nell’attuazione di iniziative di formazione nel Continente africano. Da questo punto di vista è significativa l’esperienza realizzata dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) con il “Partenariato per la conoscenza”, che ha l’obiettivo di mettere in rete le migliori competenze tecniche e accademiche italiane per l’alta formazione. Oltre alla finalizzazione e al negoziato di diversi memorandum d’intesa in alta formazione, ricerca e innovazione, a oggi sono circa mille gli accordi inter-universitari con atenei africani, ai quali si aggiungono circa duecento progetti universitari (il 47% dei quali nel settore della formazione). Il sistema universitario italiano è disponibile a condividere con le Università africane il know-how nel campo della ricerca, del trasferimento delle conoscenze e della formazione, con l’obiettivo di sviluppare rapporti di collaborazione paritaria e di crescita comune viii.
Il calo della popolazione italiana è in costante aumento dal 2014, con una contrazione delle nascite e un innalzamento della speranza di vita, un conseguente aumento della popolazione anziana e una riduzione di quella giovane. Secondo questo trend, nel 2050 a essere aumentati saranno solo gli over 55, con un +45,7%, mentre la fascia 18-21 sembra essere destinata a crescere solo del 3,2%. Avere meno giovani significherà avere anche meno immatricolati e meno laureati, con un peggioramento netto della situazione italiana a livello mondiale. Nel 2020 la Commissione Europea ha presentato la European Skill Agenda con dodici azioni finalizzate a promuovere lo sviluppo delle competenze che i cittadini dovrebbero avere per essere in grado di affrontare la complessità del mondo contemporaneo. Sin dalle prime pagine del documento, si sottolinea come la crescita dei Paesi sia strettamente connessa alla preparazione dei propri cittadini. L’istruzione in giovane età rimane fondamentale ma costituisce solo la prima tappa di un percorso di vita, ovvero la prospettiva del lifelong learning.
Nel nostro Paese il 63% delle persone occupabili (ovvero di età compresa tra i 25 e i 64 anni) ha almeno un titolo di studio secondario superiore, contro il 79,5% della media europea e l’83,3% di Germania e Francia. Il 20,3% possiede un titolo di studio terziario (universitario). Una percentuale nettamente inferiore alla media europea (30,4%) e circa la metà di quella registrata in Francia e Germania ix.
I giovani di età compresa tra i quindici e i trenta anni sono al massimo della potenza biologica, sessuale e ideativa eppure la società italiana, e occidentale in generale, se non ne fa proprio a meno, certamente non impiega opportunamente e utilmente quella generazione. Che futuro potrà mai avere, se ce l’avrà, questa società che ignora i propri giovani?
La verità è che, per certi versi, la vecchia società, ancorata a quelli che ritiene baluardi e principi inderogabili, sembra quasi aver paura di questa “massa giovane” di nichilisti attivi che appaiono come i soli ad aver compreso che l’amore è l’unico antidoto al valore del denaro, che non hanno timore di cambiare, stravolgere l’ordine dato, evolvere la società in altro x. Il punto è che la società italiana, e occidentale in generale, sembra non comprendere neanche i giovani stranieri. Si chiede retoricamente Mario Giro nel testo cosa abbia mai la gioventù africana globale che gli occidentali non capiscono, abituati a un mondo in cui i giovani sono pochi.
Questa gioventù possiede un irrefrenabile desiderio di contare, di diventare soggetto, ed è disposta a correre grandi rischi per ottenere il suo posto nella globalizzazione che tutto offre e nega allo stesso tempo. L’atto migratorio diviene l’avventura individuale dell’invenzione di sé, del proprio posto nel mondo. Imparano a essere aggressivi e meno mansueti dei loro genitori: nelle grandi città africane la vita ha assunto i contorni di una lotta per la sopravvivenza che poi si ripete al di là del Mediterraneo. Oggi migrare è realizzare il sogno individuale di prendere in mano il proprio destino.
Lo sguardo occidentale – qualunque sia la posizione sugli immigrati – è miope: non vede la forza colossale insita in tale nuova generazione africana che non si ferma davanti a nulla, esce dal proprio ambiente e va verso l’ignoto. Avventurieri è la parola usata in Africa per chi decide di emigrare in Europa, coloro che hanno il coraggio di fare il “grande viaggio”. Giovani i quali ormai compiono il cammino iniziatico senza più supervisione degli anziani, non c’è bosco sacro, non ci sono classi di età, si supera anche l’etnia. Ci sono solo individui immersi nel caos. La mentalità dell’africano adulto o anziano è ancora legata ai vecchi miti e alle ideologie anni Sessanta, come il panafricanismo, il socialismo africano, il federalismo o la negritudine. La percezione delle giovani generazioni è diversa: tra di esse prevale un’aspettativa di prosperità individuale e molto competitiva. È sorto un ceto medio africano più istruito e culturalmente globalizzato ma meno interessato al futuro comune xi.
Per la giovane generazione intellettuale africana il continente non è più nero ma grigio: fallita l’Africa romantica che fingeva sulla propria grandeur precoloniale, immaginava emozioni e progettava nuove prospettive comunitariste, rimane un’africa sterile e mancata che, tra corruzione e violenza, non ha saputo voler bene ai propri figli i quali ora la disconoscono e hanno smesso di amarla. È questa la rottura sentimentale che si compie: innanzitutto una frattura con sé stessi, con la propria terra matrigna. Ma non si può amare nemmeno chi ha contribuito a renderla così: il mondo “bianco” che non ha risposto alla domanda di reciprocità dei padri. Tra la retorica di un’Africa eterna e il vittimismo costante, resta solo un grande vuoto di cui i giovani africani sono figli. Spaesati – come i loro coetanei di altri continenti – nel grande flusso della globalizzazione, reagiscono con una mentalità egocentrica e globalizzata al contempo.
Oggigiorno molti giovani “votano con i piedi”, cioè se ne vanno. Dopo la generazione sacrificata dell’aggiustamento strutturale (1985-2000) xii, oggi ne è giunta a maturità un’altra che non vuole fare la stessa fine. Per questo si ribella a modo suo e non si fida più di nessuno. La sfida è ricreare un terreno d’intesa ricostruendo le basi di un dialogo comune. xiii
Uno dei modelli di integrazione, diffuso soprattutto in Germania, Svizzera e Belgio, è quello del “lavoro temporaneo”, il quale accoglie immigrazione sulla base di necessità stagionale, temporanea e settoriale di manodopera, permettendo l’ingresso a persone alle quali vengono garantiti diritti sindacali ma non politici. Non vengono offerte opportunità di integrazione ma solo di lavoro. Tutto ciò, costruito nell’ottica di una migrazione circolare, presuppone permessi di soggiorno legati alla durata del contratto di lavoro, eventualmente rinnovabili, esclude la possibilità di ricongiungimenti familiari e rende molto difficolto l’accesso alla cittadinanza. La Francia, invece, ha quasi sempre prediletto l’approccio assimilazionista. Il processo di naturalizzazione prevede una rapida omologazione anche culturale, mediante adesione alle regole democratiche laiche che fondano la comunità francese. L’Italia non ha mai davvero adottato alcun modello per cui il sistema di integrazione viene “costruito” nei fatti dalla stratificazione normativa vigente in materia. xiv La fattispecie risultante potrebbe essere definita con un ossimoro assimilazionista di tipo escludente.
La mancanza di un qualsivoglia modello teorico adeguato ad affrontare la questione immigrazione nel nostro Paese va inteso come l’effetto di alcuni fattori che hanno orientato il dibattito pubblico in senso emergenzialista e conflittuale, producendo esiti frastagliati dovuti proprio alla mancanza di un paradigma generale. xv In Francia viene richiesto agli immigrati di assimilarsi al sistema culturale ospitante e in cambio viene offerta una rapida e piena integrazione che culmina con l’attribuzione della cittadinanza, in Italia questo scambio risulta fortemente impari: i migranti dovrebbero rinunciare alla loro identità etnica, culturale e religiosa in cambio di nulla.
La politica migratoria del governo Meloni presenta una tripartizione netta e ben definita. La prima politica è quella inerente l’accoglienza dei rifugiati ucraini e mantiene, sostanzialmente, la linea dettata dal governo Draghi nel marzo 2022. La seconda, egualmente non nuova ma rafforzata dall’attuale governo, consiste nell’apertura nei confronti degli ingressi dei lavoratori, soprattutto per lavoro stagionale m anche per occupazioni stabili. La terza politica è quella della chiusura verso gli ingressi per ragioni umanitarie. Gli impedimenti frapposti ai salvataggi in mare da parte delle ong, il decreto Cutro con la quasi abolizione della protezione speciale per i rifugiati e la conseguente condanna a una vita di stenti per i richiedenti asilo respinti, ma raramente espulsi, le restrizioni all’accoglienza dei minori non accompagnati, i ripetuti viaggi e gli accordi con il regime tunisino e con quello egiziano, oltre a quelli con la Libia sembrano aver delineato una linea politica a suo modo coerente ma in netto contrasto con l’articolo 10 della Costituzione e le convenzioni internazionali sul diritto di asilo.
In questa cornice si inserisce anche l’accordo con l’Albania e la realizzazione dei centri extraterritoriali per l’esame delle domande d’asilo. Meloni ha parlato di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti ma il fatto che nei due centri verranno trattenuti soltanto uomini adulti non fragili, tratti in salvo da navi militari e provenienti da paesi classificati come sicurixvi conferma l’intenzione punitiva del progetto. xvii
Il Piano Mattei, nelle intenzioni del governo Meloni, mira a sviluppare economicamente le aree da cui maggiormente origina il fenomeno migratorio, con l’intento di limitarne gli effetti e combattere la tratta internazionale dei migranti irregolari. In Italia, le comunità di migranti africane si sono integrate stabilmente, dando vita a un tessuto associativo ricco e variegato che va dall’integrazione sociale alla promozione culturale. L’emergenza e la crisi scatenata dall’esplosione della pandemia da Covid-19 hanno evidenziato l’importanza del ruolo che giocano le associazioni delle diaspore. Durante i lockdown le associazioni hanno prontamente attivato meccanismi di risposta all’emergenza dovuta all’epidemia, attuando iniziative diversificate nei Paesi in cui operano e affrontando una situazione unica che ha colpito le diaspore due volte: in Europa nei Paesi di approdo e, contemporaneamente, nei loro Paesi di origine. Le diaspore, inoltre, rappresentano una risorsa inestimabile per lo sviluppo economico dei loro Paesi attraverso le rimesse e gli investimenti.
Per Dioma, queste attività non solo migliorano le condizioni di vita ma rafforzano anche le relazioni bilaterali con l’Italia. I membri della diaspora si muovono tra due Paesi e conoscono le condizioni di vita di entrambe le parti. Questa posizione li rende attori chiave nel dibattito sulla cooperazione allo sviluppo. La loro comprensione delle culture, delle dinamiche economiche e delle esigenze e opportunità specifiche di entrambi i contesti li rende particolarmente efficaci nel promuovere progetti di sviluppo che siano culturalmente sensibili e mirati. Il coinvolgimento attivo degli stessi migranti nei processi di sviluppo assicura che le iniziative siano realmente rispondenti alle necessità delle comunità locali xviii e andrebbero attivamente coinvolti nei progetti di cooperazione, anche e soprattutto quelli del Piano Mattei.
Il fenomeno migratorio africano, contraddistinto da particolare intensità e complessità, è favorito dalla prossimità geografica di due Continenti simbolicamente uniti, oppure separati, dalle medesime acque. Il declino di una concezione dello spazio geografico come susseguirsi di distese contigue, dominate da un’enfasi sui confini come sedi di conflitto, con i mari come vuoti; l’estinguersi rapido di un assetto geopolitico che trovava in due “superdistese” la sua semplificata versione globale, ha privato il Mediterraneo di una plurisecolare funzione di diaframma tra due mondi, ha abbattuto (o meglio, reso inutile) una frontiera che è stata caricata di significati di separazione tra mondo moderno e spazi più o meno organizzati della povertà, spazi dei conflitti. La chiave di lettura, in sostanza, è quella di una situazione-regione, rispetto a quella contrastante di regione-situazione (intendendo con la prima il ruolo di semplice spazio attraversato di linee di forza esterne, e per la seconda quello di campo in qualche modo gestito e governato) xix.
I migranti sono letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo e ridotti a un fattore esclusivamente economico o legati a una crisi politica. Necessita invece, per una maggiore comprensione della modernità, che la migrazione venga interrogata come presenza complessivamente ben più profonda e ampia. Pensare con la migrazione, andare oltre la superficie fino alle più profonde diseguaglianze della giustizia economica, politica e culturale negata che struttura e dirige questo nostro mondo.
I migranti, affermando il loro diritto a muoversi, migrare, fuggire, spostarsi, non solo rompono gli schemi e si oppongono al rispetto del posto assegnato loro dalla storia, ma segnalano anche la modalità precaria contemporanea della vita planetaria. È il modo in cui i molteplici sud del pianeta si propongono all’interno della modernità. E proprio questo nuovo modo di promuoversi viola e indebolisce le categorie applicate loro dal nord egemonico xx.
Il discorso sui giovani in Africa, da qualsiasi angolatura lo si intenda imbastire, pone di fronte a complessità di ordine innanzitutto teorico. Da un punto di vista analitico, infatti, la categoria “giovani” applicata all’eterogenea vastità culturale, storica, territoriale, economica e politica del continente africano, costituisce un insieme estremamente denso e composito che interroga fin da subito sul rischio di eccessive generalizzazioni. Oggetto di ricerca, dibattiti e analisi accademiche multidisciplinari, bacino umano di risorse spesso manipolate dall’alto, ma anche fonte di timore per quei governi che mal sopportano l’emergere di nuove coscienze politiche e resistenze dal basso, segmento “vulnerabile” della società destinatario di numerosi progetti di cooperazione, ma anche segmento familiare “forte” su cui si riversano aspettative e responsabilità, la fetta più consistente della popolazione, ma sovente la più esclusa dalle istanze decisionali. Tutto questo e molto altro, i giovani, definiti in termini di categoria, finiscono spesso per slittare da moltitudine di soggettività a oggetto omogeneo, in ragione di quell’appiattimento che in una qualche misura la categoria stessa produce.
In questo senso, pur considerando i tratti che in linea generale accomunano trasversalmente i giovani in Africa, è necessario dotarsi di una visione plurale che tenga conto delle tante gioventù africane e di come esse si collochino nella società. Un aspetto fondamentale è proprio lo spazio peculiare che esse abitano, e cioè quello situato all’intersezione tra modernità e tradizione, tra locale e globale, tra immobilità e mobilità, tra marginalità e centralità. Queste intersezioni, tutt’altro che fugaci punti di contatto, rappresentano snodi vitali, zone di confluenza creativa dove si concentra una produzione incessante di nuovi modelli, nuove relazioni e nuove identità politiche, economiche, sociali e culturali, nonché nuove forme di adattamento a una realtà in continuo fermento e non di rado disorientate. Una produzione che scaturisce da processi di rielaborazione simbolica e risignificazione di luoghi e relazioni di potere da cui emerge quella capacità di aderire plasticamente al cambiamento, ma anche di produrlo in maniera attiva e consapevole. Un elemento, questo, che rompe con la visione di una gioventù statica e passiva che, al contrario, conquista un protagonismo sempre più evidente xxi. Le primavere arabe e i movimenti di contestazione in Africa subsahariana sono l’espressione più evidente della centralità della “questione giovanile” nel Continente.
In qualità di naviganti della globalizzazione connessi con il mondo ma in relazione quotidiana con il proprio territorio di cui sperimentano potenzialità e carenze, anche dal punto di vista del lavoro i giovani vanno considerati come compositori di nuovi modelli. Nel proporre prospettive in base alle proprie esigenze e competenze, visto l’aumento del livello di istruzione a partire dagli anni 2000 in avanti, si dovrebbe innescare anche quel processo di adattamento dei modelli professionali al contesto locale.
La crescita delle città, la nascita della classe media, l’emergere di una società civile forte e dinamica, lo sviluppo economico e politico, la diminuzione dei conflitti sono già realtà in Africa. Realtà che in Italia non vengono pressoché mai raccontate. L’impressione è che il Piano Mattei sia il tentativo di mettere in rete il patrimonio di progetti, relazioni e iniziative che uniscono le due sponde del Mediterraneo. Lo sviluppo dell’Africa è forse la più importante occasione di crescita e sviluppo dell’Italia dal dopoguerra. L’Africa è il posto dove investire perché dispone delle più ricche fonti di energia rinnovabile, di manodopera e risorse. L’area di libero scambio continentale africana è un mercato da 3.400 miliardi di dollari. Nell’analisi di Zaurrini si evidenzia come il Piano Mattei sia necessario più all’Italia che all’Africa.
Negli ultimi quarant’anni l’Italia in Africa ha latitato nel sistema geopolitico, ma non gli italiani. Le aziende italiane sono sempre state presenti e continuano a farlo in numero crescente. Ci sono stati e ci sono i grandi gruppi industriali del settore dell’energia, sia quella classica che quella rinnovabile, quelli delle infrastrutture e delle costruzioni o dell’agroalimentare. Proliferano poi le piccole e medie aziende. Il primo vero problema, per chi opera in Africa o è intenzionato a farlo, sono le difficoltà che si incontrano nel settore bancario o finanziario. Persiste uno scollamento tra un tessuto imprenditoriale fatto soprattutto di piccole e medie imprese che, complice la crisi, si sta rivolgendo sempre più spesso a mercati emergenti, compresi quindi quelli africani, e un sistema Paese – in cui rientrano le banche e le assicurazioni – che ancora stenta a muoversi in direzione sud. Ci sono banche italiane in Nord Africa ma a sud del Sahara sono presenti solo in via indiretta, attraverso filiali di gruppi stranieri che, nel frattempo, hanno acquisito il controllo di istituti italiani.
La scarsa conoscenza dell’Africa e delle sue dinamiche tra gli operatori economici e finanziari, la quasi totale assenza del sistema bancario e finanziario africano sono i principali freni all’esplosione delle relazioni economiche tra l’Italia e il grande continente. Il Piano Mattei deve evitare di cadere nell’equivoco investimento-commercio: le aziende italiane che vogliono investire in Africa non sono tante, quelle che vogliono commerciare sono invece molte ma molte di più. Non può essere un piano di sostegno al commercio italiano se si intende incidere davvero sulle cause profonde di sviluppo economico, politico e sociale del continente africano. xxii
Le aziende italiane, che di sovente si muovono autonomamente e con forte spirito mercantile o avventuriero, devono imparare a fare sistema, uscendo dall’ebbrezza e dall’autocompiacimento di quel Made in Italy pronunciato come fosse un sinonimo planetario di qualità e, troppo spesso, invocato come un passepartout adatto a ogni situazione. xxiii
Al contrario, i concetti di impresa, imprenditore, competitività, gestione del rischio e così via, non sono universalmente interpretabili allo stesso modo, ma sono estremamente fluidi e variegati in base al contesto.
Bisogna tenere ben presente la questione dell’adattamento del concetto di impresa al contesto africano, dove l’economia risponde a criteri di condivisione, di spartizione delle risorse anziché di monopolio, di relazioni familiari e benessere comunitario anziché individuale. L’Africa deve riposizionarsi nel mondo a partire dalle sue specificità, affrancandosi dal rapporto mimetico insano e caricaturale nei confronti dell’Europa e proponendo modernità alternative squisitamente africane xxiv.
Il ruolo che i giovani stanno assumendo nei processi di trasformazione sociale, economica e politica ha una centralità crescente, a dimostrazione di quanto sia fuorviante quell’immobilità che viene loro attribuita come fossero in balia delle privazioni senza possibilità o volontà di reagire. Se da un lato è innegabile che molti giovani africani sono costretti a fare i conti con situazioni di conflitti, povertà e violenza, dall’altro questo non coincide automaticamente con passività e rassegnazione. xxv
Essi rappresentano un insieme eterogeneo che nel quotidiano naviga il concetto di sviluppo nell’era della globalizzazione, incarnandone i paradossi e le potenzialità. Se la gioventù africana fosse vittima dell’esclusione sociale, probabilmente la sua presenza nelle organizzazioni della società civile, nella politica dal basso, nella produzione culturale, artistica e intellettuale non sarebbe così robusta. Per questo motivo, costituiscono una delle voci principali che i decisori politici e gli attori della cooperazione internazionale hanno il dovere di ascoltare. Se uno degli elementi centrali delle politiche di sviluppo è la costruzione di progetti in linea con le peculiarità dei contesti in cui si opera, i giovani sono forse coloro che più sono in grado di far luce sulla dimensione dell’avvenire, sul «futuro come fatto culturale»xxvi, un futuro immaginato attraverso cui si costruiscono strategie di adattamento a partire dal quotidiano.
Da un punto di vista eminentemente pratico, i giovani dovrebbero assumere la posizione di interlocutori principali, dovrebbero cioè essere ripensati come co-costruttori delle politiche per il lavoro, e non soltanto come destinatari. Un processo, questo, che deve inevitabilmente includere anche un ripensamento dei modelli economici su scala locale, non necessariamente dipendente da ciò che l’Occidente intende per modernità xxvii.
La filosofia che sembra prosperare tra i giovani africani è quella della salvezza individuale legata al rifiuto del passato (sia quello tradizionale che quelli coloniale e post-coloniale), al ripudio dei propri leader fallimentari ma anche al rigetto dello straniero. Mai come ora, i giovani africani si concepiscono soli, rivendicando allo stesso tempo la propria libertà e il diritto di accedere al resto del mondo. Sottolinea Giro che uno dei motivi ricorrenti è la collera contro le classi dirigenti africane le quali, mentre mandano i loro figli nelle scuole all’estero, hanno abbandonato il settore educativo, lasciato andare in rovina le strutture scolastiche, non hanno sovvenzionato gli insegnanti rurali e hanno lasciato cadere la sanità.
Talune caratteristiche proprie della società postcoloniale stanno facendo la loro comparsa nei Paesi del Nord, anch’essi alle prese con una crescente eterogeneità demografica che produce fratture e rivendicazioni identitarie, con un’economia delocalizzata dove i centri di produzione e di consumo appaiono dispersi, dove la finanza prevale sulla produzione, la flessibilità sulla stabilità. In altri termini la diffusione della democrazia sembra andare di pari passo con l’espansione globale del capitalismo con tutte le sue contraddizioni. La politica, per gli Tswana ad esempio, è in primo luogo una dimensione partecipativa vissuta nel fluire della vita sociale. Non stupisce che, a partire da questa concezione, la democrazia formale di tipo occidentale basata sull’espressione elettorale e sull’alternanza dei partiti al governo risulti insoddisfacente. Come altre società africane dotate già in epoca precoloniale di complesse strutture politiche centralizzate, gli Tswana credono fermamente nel senso di responsabilità che il leader deve alla comunità: un famoso adagio tswana recita kgosi he kgosi ka morafe, «un capo è un capo grazie alla sua nazione». La concezione di politica tradizionale tswana si basa in definitiva su un’idea di democrazia sostanziale, mentre la democrazia formale ottenuta attraverso il voto risulta in questo contesto poco saliente xxviii.
La modernità viene intesa come il mito eurocentrico di una “teleologia universale” caratterizzata dall’idea di un progresso unilineare che l’umanità intera starebbe inevitabilmente perseguendo. Tutte le culture evolverebbero in questa prospettiva attraversando (con ritmi e tempi diversi) vari stadi di sviluppo per raggiungere infine il traguardo della civiltà che contraddistinguerebbe l’età moderna. È evidente come questo impianto concettuale – che si è dimostrato ampiamente congetturale – abbia fornito un alibi scientifico e morale all’espansione coloniale: nel nome dello “sviluppo economico”, della “conversione”, l’Europa potè infatti giustificare la conquista di ampie regioni del mondo xxix. I Comaroff hanno levato con forza la loro voce contrapponendo all’idea eurocentrica di una modernità universale l’immagine di modernità multiple o alternative. L’agency africana, come quella di altre culture extraeuropee, ha dato vita a forme di modernità differenti, risultato dell’incontro tra le identità locali e i processi globali innescati dal colonialismo. Declinare la modernità al plurale, mettendo in discussione la presunta unidirezionalità Nord-Sud dei flussi di idee, è dunque il presupposto della proposta controevoluzionista analizzata dai Comaroff.
Sorge a questo punto spontaneo un quesito: nei programmi come il Piano Mattei c’è davvero la volontà di una cooperazione basata sul reciproco rispetto di idee e risorse da ambo le parti istituzionali?
Mario Giro sottolinea come il tema della cooperazione tra Italia e Africa sia stato, negli anni, molto altalenante. La scommessa del Piano Mattei è quella di superare tale limite creando una vera e propria azione sistemica che duri nel tempo. La frattura tra Occidente e Africa, segnatamente con la Francia in Africa occidentale, rende tale compito arduo. Nei recenti colpi di Stato continentali si è visto bruciare bandiere francesi e alzare quelle russe. Sono scene del Mali o del Burkina Faso e infine del Niger. Si tratta di una rottura definitiva con l’Occidente? Lo si è visto anche nei ripetuti voti alle Nazioni Unite dove il continente si è spaccato sulla condanna alla Russia. Più ancora nel caso della guerra a Gaza: l’Africa intera si è schierata con i palestinesi quasi spontaneamente. Una rottura sentimentale che si allarga all’Europa intera. Una rivolta del Sud globale.
La caduta del sistema della guerra fredda ha rappresentato la fine delle ideologie contrapposte. Al loro posto c’è stato l’avvento delle identità e/o emozioni, di per sé molto volubili. Le relazioni tra gli Stati e i popoli sono ormai rette da una “geopolitica delle emozioni”, le più significative tra le quali sono la speranza, l’umiliazione (e il rancore a essa connesso) e la paura (del declino). Per le nazioni e le classi politiche tali emozioni non si fermano al sentimento ma si trasformano in cultura e programmi partitici. Nella post-globalizzazione tutti si sentono al medesimo tempo nativi ed estranei: di conseguenza più o meno spaesati xxx. È ciò che stanno vivendo i giovani africani: ogni punto di riferimento è scomparso. Tutto è in grande e generale rimescolamento.
Anche l’Europa è in continuo rimescolamento. Di fronte alle nuove dinamiche mondiali i singoli Stati europei sono destinati a perdere progressivamente peso politico ed economico se non sapranno conciliare la visione nazionale e intergovernativa con la visione federale. Solo un’Unione sempre più federale, capace di valorizzare l’insieme delle specificità nazionali, può infatti riuscire ad avere un reale e forte peso politico ed economico e conquistare una credibilità globale che nessun singolo Stato europeo potrà mai avere. Anche nel rapporto con l’Africa. Proprio mentre l’Unione Europea sta prendendo consapevolezza di avere bisogno dell’Africa, come e forse più di quanto essa abbia bisogno dell’Europa nei prossimi decenni, vari Paesi africani stanno già guardando ad altri continenti e altre aggregazioni geoeconomiche. E allora quali sono il senso e le reali potenzialità del Piano Mattei dell’Italia in una Europa ancora divisa?xxxi
Le ambizioni italiane verso il continente africano sembrano misurate, sebbene reali. Per certo differenti da quelle francesi. Le relazioni tra Francia e Africa hanno un’anzianità e un ancoraggio impossibile da confrontare a quelle italiane ma un corrispondente Piano Foccart riporterebbe Parigi ai suoi demoni, ovvero a una Françafrique a cui cerca di sfuggire con ogni mezzo. Argomento tabù, perché sfruttata abusivamente e caricaturalmente a fini elettorali, mai del tutto assunta come consapevolezza collettiva e nazionale, la “responsabilità” francese di ex potenza colonizzatrice deve tornare a essere, secondo l’analisi di Emmanuel Dupuy, una forza e non un ostacolo in vista di un rapporto pacificato. Il nodo gordiano del rapporto reciproco tra Francia e Africa francofona è l’ignoranza delle storie reciproche. Indubbiamente è ora opportuno agire, in un primo momento privilegiando il principio di “equità” piuttosto che quello di “uguaglianza” nelle relazioni transcontinentali e/o bilaterali riequilibrando un rapporto asimmetrico nel quadro di un dovere di imparzialità. xxxii
Germania e Italia sono sempre riuscite a mantenere un maggiore equilibrio nelle relazioni con il continente africano, nonostante o forse proprio perché la durata della “loro” colonizzazione è stata più breve e meno incisiva di quella francese.
Cosa significa allora cooperare con l’Africa tra pari, in maniera non predatoria né paternalistica?
Per Sergi, pur essendo un piano “non calato dall’alto” ma definito da una “piattaforma programmatica condivisa”, non traspare ancora quale sia il radicale cambiamento rispetto a quanto l’Italia e l’Europa hanno realizzato con le iniziative di cooperazione internazionale. Il documento trasmesso al Parlamento italiano il 17 luglio 2024 non esprime né una nuova visione strategico-programmatica né le modalità di condivisione con i Paesi africani, elemento fondamentale nella relazione tra pari. È indispensabile che quanto prima siano chiarite le concrete modalità di governance e siano definiti obiettivi con criteri di valutazione misurabili, a partire da quelli dell’Agenda 2030, assicurando trasparenza e coerenza all’intero processo decisionale, attuativo e valutativo.
Sono tante le ragioni che spingono alla costruzione di solidi rapporti tra i due continenti e alla definizione di un comune cammino di sviluppo e progresso. Lo richiedono le incertezze di un mondo a geometria variabile, che ha perso la bussola delle istituzioni politiche multilaterali nate dopo le divisioni e gli orrori delle due guerre mondiali e che, in larga parte, tende a rifiutare l’attuale “ordine” internazionale, non corrispondente ai mutati equilibri di potere, alle esigenze di maggiore equità, al riconoscimento di regole condivise, al rispetto della dignità altrui. Lo richiede l’interesse a stabilire solide collaborazioni per l’acquisizione di materie prime indispensabili alle produzioni industriali e alla transizione energetica. Lo richiede una visione politica illuminata capace di guardare lontano e costruire un sicuro e duraturo reciproco vantaggio. xxxiii
Forse la strada da seguire è quella che condurrebbe a una cooperazione triangolare tra America Latina, Italia e Africa. Coinvolgere partner di regioni extra-europee rende l’iniziativa più inclusiva e per molti aspetti più accettabile, se non altro perché in molti casi può scattare un sentimento di maggiore vicinanza, comprensione di problemi e capacità di condivisione delle soluzioni. Tra America Latina e Africa esistono vincoli storici fortissimi, un legame di sangue e di cultura certamente non inferiore né meno antico rispetto a quello esistente con l’Europa. In America Latina inoltre vi è un sentimento di particolare vicinanza all’Africa, rafforzato dalla scelta di molti governi attuali di garantire il rispetto dei diritti e la piena inclusione sociale degli afro-discendenti in quasi tutti i Paesi del subcontinente.
Il modello di cooperazione triangolare non si basa solo sullo scambio di risorse e conoscenze, ma anche sulla necessaria costruzione di relazioni più forti e durature tra governi, imprese, società civile, in grado di assicurare continuità e sostenibilità al processo di crescita delle nazioni coinvolte.
La fiducia generata da una comunicazione aperta e trasparente, che porta i partner a identificare aree di collaborazione di interesse reciproco e a sviluppare progetti congiunti a beneficio di tutte le parti coinvolte, contribuisce senza dubbio al benessere collettivo ma, promuovendo il dialogo tra attori con punti di vista e prospettive diverse, contribuisce anche a rafforzare la solidarietà politica e il sostegno reciproco nelle sedi internazionali a vantaggio di una maggiore stabilità xxxiv.
Note
iMcKinsey Global Institute, Lions on the move: The progress and potential of African economies, June 2010.
iiPaul Collier, The Bottom Billion: Why the Poorest Countries are Failing and What Can Be Done About It, OUP USA – Oxford University Press, New York City, 2008.
iiiCarlos Lopes,L’Afrique est l’avenir du monde, Seuil, 2021.
iv* membro della Comunità di Sant’Egidio, amministratore di Dante Lab, sottosegretario agli esteri nel governo Letta, viceministro degli Esteri nei governi Renzi e Gentiloni, docente di relazioni internazionali all’Università per Stranieri di Perugia.
vL’inaugurazione di questa nuova fase nei rapporti con il Continente africano ha avuto luogo in occasione del “Vertice Italia-Africa” del 29 gennaio 2024, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti di 46 Nazioni africane, oltre 25 Capi di Stato e di Governo, dei tre Presidenti delle Istituzioni europee, dei vertici delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, delle Organizzazioni internazionali, delle Istituzioni finanziarie e delle Banche multilaterali di sviluppo.
viiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
ixBarbara Bruschi, Micro-credenziali e NOOC potranno contrastare l’inverno demografico nelle Università? In Qtimes – Journal of Education Technology and Social Studies, luglio 2024.
xUmberto Galimberti, La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2018.
xiMario Giro, Il Piano Mattei e la nuova politica africana dell’Italia, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, op.cit.
xiiAll’inizio degli anni Ottanta il mondo della cooperazione allo sviluppo assistette a una ridefinizione delle strategie che avevano dominato le decadi precedenti. Le Istituzioni Finanziarie Internazionali – in particolare la Banca Mondiale – ritennero che un’eccessiva presenza dello Stato nell’economia dei paesi dell’Africa sub-sahariana fosse una delle cause primarie della crisi e formularono programmi di aggiustamento strutturale che miravano a rimuovere i principali limiti alle potenzialità di sviluppo del continente. Ne è derivata una lunga ondata di liberalizzazioni che colpirono molti servizi pubblici e programmi statali inducendo quello che è stato definito come il disimpegno dello Stato.
xiiiMario Giro, Il Piano Mattei e la nuova politica africana dell’Italia, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, op.cit.
xivStefania Tusini, Alcune domande (e risposte Data-Based) su migrazioni, accoglienza e identità, in Maura Marchegiani (a cura di), Antico mare e identità migranti: un itinerario interdisciplinare, Giappichelli Editore, Torino, 2017.
xvRenzo Guolo, Modelli di integrazione culturale in Europa, paper presentato al Convegno «Le nuove politiche per l’immigrazione. Sfide e opportunità», Fondazioni Italianieuropei e Farefuturo, 2009.
xviCon il decreto legge del 22 ottobre 2024 il governo ha inserito 19 paesi nella lista dei paesi sicuri (Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka, Tunisia). Sono rimasti fuori la Colombia, il Camerun e la Nigeria. Va aggiunto che l’Unione Europea, e diversi governi europei, in questa fase mostrano una progressiva convergenza con le posizioni del governo Meloni. Il 16 aprile 2025 la Commissione ha presentato l’elenco UE dei Paesi di origine sicuri che comprende, tra gli altri, anche Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco, Tunisia.
xviiMaurizio Ambrosini, Tutte le contraddizioni del governo Meloni sulle politiche migratorie, lavoce.info, 25/10/2024.
xviiiCléophas Adrien Dioma, Il ruolo delle diaspore africane nel Piano Mattei, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
xixGiuseppe Campione, Migrazioni Mediterranee, in Antonietta Pagano (a cura di), Migrazioni e identità: analisi multidisciplinari, EdiCusano – Edizioni dell’Università degli Studi Niccolò Cusano – Telematica Roma, 2017.
xxIain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e Identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi Editore, Sesto san Giovanni (Milano), 2018 (edizione originale: Migrancy, Culture, Identity, Routledge, Londra, 1994).
xxiMarta Mosca, Giovani e lavoro in Africa: ripensare le categorie e i panorami futuri. Una prospettiva antropologica, in JUNCO – Lournal of Universities and international development Cooperation, n. 1/2020.
xxiiMassimo Zaurrini, Piano Mattei: il futuro dell’Italia passa per l’Africa, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
xxiiiMassimo Zaurrini, Piano Mattei: il futuro dell’Italia passa per l’Africa, op.cit.
xxviiiJean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal sud del mondo. Ovvero come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, 2019 (I Comaroff sono partiti dallo studio etnografico di un’area remota ai confini tra il Botswana e il Sudafrica e hanno percorso un lungo viaggio di ricerca che li ha portati a sviluppare una teoria dei processi globali di produzione della conoscenza e del ruolo che l’antropologia e gli studi africani possono svolgere nella contemporaneità).
xxixJean Comaroff and John L. Comaroff (edited by), Modernity and Its Malcontents. Ritual and Power in Postcolonial Africa, The University of Chicago Press, Chicago, 1993.
xxxDominique Moïsi, Geopolitica delle emozioni. Le culture della paura, dell’umiliazione e della speranza stanno cambiando il mondo, Garzanti, Milano, 2009.
xxxiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, op.cit.
xxxiiEmmanuel Dupuy, C’è bisogno di un «Piano Mattei» francese per ridefinire il rapporto tra la Francia e il continente africano?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
xxxiiiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
xxxivAntonella Cavallari, La cooperazione triangolare: possibili sinergie tra America Latina, Italia e Africa, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
Irma Galgano, laureata in Lettere, indirizzo geografico-antropologico, è docente per le classi di concorso A012, A018, A019, A021, A022, A054. Formatore e Supervisore EIPASS, docente esperto nei percorsi di orientamento e formazione per il potenziamento delle competenze STEM, digitali e innovazione, collabora con varie riviste.
Articolo pubblicato sul numero 75 di Dialoghi Mediterranei, rivista scientifica per le aree disciplinari 10 e 11 (delibera Anvur n. 110 del 11-05-2023, con decorrenza dal 2018), link all’articolo: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lafrica-i-giovani-litalia/
Source: Si ringrazia l’ufficio Stampa di Edizioni Angelo Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com
La parola della poesia di Stefano Agosti è un’indagine critica su quella parte di mondo che si nasconde tra le pieghe di un verso, che viene risvegliata da un accento, che mostra le sue contraddizioni grazie alla metrica. La parola poetica è forse la parte del linguaggio che più di tutte unisce pulsioni viscerali e significati raffinati, simbologie sonore e associazioni inattese.
La proprietà essenziale della parola analitica è esprimere, manifestare, trasmettere quello che essa non dice.1 Tale proprietà potrebbe convenire anche alla parola letteraria, e in particolare alla parola poetica: proprietà che in questo caso sarebbe quella di esprimere, manifestare, trasmettere ciò che non sta nell’ordine del discorso. Ovvero la produzione (la manifestazione) di un senso non risolvibile in termini di significato.
La poesia è un ambito autonomo della realtà e della lingua, nella quale, attraverso il capovolgimento negli abituali rapporti di forza tra piano sintagmatico e piano paradigmatico, è possibile un’interruzione della continuità ordinaria, non fine a se stessa, ma indirizzata a un cambiamento qualitativo, percepito sul piano del significante come su quello del significato. Se il linguaggio è una catena di relazioni ereditata, l’arte verbale non fa che attivare ciò che è originariamente reattivo del linguaggio ordinario: la poesia crea connettendo “ad arbitrio”. Jakobson arriva a considerare il linguaggio poetico come una liberazione di una capacità insita nel linguaggio stesso: creare connessioni e conseguentemente “mondi”.
Il confine tra ciò che è poetico e ciò che non è tale è divenuto sempre più sfuggente. Nella contemporaneità è riscontrabile il processo di avvicinamento dell’ordinario al poetico. Non soltanto i poeti cercano nell’ordinario il poetico, ma si assiste a una sempre più ingegnosa commistione del poetico al circuito dell’ordinario, che rischia di limitare l’uso della “poeticità” alle dinamiche del meccanismo della domanda-offerta, dominante non solo nel circuito economico, ma anche in quello culturale mass-mediatico, ambito ristretto del primo.2 La pubblicità, per esempio, prende del poetico ciò che le è funzionale per raggiungere i suoi obiettivi commerciali: si può facilmente intuire l’incidenza della funzione poetica nei moderni spot pubblicitari che si servono dei dispositivi formali tipici del linguaggio poetico, pur senza assegnare loro il ruolo determinante che svolgono invece in poesia.3
Se la poesia è riconoscibile in maniera sistematica nel prevalere della funzione poetica sulle altre funzioni del processo comunicativo, la poeticità di un’espressione verbale indica che in gioco non è la semplice comunicazione, ma qualcosa di più: la rilevanza del messaggio in sé chiama in causa il carattere dinamico del linguaggio – affine alla parole saussuriana – rispetto al suo carattere statico – relativo invece alla langue saussuriana. Il linguaggio quotidiano stilizza ciò che descrive, mentre il linguaggio poetico, in quanto emancipato dalla strumentalità della comunicazione, va al di là della stilizzazione, esprimendo la naturalità dell’evento e avviando una decostruzione del linguaggio ordinario stesso. Il linguaggio poetico mette in evidenza ciò che la percezione immediata generalmente fa cadere nell’oblio.4
Nella poesia, lo stesso veicolo di articolazione delle parole, ovvero le caratteristiche specifiche (fonologiche, grafiche, …) delle espressioni poetiche, è determinante per la comprensione del significato, che potrebbe dunque variare indefinitamente. La creatività del linguaggio poetico sta, inoltre, nell’evocare delle immagini mentali che possono essere poi modulate e interpretate dal lettore. La “strada immaginativa” viene percorsa in particolar modo dalla metafora, onnipresente nel linguaggio poetico. Anche se va sottolineato che la capacità creativa e “multimodale” della metafora poetica non costituisce motivo di discontinuità rispetto al linguaggio ordinario.5
Agosti sottolinea come ai radicali mutamenti nello studio del testo poetico, dovuti all’intervento di scienze quali la linguistica strutturale – esemplificabile soprattutto nel Cours de linguistíque générale di Saussure – e la semiologia – principalmente nell’elaborazione che ne ha effettuato Gremas – bisogna aggiungere quelli imputabili all’intervento della teoria psicoanalitica, in tutto il suo svolgimento nel corso dell’ultimo secolo, da Freud a Lacan.
La psicoanalisi e la poesia sono due pratiche che, seppur in modo differente, offrono al soggetto la possibilità di accadere nel linguaggio diversamente da quanto farebbe qualsiasi altro sapere. Ciò è possibile perché la parola del poeta, così come quella dell’analizzante, non è sottoposta al vaglio di un ordine del discorso che ne disciplina il gesto secondo le proprie categorie, andando così a sopprimere quell’urgenza particolarissima che contraddistingue queste due voci. Si potrebbe aggiungere inoltre che, proprio perché queste due pratiche rinunciano alla posizione di una parola-maestra, sono in grado di non mettere a tacere l’inquietudine che anima i loro discorsi, irrequietezza appunto di una parola che trema, esita, indugia a farsi riconoscere e che riflette senza mistero l’identità in corso di definizione del suo portavoce.
Parola inquieta dunque ma anche, per questo, parola sovversiva che rompe gli argini del discorso corrente e di ogni pretesa di sapere-già-saputo e incontra, da una parte la poesia e dall’altra la psicoanalisi, due pratiche simboliche capaci di ascoltare e raccogliere in un bacino di senso, uno per uno, tutti quei deragliamenti del linguaggio che ogni altro sapere avrebbe o brutalmente messo a tacere oppure collezionato orgogliosamente con tanto di nuova etichetta.6
La poesia nasce dagli sbandamenti della ragione più progettuale, essa scardina ogni pretesa intenzionalità per manifestarsi come effetto di deriva, come colpo di scena improvviso capace di aprire la strada a dirottamenti del senso imprevisti. Se la psicoanalisi costruisce la propria pratica a partire dalla natura ambigua del linguaggio e dagli equivoci che essa inevitabilmente comporta, la poesia glorifica questa ambiguità e si genera solamente in virtù della plurivocità del senso. Entrambi i saperi aprono uno spazio in cui il soggetto “diviene molteplice”7: egli si colloca al di là di una rappresentazione unitaria di sé in quanto parla, in analisi e in poesia, non da una posizione di coincidenza con il proprio dire bensì da un punto decentrato rispetto alla propria immagine. Ma se il compito dell’analisi è portare il soggetto a incarnare la propria parola, cioè ad assumerne, per quanto possibile il peso soggettivo, la poesia rimane quell’apertura in cui la parola evoca senza informare, quel luogo in cui nessuno può domandare più di quanto offra.8
Agosti percorre un itinerario tra le liriche di classici e contemporanei, inseguendone gli echi dentro e fuori dal canone: ecco allora che l’Infinito di Leopardi, in cui ogni lemma sfida l’indicibile, si giustappone ai grafemi di Orelli; la lingua mimetica delle onomatopee di Pascoli si proietta nelle deflagrazioni di Sanguineti; le creature verbali di Rimbaud trovano eredi nei tentativi di Blotto di trascrivere quanto sta fuori dall’ordine del discorso.
Come si fa a registrare verbalmente la percezione di un profumo? Del mal di denti? Uno stato di ansia, o di esaltazione? Lo stato dell’essere nella propria pienezza amorosa? Percezione di uno stato interiore significa che lo stato interiore viene registrato dal soggetto alla stessa stregua di un fatto inerente la fisicità. L’esperienza diventa ancora più eccezionale e complessa laddove si parla di percezione di un nome, di un pronome, o comunque di un elemento del linguaggio. In tal caso, il linguaggio risulta assunto dal soggetto alla stessa stregua di un oggetto materiale.9
Chi scrive versi lo fa per cercare qualcosa che non potrebbe trovare altrove10. Lo scopo della poesia è, infatti quello di rinvigorire la vita morale11. La portata etica dell’operazione artistica fa da corollario a una vasta maggioranza di riflessioni teoriche le quali riguardano in priorità il sapere proprio della letteratura, tanto che è un dato di fatto riconoscere in molte di esse la compresenza di tre elementi della serie analitica: caratteristiche stilistico-strutturali, portata cognitiva, effetto etico.12
Tra le cifre che caratterizzano la produzione poetica italiana degli ultimi cinquanta anni è possibile rinvenire proprio la persistente riflessione sul modo in cui le nostre percezioni e intuizioni colgono gli aspetti contraddittori della vita.13 In questo panorama letterario, l’ansia mimetica spinge l’artista verso forme di rappresentazione che, per quanto irrisolte o sospese tra la versificazione e il racconto, si offrono quale risposta a domande urgenti e perennemente irrisolte: qual è la ragione profonda della convivenza sociale? In che misura è proponibile una raffigurazione del mondo quando questo muta repentinamente? Spetterà allora al poeta il compito di rintracciare queste aporie.14 E al lettore, al critico, apprendere e comprendere le conclusioni. Avviare cioè un’ulteriore ricerca che non deve limitarsi, per Agosti, al semplice parlare dell’autore, della sua vita, dei suoi amori, bensì volgere l’interesse alla verbalità, alle strutture verbali. Egli stesso ha dichiarato di apprezzare la critica di Contini proprio perché diversa, in questo, rispetto alle altre.15
Ed ecco allora che il lavoro svolto da Agosti e riportato ne La parola della poesia è un cammino lungo le liriche di autori classici e contemporanei analizzate non solo seguendo il metodo dettato dalla linguistica strutturale ma anche quello psicoanalitico per riuscire a meglio comprendere le strutture verbali ma anche le risposte alle numerose e contraddittorie domande che i poeti da sempre si pongono.
Il libro
Stefano Agosti, La parola della poesia. Da Leopardi ad Augusto Blotto, Il Saggiatore, Milano, 2024.
9S. Agosti, Il testo degli istanti. Nota sulla poesia di Jaqueline Risset, in M. Galletti (a cura di), Jaqueline Risset “une certaine joie”. Percorsi di scrittura dal Trecento al Novecento, Roma Tre-Press, Roma, 2017.
10V. Magrelli, Che cos’è la poesia, Luca Sossella, Roma, 2015.
11B. Croce, In difesa della poesia, su La Critica, n° 32, 1934.
12C. Caracchini, Il pensiero della poesia: preliminari per un’esplorazione, in C. Caracchini, E. Minardi (a cura di) Il pensiero della poesia. Da Leopardi ai contemporanei. Letture dal mondo di poeti italiani, Firenze University Press, Firenze, 2017.
13E. Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino, 2005.
14M. Pecora, Lo schermidore lirico. La logica della dissacrazione nell’opera poetico-narrativa di Valentino Zeichin, in SigMa – Rivista di Letterature comparate, teatro e atti dello spettacolo, vol. 3, 2019.
15S. Agosti, Tre lezioni a Ca’ Foscari, A. Costantini (a cura di), Università Ca’ Foscari, Venezia, 2018.
Il progetto Non importa dove consiste in un viaggio attraverso cinquantotto luoghi, raccontati con parole e immagini. Luoghi narrati e indicati come cartoline. Luoghi del passato o del futuro, reali o immaginari, angoli del globo o spazi indefiniti. Cartoline slegate tra loro che possono essere consultate anche in maniera estemporanea eppure unite tra loro dall’essenza stessa del libro, dalla volontà degli autori di rappresentare il mondo, di ieri oggi domani, usando e sfruttando anche la fantasia, l’immaginazione.
Tolkien ha utilizzato due potenti dispositivi per consolidare la sua rappresentazione della Terra di Mezzo e renderla il più possibile vicina alla realtà: le mappe e i paesaggi. Entrambi gli strumenti utilizzati trasformano la geografia epica e virtuale de Il Signore degli Anelli in una concreta rievocazione della situazione europea vissuta dall’autore. La Terra di Mezzo, inizialmente ispirata e derivata da paesaggi europei esistenti, è poi diventata a sua volta fonte di ispirazione per il mondo reale. Non solo Tolkien “imita” i luoghi reali, ma oggi i luoghi immaginari da lui creati stanno, in un paradosso che mescola audacemente fatto e finzione, condizionando la realtà stessa, plasmandola a loro immagine. Si realizzano idee immaginarie di divertimento. In Nuova Zelanda, in un luogo lontanissimo dall’Inghilterra, si possono visitare i “paesaggi della Terra di Mezzo”.1
Il viaggio intrapreso da Bernasconi e Fazioli nel libro sembra incarnare alla perfezione l’idea di Tolkien di mescolanza e influenza reciproca tra luoghi reali e immaginari.
Calvino riteneva prossimo un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili.2 Le città di Calvino sono invisibili perché immaginarie, mai esistite, ma non per questo prive di legami con la contemporaneità: sono sogni realistici immersi in una dimensione atemporale, pronti a diventare archetipi primordiali di aggregazione umana. Queste città non trovano posto in nessun atlante, perché sono il risultato di un viaggio interiore di Marco Polo che, nei panni di un novello Ulisse, narra le proprie avventure a un malinconico Kublai Kan, re dei Tartari, maschera orientale dell’omerico Alcinoo, cosciente dell’imminente rovina del suo impero; la sua unica consolazione è contemplare le visionarie città abbozzate dal suo interlocutore.3
Anche le cartoline di Bernasconi e Fazioli sono, per certi versi “immaginarie” laddove, pur illustrando luoghi reali, li raccontano al lettore con i filtri della fantasia e dell’immaginazione. Soprattutto sembra che gli autori abbiano voluto privare, con il loro viaggio, i lettori delle loro certezze. In un libro dove luoghi e non-luoghi si mescolano e si fondono fin quasi a confondersi viene ampliato il distacco dalla realtà quasi come un’invocazione che esorta chi legge a liberarsi dalle prigioni, mentali prima che fisiche, che bloccano la sua esistenza e reprimono sentimenti ed emozioni.
La strada per la liberazione dalle proprie prigioni porta gli autori e, simbolicamente i lettori, attraverso scenari tipici della letteratura di viaggio. Numerosi sono gli esempi di personaggi inghiottiti dalla balena, ma tutti, in un certo qual modo, sembrano far riferimento al racconto biblico del profeta Giona. Smarrimento, disobbedienza e deviazione dal giusto cammino sono gli aspetti più ricorrenti.4 La permanenza nel ventre della balena diventa così un’occasione di espiazione tuttavia non uguale e non la medesima per tutti. Lo sguardo di chi viaggia e il viaggio in chi lo compie non sono mai un qualcosa di univoco.
Nel ventre della balena Bernasconi e Fazioli incontrano anche Geppetto e Pinocchio. Iniziano a giocare a carte e Giona li avverte di stare attenti perché il burattino cercherà di imbrogliarli. Il complesso intreccio di climax utilizzato dagli autori in questa come anche in altre cartoline porta il lettore a interrogarsi non solo sulle parole e sulle immagini evocate quanto, soprattutto, sui loro significati reconditi legati ai luoghi e alle esistenze narrate. Storie di vita immaginarie e immaginate che si intrecciano con quelle reali, esattamente come accade per i luoghi visitati o, semplicemente, immaginati.
Il libro
Yari Bernasconi, Andrea Fazioli, Non importa dove, Gabriele Capelli Editore, Mendrisio (Svizzera), 2025.
1M. Picone, Hic sunt Hobbits. La “realizzazione” di un paesaggio virtuale, in Atti del Convegno di Studi J.R.R. Tolkien: Viaggio ed Eroismo ne Il Signore degli Anelli, G. Picone e L. Scolari (a cura di), Palermo, 2014.
3E. Armentano, La forza invisibile delle città calviniane. Lettura come “provocazione” alla scrittura: il progetto “Itinerari inesplorati tra Le città invisibili di Calvino”, in La Letteratura italiana e le arti, Atti del XX Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti, Napoli, 2016.
4F. Conselvan, Il cavaliere inghiottito. Il racconto esemplare di Giona nei poemi cavallereschi di primo Cinquecento, in La letteratura italiana e le Arti, Atti del XX Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti, Napoli, 2016.
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