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Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

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L’Africa, i giovani, l’Italia

01 lunedì Set 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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GuerinieAssociati, MarioGiro, PianoMattei, recensione, saggio

Che cos’è l’Africa per l’Italia e per l’Europa? La si dipinge alternativamente come terra delle opportunità o come mostro demografico pronto a schiacciarci, giacimento a cielo aperto o antro di malattie e pandemie, partner per gli aiuti internazionali o socio nel commercio internazionale, lions on the move  i o bottom billion ii. Cosa sono l’Italia e l’Europa per l’Africa? Di fronte ai mutamenti indotti dalla deglobalizzazione e dalle guerre in corso, l’Africa è alla ricerca di un’autonomia che le permetta di fare le proprie scelte in maniera indipendente. Il modello di sviluppo occidentale sembra stia portando tutti in un vicolo cieco ecologico. Il continente africano, che non ha ancora intrapreso tale percorso, è forse nella posizione migliore per inventare un nuovo modello iii.

I saggi raccolti in Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa (Edizioni Angelo Guerini e Associati, 2024), volume collettaneo curato da Mario Giro iv, indagano i vari aspetti delle relazioni fra Italia, Europa e Africa per comprendere se davvero la risposta agli interrogativi sia inclusa o meno nel Piano Mattei del governo Meloni. Ma, soprattutto, mettono in evidenza i punti programmatici mancanti o su cui si dovrebbe lavorare per rendere il Piano, attualmente in una fase ancora embrionale, davvero incisivo ed efficace nella costruzione di un partenariato equo e duraturo.

Il Continente africano sta attraversando una serie di transizioni epocali in campo economico, sociale, politico e demografico. Si prevede che la sua popolazione sarà più che raddoppiata entro il 2050 e supererà quota 2,5 miliardi, un quarto di quella globale. L’Africa rimarrà, in futuro, anche la regione più giovane del mondo, con un’età media di 25 anni. Possiede circa il 30% delle riserve minerarie, il 7% delle risorse petrolifere e di gas e oltre il 60% delle terre arabili incolte del mondo. Il Governo italiano guidato da Giorgia Meloni intende imprimere, con il Piano Mattei, un cambio di paradigma nei rapporti con il Continente africano e costruire un partenariato su base paritaria, che rifiuti tanto l’approccio paternalistico e caritatevole quanto quello predatorio, e che sia capace di generare benefici e opportunità per tutti v.

Fondamentale per l’attuazione del Piano Mattei per l’Africa è il ricorso al Fondo italiano per il Clima, il cui 70% è dedicato all’Africa per la realizzazione di iniziative nei settori dell’idrogeno verde, dell’energia rinnovabile e dell’adattamento agricolo al cambiamento climatico, per il ripristino della biodiversità e per l’uso sostenibile delle risorse naturali. La dotazione iniziale del Piano Mattei è di 5 miliardi e 500 milioni di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, di cui circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il Clima e 2,5 miliardi dei Fondi della Cooperazione allo Sviluppo vi.

Si consideri che nello stesso arco temporale durante il quale la popolazione africana crescerà e l’età media sarà sempre più bassa, l’Europa vivrà un forte declino demografico. Nel 2050, l’Italia avrà registrato un presumibile calo di 7 milioni di abitanti, con piccoli comuni svuotati, un rilevante aumento degli ultraottantenni e una conseguente riduzione della ricchezza nazionale e del welfare, a partire dall’insostenibilità del sistema pensionistico vii.

Viceversa, la popolazione in età lavorativa in Africa, attualmente pari a circa il 56% del totale, aumenterà fino al 63% nello stesso periodo. Il Piano Mattei si propone di dare priorità a quegli interventi che si prefiggono di promuovere la formazione e l’aggiornamento dei docenti, l’adeguamento dei curricula, l’avvio di nuovi corsi professionali e di formazione in linea con i fabbisogni dei mercati del lavoro locali. Potranno essere impiegate le nuove piattaforme digitali per l’apprendimento della lingua italiana a distanza. Egualmente, si potrà considerare il coinvolgimento delle Università italiane nell’attuazione di iniziative di formazione nel Continente africano. Da questo punto di vista è significativa l’esperienza realizzata dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) con il “Partenariato per la conoscenza”, che ha l’obiettivo di mettere in rete le migliori competenze tecniche e accademiche italiane per l’alta formazione. Oltre alla finalizzazione e al negoziato di diversi memorandum d’intesa in alta formazione, ricerca e innovazione, a oggi sono circa mille gli accordi inter-universitari con atenei africani, ai quali si aggiungono circa duecento progetti universitari (il 47% dei quali nel settore della formazione). Il sistema universitario italiano è disponibile a condividere con le Università africane il know-how nel campo della ricerca, del trasferimento delle conoscenze e della formazione, con l’obiettivo di sviluppare rapporti di collaborazione paritaria e di crescita comune viii.

Il calo della popolazione italiana è in costante aumento dal 2014, con una contrazione delle nascite e un innalzamento della speranza di vita, un conseguente aumento della popolazione anziana e una riduzione di quella giovane. Secondo questo trend, nel 2050 a essere aumentati saranno solo gli over 55, con un +45,7%, mentre la fascia 18-21 sembra essere destinata a crescere solo del 3,2%. Avere meno giovani significherà avere anche meno immatricolati e meno laureati, con un peggioramento netto della situazione italiana a livello mondiale. Nel 2020 la Commissione Europea ha presentato la European Skill Agenda con dodici azioni finalizzate a promuovere lo sviluppo delle competenze che i cittadini dovrebbero avere per essere in grado di affrontare la complessità del mondo contemporaneo. Sin dalle prime pagine del documento, si sottolinea come la crescita dei Paesi sia strettamente connessa alla preparazione dei propri cittadini. L’istruzione in giovane età rimane fondamentale ma costituisce solo la prima tappa di un percorso di vita, ovvero la prospettiva del lifelong learning. 

Nel nostro Paese il 63% delle persone occupabili (ovvero di età compresa tra i 25 e i 64 anni) ha almeno un titolo di studio secondario superiore, contro il 79,5% della media europea e l’83,3% di Germania e Francia. Il 20,3% possiede un titolo di studio terziario (universitario). Una percentuale nettamente inferiore alla media europea (30,4%) e circa la metà di quella registrata in Francia e Germania ix.

I giovani di età compresa tra i quindici e i trenta anni sono al massimo della potenza biologica, sessuale e ideativa eppure la società italiana, e occidentale in generale, se non ne fa proprio a meno, certamente non impiega opportunamente e utilmente quella generazione. Che futuro potrà mai avere, se ce l’avrà, questa società che ignora i propri giovani?

La verità è che, per certi versi, la vecchia società, ancorata a quelli che ritiene baluardi e principi inderogabili, sembra quasi aver paura di questa “massa giovane” di nichilisti attivi che appaiono come i soli ad aver compreso che l’amore è l’unico antidoto al valore del denaro, che non hanno timore di cambiare, stravolgere l’ordine dato, evolvere la società in altro x. Il punto è che la società italiana, e occidentale in generale, sembra non comprendere neanche i giovani stranieri. Si chiede retoricamente Mario Giro nel testo cosa abbia mai la gioventù africana globale che gli occidentali non capiscono, abituati a un mondo in cui i giovani sono pochi.

Questa gioventù possiede un irrefrenabile desiderio di contare, di diventare soggetto, ed è disposta a correre grandi rischi per ottenere il suo posto nella globalizzazione che tutto offre e nega allo stesso tempo. L’atto migratorio diviene l’avventura individuale dell’invenzione di sé, del proprio posto nel mondo. Imparano a essere aggressivi e meno mansueti dei loro genitori: nelle grandi città africane la vita ha assunto i contorni di una lotta per la sopravvivenza che poi si ripete al di là del Mediterraneo. Oggi migrare è realizzare il sogno individuale di prendere in mano il proprio destino.

Lo sguardo occidentale – qualunque sia la posizione sugli immigrati – è miope: non vede la forza colossale insita in tale nuova generazione africana che non si ferma davanti a nulla, esce dal proprio ambiente e va verso l’ignoto. Avventurieri è la parola usata in Africa per chi decide di emigrare in Europa, coloro che hanno il coraggio di fare il “grande viaggio”. Giovani i quali ormai compiono il cammino iniziatico senza più supervisione degli anziani, non c’è bosco sacro, non ci sono classi di età, si supera anche l’etnia. Ci sono solo individui immersi nel caos. La mentalità dell’africano adulto o anziano è ancora legata ai vecchi miti e alle ideologie anni Sessanta, come il panafricanismo, il socialismo africano, il federalismo o la negritudine. La percezione delle giovani generazioni è diversa: tra di esse prevale un’aspettativa di prosperità individuale e molto competitiva. È sorto un ceto medio africano più istruito e culturalmente globalizzato ma meno interessato al futuro comune xi.

Per la giovane generazione intellettuale africana il continente non è più nero ma grigio: fallita l’Africa romantica che fingeva sulla propria grandeur precoloniale, immaginava emozioni e progettava nuove prospettive comunitariste, rimane un’africa sterile e mancata che, tra corruzione e violenza, non ha saputo voler bene ai propri figli i quali ora la disconoscono e hanno smesso di amarla. È questa la rottura sentimentale che si compie: innanzitutto una frattura con sé stessi, con la propria terra matrigna. Ma non si può amare nemmeno chi ha contribuito a renderla così: il mondo “bianco” che non ha risposto alla domanda di reciprocità dei padri. Tra la retorica di un’Africa eterna e il vittimismo costante, resta solo un grande vuoto di cui i giovani africani sono figli. Spaesati – come i loro coetanei di altri continenti – nel grande flusso della globalizzazione, reagiscono con una mentalità egocentrica e globalizzata al contempo. 

Oggigiorno molti giovani “votano con i piedi”, cioè se ne vanno. Dopo la generazione sacrificata dell’aggiustamento strutturale (1985-2000) xii, oggi ne è giunta a maturità un’altra che non vuole fare la stessa fine. Per questo si ribella a modo suo e non si fida più di nessuno. La sfida è ricreare un terreno d’intesa ricostruendo le basi di un dialogo comune. xiii

Uno dei modelli di integrazione, diffuso soprattutto in Germania, Svizzera e Belgio, è quello del “lavoro temporaneo”, il quale accoglie immigrazione sulla base di necessità stagionale, temporanea e settoriale di manodopera, permettendo l’ingresso a persone alle quali vengono garantiti diritti sindacali ma non politici. Non vengono offerte opportunità di integrazione ma solo di lavoro. Tutto ciò, costruito nell’ottica di una migrazione circolare, presuppone permessi di soggiorno legati alla durata del contratto di lavoro, eventualmente rinnovabili, esclude la possibilità di ricongiungimenti familiari e rende molto difficolto l’accesso alla cittadinanza. La Francia, invece, ha quasi sempre prediletto l’approccio assimilazionista. Il processo di naturalizzazione prevede una rapida omologazione anche culturale, mediante adesione alle regole democratiche laiche che fondano la comunità francese. L’Italia non ha mai davvero adottato alcun modello per cui il sistema di integrazione viene “costruito” nei fatti dalla stratificazione normativa vigente in materia. xiv La fattispecie risultante potrebbe essere definita con un ossimoro assimilazionista di tipo escludente. 

La mancanza di un qualsivoglia modello teorico adeguato ad affrontare la questione immigrazione nel nostro Paese va inteso come l’effetto di alcuni fattori che hanno orientato il dibattito pubblico in senso emergenzialista e conflittuale, producendo esiti frastagliati dovuti proprio alla mancanza di un paradigma generale. xv In Francia viene richiesto agli immigrati di assimilarsi al sistema culturale ospitante e in cambio viene offerta una rapida e piena integrazione che culmina con l’attribuzione della cittadinanza, in Italia questo scambio risulta fortemente impari: i migranti dovrebbero rinunciare alla loro identità etnica, culturale e religiosa in cambio di nulla.

La politica migratoria del governo Meloni presenta una tripartizione netta e ben definita. La prima politica è quella inerente l’accoglienza dei rifugiati ucraini e mantiene, sostanzialmente, la linea dettata dal governo Draghi nel marzo 2022. La seconda, egualmente non nuova ma rafforzata dall’attuale governo, consiste nell’apertura nei confronti degli ingressi dei lavoratori, soprattutto per lavoro stagionale m anche per occupazioni stabili. La terza politica è quella della chiusura verso gli ingressi per ragioni umanitarie. Gli impedimenti frapposti ai salvataggi in mare da parte delle ong, il decreto Cutro con la quasi abolizione della protezione speciale per i rifugiati e la conseguente condanna a una vita di stenti per i richiedenti asilo respinti, ma raramente espulsi, le restrizioni all’accoglienza dei minori non accompagnati, i ripetuti viaggi e gli accordi con il regime tunisino e con quello egiziano, oltre a quelli con la Libia sembrano aver delineato una linea politica a suo modo coerente ma in netto contrasto con l’articolo 10 della Costituzione e le convenzioni internazionali sul diritto di asilo. 

In questa cornice si inserisce anche l’accordo con l’Albania e la realizzazione dei centri extraterritoriali per l’esame delle domande d’asilo. Meloni ha parlato di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti ma il fatto che nei due centri verranno trattenuti soltanto uomini adulti non fragili, tratti in salvo da navi militari e provenienti da paesi classificati come sicurixvi conferma l’intenzione punitiva del progetto. xvii

Il Piano Mattei, nelle intenzioni del governo Meloni, mira a sviluppare economicamente le aree da cui maggiormente origina il fenomeno migratorio, con l’intento di limitarne gli effetti e combattere la tratta internazionale dei migranti irregolari. In Italia, le comunità di migranti africane si sono integrate stabilmente, dando vita a un tessuto associativo ricco e variegato che va dall’integrazione sociale alla promozione culturale. L’emergenza e la crisi scatenata dall’esplosione della pandemia da Covid-19 hanno evidenziato l’importanza del ruolo che giocano le associazioni delle diaspore. Durante i lockdown le associazioni hanno prontamente attivato meccanismi di risposta all’emergenza dovuta all’epidemia, attuando iniziative diversificate nei Paesi in cui operano e affrontando una situazione unica che ha colpito le diaspore due volte: in Europa nei Paesi di approdo e, contemporaneamente, nei loro Paesi di origine. Le diaspore, inoltre, rappresentano una risorsa inestimabile per lo sviluppo economico dei loro Paesi attraverso le rimesse e gli investimenti. 

Per Dioma, queste attività non solo migliorano le condizioni di vita ma rafforzano anche le relazioni bilaterali con l’Italia. I membri della diaspora si muovono tra due Paesi e conoscono le condizioni di vita di entrambe le parti. Questa posizione li rende attori chiave nel dibattito sulla cooperazione allo sviluppo. La loro comprensione delle culture, delle dinamiche economiche e delle esigenze e opportunità specifiche di entrambi i contesti li rende particolarmente efficaci nel promuovere progetti di sviluppo che siano culturalmente sensibili e mirati. Il coinvolgimento attivo degli stessi migranti nei processi di sviluppo assicura che le iniziative siano realmente rispondenti alle necessità delle comunità locali xviii e andrebbero attivamente coinvolti nei progetti di cooperazione, anche e soprattutto quelli del Piano Mattei.

Il fenomeno migratorio africano, contraddistinto da particolare intensità e complessità, è favorito dalla prossimità geografica di due Continenti simbolicamente uniti, oppure separati, dalle medesime acque. Il declino di una concezione dello spazio geografico come susseguirsi di distese contigue, dominate da un’enfasi sui confini come sedi di conflitto, con i mari come vuoti; l’estinguersi rapido di un assetto geopolitico che trovava in due “superdistese” la sua semplificata versione globale, ha privato il Mediterraneo di una plurisecolare funzione di diaframma tra due mondi, ha abbattuto (o meglio, reso inutile) una frontiera che è stata caricata di significati di separazione tra mondo moderno e spazi più o meno organizzati della povertà, spazi dei conflitti. La chiave di lettura, in sostanza, è quella di una situazione-regione, rispetto a quella contrastante di regione-situazione (intendendo con la prima il ruolo di semplice spazio attraversato di linee di forza esterne, e per la seconda quello di campo in qualche modo gestito e governato) xix.

I migranti sono letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo e ridotti a un fattore esclusivamente economico o legati a una crisi politica. Necessita invece, per una maggiore comprensione della modernità, che la migrazione venga interrogata come presenza complessivamente ben più profonda e ampia. Pensare con la migrazione, andare oltre la superficie fino alle più profonde diseguaglianze della giustizia economica, politica e culturale negata che struttura e dirige questo nostro mondo. 

I migranti, affermando il loro diritto a muoversi, migrare, fuggire, spostarsi, non solo rompono gli schemi e si oppongono al rispetto del posto assegnato loro dalla storia, ma segnalano anche la modalità precaria contemporanea della vita planetaria. È il modo in cui i molteplici sud del pianeta si propongono all’interno della modernità. E proprio questo nuovo modo di promuoversi viola e indebolisce le categorie applicate loro dal nord egemonico xx.

Il discorso sui giovani in Africa, da qualsiasi angolatura lo si intenda imbastire, pone di fronte a complessità di ordine innanzitutto teorico. Da un punto di vista analitico, infatti, la categoria “giovani” applicata all’eterogenea vastità culturale, storica, territoriale, economica e politica del continente africano, costituisce un insieme estremamente denso e composito che interroga fin da subito sul rischio di eccessive generalizzazioni. Oggetto di ricerca, dibattiti e analisi accademiche multidisciplinari, bacino umano di risorse spesso manipolate dall’alto, ma anche fonte di timore per quei governi che mal sopportano l’emergere di nuove coscienze politiche e resistenze dal basso, segmento “vulnerabile” della società destinatario di numerosi progetti di cooperazione, ma anche segmento familiare “forte” su cui si riversano aspettative e responsabilità, la fetta più consistente della popolazione, ma sovente la più esclusa dalle istanze decisionali. Tutto questo e molto altro, i giovani, definiti in termini di categoria, finiscono spesso per slittare da moltitudine di soggettività a oggetto omogeneo, in ragione di quell’appiattimento che in una qualche misura la categoria stessa produce. 

In questo senso, pur considerando i tratti che in linea generale accomunano trasversalmente i giovani in Africa, è necessario dotarsi di una visione plurale che tenga conto delle tante gioventù africane e di come esse si collochino nella società. Un aspetto fondamentale è proprio lo spazio peculiare che esse abitano, e cioè quello situato all’intersezione tra modernità e tradizione, tra locale e globale, tra immobilità e mobilità, tra marginalità e centralità. Queste intersezioni, tutt’altro che fugaci punti di contatto, rappresentano snodi vitali, zone di confluenza creativa dove si concentra una produzione incessante di nuovi modelli, nuove relazioni e nuove identità politiche, economiche, sociali e culturali, nonché nuove forme di adattamento a una realtà in continuo fermento e non di rado disorientate. Una produzione che scaturisce da processi di rielaborazione simbolica e risignificazione di luoghi e relazioni di potere da cui emerge quella capacità di aderire plasticamente al cambiamento, ma anche di produrlo in maniera attiva e consapevole. Un elemento, questo, che rompe con la visione di una gioventù statica e passiva che, al contrario, conquista un protagonismo sempre più evidente xxi. Le primavere arabe e i movimenti di contestazione in Africa subsahariana sono l’espressione più evidente della centralità della “questione giovanile” nel Continente. 

In qualità di naviganti della globalizzazione connessi con il mondo ma in relazione quotidiana con il proprio territorio di cui sperimentano potenzialità e carenze, anche dal punto di vista del lavoro i giovani vanno considerati come compositori di nuovi modelli. Nel proporre prospettive in base alle proprie esigenze e competenze, visto l’aumento del livello di istruzione a partire dagli anni 2000 in avanti, si dovrebbe innescare anche quel processo di adattamento dei modelli professionali al contesto locale.

La crescita delle città, la nascita della classe media, l’emergere di una società civile forte e dinamica, lo sviluppo economico e politico, la diminuzione dei conflitti sono già realtà in Africa. Realtà che in Italia non vengono pressoché mai raccontate. L’impressione è che il Piano Mattei sia il tentativo di mettere in rete il patrimonio di progetti, relazioni e iniziative che uniscono le due sponde del Mediterraneo. Lo sviluppo dell’Africa è forse la più importante occasione di crescita e sviluppo dell’Italia dal dopoguerra. L’Africa è il posto dove investire perché dispone delle più ricche fonti di energia rinnovabile, di manodopera e risorse. L’area di libero scambio continentale africana è un mercato da 3.400 miliardi di dollari. Nell’analisi di Zaurrini si evidenzia come il Piano Mattei sia necessario più all’Italia che all’Africa. 

Negli ultimi quarant’anni l’Italia in Africa ha latitato nel sistema geopolitico, ma non gli italiani. Le aziende italiane sono sempre state presenti e continuano a farlo in numero crescente. Ci sono stati e ci sono i grandi gruppi industriali del settore dell’energia, sia quella classica che quella rinnovabile, quelli delle infrastrutture e delle costruzioni o dell’agroalimentare. Proliferano poi le piccole e medie aziende. Il primo vero problema, per chi opera in Africa o è intenzionato a farlo, sono le difficoltà che si incontrano nel settore bancario o finanziario. Persiste uno scollamento tra un tessuto imprenditoriale fatto soprattutto di piccole e medie imprese che, complice la crisi, si sta rivolgendo sempre più spesso a mercati emergenti, compresi quindi quelli africani, e un sistema Paese – in cui rientrano le banche e le assicurazioni – che ancora stenta a muoversi in direzione sud. Ci sono banche italiane in Nord Africa ma a sud del Sahara sono presenti solo in via indiretta, attraverso filiali di gruppi stranieri che, nel frattempo, hanno acquisito il controllo di istituti italiani. 

La scarsa conoscenza dell’Africa e delle sue dinamiche tra gli operatori economici e finanziari, la quasi totale assenza del sistema bancario e finanziario africano sono i principali freni all’esplosione delle relazioni economiche tra l’Italia e il grande continente. Il Piano Mattei deve evitare di cadere nell’equivoco investimento-commercio: le aziende italiane che vogliono investire in Africa non sono tante, quelle che vogliono commerciare sono invece molte ma molte di più. Non può essere un piano di sostegno al commercio italiano se si intende incidere davvero sulle cause profonde di sviluppo economico, politico e sociale del continente africano. xxii

Le aziende italiane, che di sovente si muovono autonomamente e con forte spirito mercantile o avventuriero, devono imparare a fare sistema, uscendo dall’ebbrezza e dall’autocompiacimento di quel Made in Italy pronunciato come fosse un sinonimo planetario di qualità e, troppo spesso, invocato come un passepartout adatto a ogni situazione. xxiii

Al contrario, i concetti di impresa, imprenditore, competitività, gestione del rischio e così via, non sono universalmente interpretabili allo stesso modo, ma sono estremamente fluidi e variegati in base al contesto. 

Bisogna tenere ben presente la questione dell’adattamento del concetto di impresa al contesto africano, dove l’economia risponde a criteri di condivisione, di spartizione delle risorse anziché di monopolio, di relazioni familiari e benessere comunitario anziché individuale. L’Africa deve riposizionarsi nel mondo a partire dalle sue specificità, affrancandosi dal rapporto mimetico insano e caricaturale nei confronti dell’Europa e proponendo modernità alternative squisitamente africane xxiv.

Il ruolo che i giovani stanno assumendo nei processi di trasformazione sociale, economica e politica ha una centralità crescente, a dimostrazione di quanto sia fuorviante quell’immobilità che viene loro attribuita come fossero in balia delle privazioni senza possibilità o volontà di reagire. Se da un lato è innegabile che molti giovani africani sono costretti a fare i conti con situazioni di conflitti, povertà e violenza, dall’altro questo non coincide automaticamente con passività e rassegnazione. xxv

Essi rappresentano un insieme eterogeneo che nel quotidiano naviga il concetto di sviluppo nell’era della globalizzazione, incarnandone i paradossi e le potenzialità. Se la gioventù africana fosse vittima dell’esclusione sociale, probabilmente la sua presenza nelle organizzazioni della società civile, nella politica dal basso, nella produzione culturale, artistica e intellettuale non sarebbe così robusta. Per questo motivo, costituiscono una delle voci principali che i decisori politici e gli attori della cooperazione internazionale hanno il dovere di ascoltare. Se uno degli elementi centrali delle politiche di sviluppo è la costruzione di progetti in linea con le peculiarità dei contesti in cui si opera, i giovani sono forse coloro che più sono in grado di far luce sulla dimensione dell’avvenire, sul «futuro come fatto culturale»xxvi, un futuro immaginato attraverso cui si costruiscono strategie di adattamento a partire dal quotidiano.

Da un punto di vista eminentemente pratico, i giovani dovrebbero assumere la posizione di interlocutori principali, dovrebbero cioè essere ripensati come co-costruttori delle politiche per il lavoro, e non soltanto come destinatari. Un processo, questo, che deve inevitabilmente includere anche un ripensamento dei modelli economici su scala locale, non necessariamente dipendente da ciò che l’Occidente intende per modernità xxvii.

La filosofia che sembra prosperare tra i giovani africani è quella della salvezza individuale legata al rifiuto del passato (sia quello tradizionale che quelli coloniale e post-coloniale), al ripudio dei propri leader fallimentari ma anche al rigetto dello straniero. Mai come ora, i giovani africani si concepiscono soli, rivendicando allo stesso tempo la propria libertà e il diritto di accedere al resto del mondo. Sottolinea Giro che uno dei motivi ricorrenti è la collera contro le classi dirigenti africane le quali, mentre mandano i loro figli nelle scuole all’estero, hanno abbandonato il settore educativo, lasciato andare in rovina le strutture scolastiche, non hanno sovvenzionato gli insegnanti rurali e hanno lasciato cadere la sanità. 

Talune caratteristiche proprie della società postcoloniale stanno facendo la loro comparsa nei Paesi del Nord, anch’essi alle prese con una crescente eterogeneità demografica che produce fratture e rivendicazioni identitarie, con un’economia delocalizzata dove i centri di produzione e di consumo appaiono dispersi, dove la finanza prevale sulla produzione, la flessibilità sulla stabilità. In altri termini la diffusione della democrazia sembra andare di pari passo con l’espansione globale del capitalismo con tutte le sue contraddizioni. La politica, per gli Tswana ad esempio, è in primo luogo una dimensione partecipativa vissuta nel fluire della vita sociale. Non stupisce che, a partire da questa concezione, la democrazia formale di tipo occidentale basata sull’espressione elettorale e sull’alternanza dei partiti al governo risulti insoddisfacente. Come altre società africane dotate già in epoca precoloniale di complesse strutture politiche centralizzate, gli Tswana credono fermamente nel senso di responsabilità che il leader deve alla comunità: un famoso adagio tswana recita kgosi he kgosi ka morafe, «un capo è un capo grazie alla sua nazione». La concezione di politica tradizionale tswana si basa in definitiva su un’idea di democrazia sostanziale, mentre la democrazia formale ottenuta attraverso il voto risulta in questo contesto poco saliente xxviii.

La modernità viene intesa come il mito eurocentrico di una “teleologia universale” caratterizzata dall’idea di un progresso unilineare che l’umanità intera starebbe inevitabilmente perseguendo. Tutte le culture evolverebbero in questa prospettiva attraversando (con ritmi e tempi diversi) vari stadi di sviluppo per raggiungere infine il traguardo della civiltà che contraddistinguerebbe l’età moderna. È evidente come questo impianto concettuale – che si è dimostrato ampiamente congetturale – abbia fornito un alibi scientifico e morale all’espansione coloniale: nel nome dello “sviluppo economico”, della “conversione”, l’Europa potè infatti giustificare la conquista di ampie regioni del mondo xxix. I Comaroff hanno levato con forza la loro voce contrapponendo all’idea eurocentrica di una modernità universale l’immagine di modernità multiple o alternative. L’agency africana, come quella di altre culture extraeuropee, ha dato vita a forme di modernità differenti, risultato dell’incontro tra le identità locali e i processi globali innescati dal colonialismo. Declinare la modernità al plurale, mettendo in discussione la presunta unidirezionalità Nord-Sud dei flussi di idee, è dunque il presupposto della proposta controevoluzionista analizzata dai Comaroff. 

Sorge a questo punto spontaneo un quesito: nei programmi come il Piano Mattei c’è davvero la volontà di una cooperazione basata sul reciproco rispetto di idee e risorse da ambo le parti istituzionali?

Mario Giro sottolinea come il tema della cooperazione tra Italia e Africa sia stato, negli anni, molto altalenante. La scommessa del Piano Mattei è quella di superare tale limite creando una vera e propria azione sistemica che duri nel tempo. La frattura tra Occidente e Africa, segnatamente con la Francia in Africa occidentale, rende tale compito arduo. Nei recenti colpi di Stato continentali si è visto bruciare bandiere francesi e alzare quelle russe. Sono scene del Mali o del Burkina Faso e infine del Niger. Si tratta di una rottura definitiva con l’Occidente? Lo si è visto anche nei ripetuti voti alle Nazioni Unite dove il continente si è spaccato sulla condanna alla Russia. Più ancora nel caso della guerra a Gaza: l’Africa intera si è schierata con i palestinesi quasi spontaneamente. Una rottura sentimentale che si allarga all’Europa intera. Una rivolta del Sud globale. 

La caduta del sistema della guerra fredda ha rappresentato la fine delle ideologie contrapposte. Al loro posto c’è stato l’avvento delle identità e/o emozioni, di per sé molto volubili. Le relazioni tra gli Stati e i popoli sono ormai rette da una “geopolitica delle emozioni”, le più significative tra le quali sono la speranza, l’umiliazione (e il rancore a essa connesso) e la paura (del declino). Per le nazioni e le classi politiche tali emozioni non si fermano al sentimento ma si trasformano in cultura e programmi partitici. Nella post-globalizzazione tutti si sentono al medesimo tempo nativi ed estranei: di conseguenza più o meno spaesati xxx. È ciò che stanno vivendo i giovani africani: ogni punto di riferimento è scomparso. Tutto è in grande e generale rimescolamento. 

Anche l’Europa è in continuo rimescolamento. Di fronte alle nuove dinamiche mondiali i singoli Stati europei sono destinati a perdere progressivamente peso politico ed economico se non sapranno conciliare la visione nazionale e intergovernativa con la visione federale. Solo un’Unione sempre più federale, capace di valorizzare l’insieme delle specificità nazionali, può infatti riuscire ad avere un reale e forte peso politico ed economico e conquistare una credibilità globale che nessun singolo Stato europeo potrà mai avere. Anche nel rapporto con l’Africa. Proprio mentre l’Unione Europea sta prendendo consapevolezza di avere bisogno dell’Africa, come e forse più di quanto essa abbia bisogno dell’Europa nei prossimi decenni, vari Paesi africani stanno già guardando ad altri continenti e altre aggregazioni geoeconomiche. E allora quali sono il senso e le reali potenzialità del Piano Mattei dell’Italia in una Europa ancora divisa? xxxi

Le ambizioni italiane verso il continente africano sembrano misurate, sebbene reali. Per certo differenti da quelle francesi. Le relazioni tra Francia e Africa hanno un’anzianità e un ancoraggio impossibile da confrontare a quelle italiane ma un corrispondente Piano Foccart riporterebbe Parigi ai suoi demoni, ovvero a una Françafrique a cui cerca di sfuggire con ogni mezzo. Argomento tabù, perché sfruttata abusivamente e caricaturalmente a fini elettorali, mai del tutto assunta come consapevolezza collettiva e nazionale, la “responsabilità” francese di ex potenza colonizzatrice deve tornare a essere, secondo l’analisi di Emmanuel Dupuy, una forza e non un ostacolo in vista di un rapporto pacificato. Il nodo gordiano del rapporto reciproco tra Francia e Africa francofona è l’ignoranza delle storie reciproche. Indubbiamente è ora opportuno agire, in un primo momento privilegiando il principio di “equità” piuttosto che quello di “uguaglianza” nelle relazioni transcontinentali e/o bilaterali riequilibrando un rapporto asimmetrico nel quadro di un dovere di imparzialità.  xxxii

Germania e Italia sono sempre riuscite a mantenere un maggiore equilibrio nelle relazioni con il continente africano, nonostante o forse proprio perché la durata della “loro” colonizzazione è stata più breve e meno incisiva di quella francese.

Cosa significa allora cooperare con l’Africa tra pari, in maniera non predatoria né paternalistica?

Per Sergi, pur essendo un piano “non calato dall’alto” ma definito da una “piattaforma programmatica condivisa”, non traspare ancora quale sia il radicale cambiamento rispetto a quanto l’Italia e l’Europa hanno realizzato con le iniziative di cooperazione internazionale. Il documento trasmesso al Parlamento italiano il 17 luglio 2024 non esprime né una nuova visione strategico-programmatica né le modalità di condivisione con i Paesi africani, elemento fondamentale nella relazione tra pari. È indispensabile che quanto prima siano chiarite le concrete modalità di governance e siano definiti obiettivi con criteri di valutazione misurabili, a partire da quelli dell’Agenda 2030, assicurando trasparenza e coerenza all’intero processo decisionale, attuativo e valutativo. 

Sono tante le ragioni che spingono alla costruzione di solidi rapporti tra i due continenti e alla definizione di un comune cammino di sviluppo e progresso. Lo richiedono le incertezze di un mondo a geometria variabile, che ha perso la bussola delle istituzioni politiche multilaterali nate dopo le divisioni e gli orrori delle due guerre mondiali e che, in larga parte, tende a rifiutare l’attuale “ordine” internazionale, non corrispondente ai mutati equilibri di potere, alle esigenze di maggiore equità, al riconoscimento di regole condivise, al rispetto della dignità altrui. Lo richiede l’interesse a stabilire solide collaborazioni per l’acquisizione di materie prime indispensabili alle produzioni industriali e alla transizione energetica. Lo richiede una visione politica illuminata capace di guardare lontano e costruire un sicuro e duraturo reciproco vantaggio. xxxiii

Forse la strada da seguire è quella che condurrebbe a una cooperazione triangolare tra America Latina, Italia e Africa. Coinvolgere partner di regioni extra-europee rende l’iniziativa più inclusiva e per molti aspetti più accettabile, se non altro perché in molti casi può scattare un sentimento di maggiore vicinanza, comprensione di problemi e capacità di condivisione delle soluzioni. Tra America Latina e Africa esistono vincoli storici fortissimi, un legame di sangue e di cultura certamente non inferiore né meno antico rispetto a quello esistente con l’Europa. In America Latina inoltre vi è un sentimento di particolare vicinanza all’Africa, rafforzato dalla scelta di molti governi attuali di garantire il rispetto dei diritti e la piena inclusione sociale degli afro-discendenti in quasi tutti i Paesi del subcontinente. 

Il modello di cooperazione triangolare non si basa solo sullo scambio di risorse e conoscenze, ma anche sulla necessaria costruzione di relazioni più forti e durature tra governi, imprese, società civile, in grado di assicurare continuità e sostenibilità al processo di crescita delle nazioni coinvolte. 

La fiducia generata da una comunicazione aperta e trasparente, che porta i partner a identificare aree di collaborazione di interesse reciproco e a sviluppare progetti congiunti a beneficio di tutte le parti coinvolte, contribuisce senza dubbio al benessere collettivo ma, promuovendo il dialogo tra attori con punti di vista e prospettive diverse, contribuisce anche a rafforzare la solidarietà politica e il sostegno reciproco nelle sedi internazionali a vantaggio di una maggiore stabilità xxxiv.


Note

iMcKinsey Global Institute, Lions on the move: The progress and potential of African economies, June 2010.

iiPaul Collier, The Bottom Billion: Why the Poorest Countries are Failing and What Can Be Done About It, OUP USA – Oxford University Press, New York City, 2008.

iiiCarlos Lopes,L’Afrique est l’avenir du monde, Seuil, 2021.

iv* membro della Comunità di Sant’Egidio, amministratore di Dante Lab, sottosegretario agli esteri nel governo Letta, viceministro degli Esteri nei governi Renzi e Gentiloni, docente di relazioni internazionali all’Università per Stranieri di Perugia.

vL’inaugurazione di questa nuova fase nei rapporti con il Continente africano ha avuto luogo in occasione del “Vertice Italia-Africa” del 29 gennaio 2024, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti di 46 Nazioni africane, oltre 25 Capi di Stato e di Governo, dei tre Presidenti delle Istituzioni europee, dei vertici delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, delle Organizzazioni internazionali, delle Istituzioni finanziarie e delle Banche multilaterali di sviluppo. 

viIl Piano Mattei si sviluppa su sei direttrici d’intervento: Istruzione/Formazione; Sanità; Acqua; Agricoltura; Energia; Infrastrutture (fisiche e digitali). Documento Piano Mattei per l’Africa, consultabile al link:https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Piano_strategico_Italia-Africa_Piano_Mattei.pdf (consultato in data 19 giugno 2025).

viiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

viiiDocumento Piano Mattei per l’Africa, op.cit.

ixBarbara Bruschi, Micro-credenziali e NOOC potranno contrastare l’inverno demografico nelle Università? In Qtimes – Journal of Education Technology and Social Studies, luglio 2024.

xUmberto Galimberti, La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2018.

xiMario Giro, Il Piano Mattei e la nuova politica africana dell’Italia, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, op.cit.

xiiAll’inizio degli anni Ottanta il mondo della cooperazione allo sviluppo assistette a una ridefinizione delle strategie che avevano dominato le decadi precedenti. Le Istituzioni Finanziarie Internazionali – in particolare la Banca Mondiale – ritennero che un’eccessiva presenza dello Stato nell’economia dei paesi dell’Africa sub-sahariana fosse una delle cause primarie della crisi e formularono programmi di aggiustamento strutturale che miravano a rimuovere i principali limiti alle potenzialità di sviluppo del continente. Ne è derivata una lunga ondata di liberalizzazioni che colpirono molti servizi pubblici e programmi statali inducendo quello che è stato definito come il disimpegno dello Stato.

xiiiMario Giro, Il Piano Mattei e la nuova politica africana dell’Italia, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, op.cit.

xivStefania Tusini, Alcune domande (e risposte Data-Based) su migrazioni, accoglienza e identità, in Maura Marchegiani (a cura di), Antico mare e identità migranti: un itinerario interdisciplinare, Giappichelli Editore, Torino, 2017.

xvRenzo Guolo, Modelli di integrazione culturale in Europa, paper presentato al Convegno «Le nuove politiche per l’immigrazione. Sfide e opportunità», Fondazioni Italianieuropei e Farefuturo, 2009. 

xviCon il decreto legge del 22 ottobre 2024 il governo ha inserito 19 paesi nella lista dei paesi sicuri (Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka, Tunisia). Sono rimasti fuori la Colombia, il Camerun e la Nigeria. Va aggiunto che l’Unione Europea, e diversi governi europei, in questa fase mostrano una progressiva convergenza con le posizioni del governo Meloni. Il 16 aprile 2025 la Commissione ha presentato l’elenco UE dei Paesi di origine sicuri che comprende, tra gli altri, anche Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco, Tunisia. 

xviiMaurizio Ambrosini, Tutte le contraddizioni del governo Meloni sulle politiche migratorie, lavoce.info, 25/10/2024.

xviiiCléophas Adrien Dioma, Il ruolo delle diaspore africane nel Piano Mattei, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

xixGiuseppe Campione, Migrazioni Mediterranee, in Antonietta Pagano (a cura di), Migrazioni e identità: analisi multidisciplinari, EdiCusano – Edizioni dell’Università degli Studi Niccolò Cusano – Telematica Roma, 2017.

xxIain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e Identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi Editore, Sesto san Giovanni (Milano), 2018 (edizione originale: Migrancy, Culture, Identity, Routledge, Londra, 1994).

xxiMarta Mosca, Giovani e lavoro in Africa: ripensare le categorie e i panorami futuri. Una prospettiva antropologica, in JUNCO – Lournal of Universities and international development Cooperation, n. 1/2020.

xxiiMassimo Zaurrini, Piano Mattei: il futuro dell’Italia passa per l’Africa, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

xxiiiMassimo Zaurrini, Piano Mattei: il futuro dell’Italia passa per l’Africa, op.cit.

xxivFelwine Sarr, Afrotopia, Edizioni dell’Asino, Roma, 2018.

xxvMarta Mosca,  Giovani e lavoro in Africa: ripensare le categorie e i panorami futuri. Una prospettiva antropologica, op.cit.

xxviArjun Appadurai, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.

xxviiMarta Mosca, op.cit.

xxviiiJean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal sud del mondo. Ovvero come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, 2019 (I Comaroff sono partiti dallo studio etnografico di un’area remota ai confini tra il Botswana e il Sudafrica e hanno percorso un lungo viaggio di ricerca che li ha portati a sviluppare una teoria dei processi globali di produzione della conoscenza e del ruolo che l’antropologia e gli studi africani possono svolgere nella contemporaneità).

xxixJean Comaroff and John L. Comaroff (edited by), Modernity and Its Malcontents. Ritual and Power in Postcolonial Africa, The University of Chicago Press, Chicago, 1993.

xxxDominique Moïsi, Geopolitica delle emozioni. Le culture della paura, dell’umiliazione e della speranza stanno cambiando il mondo, Garzanti, Milano, 2009.

xxxiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, op.cit.

xxxiiEmmanuel Dupuy, C’è bisogno di un «Piano Mattei» francese per ridefinire il rapporto tra la Francia e il continente africano?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

xxxiiiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

xxxivAntonella Cavallari, La cooperazione triangolare: possibili sinergie tra America Latina, Italia e Africa, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

Irma Galgano, laureata in Lettere, indirizzo geografico-antropologico, è docente per le classi di concorso A012, A018, A019, A021, A022, A054. Formatore e Supervisore EIPASS, docente esperto nei percorsi di orientamento e formazione per il potenziamento delle competenze STEM, digitali e innovazione, collabora con varie riviste.


Articolo pubblicato sul numero 75 di Dialoghi Mediterranei, rivista scientifica per le aree disciplinari 10 e 11 (delibera Anvur n. 110 del 11-05-2023, con decorrenza dal 2018), link all’articolo: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lafrica-i-giovani-litalia/


Source: Si ringrazia l’ufficio Stampa di Edizioni Angelo Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

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Stefano Agosti, La parola della poesia

18 mercoledì Giu 2025

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IlSaggiatore, Laparoladellapoesia, recensione, saggio, StefanoAgosti

La parola della poesia di Stefano Agosti è un’indagine critica su quella parte di mondo che si nasconde tra le pieghe di un verso, che viene risvegliata da un accento, che mostra le sue contraddizioni grazie alla metrica. La parola poetica è forse la parte del linguaggio che più di tutte unisce pulsioni viscerali e significati raffinati, simbologie sonore e associazioni inattese. 

La proprietà essenziale della parola analitica è esprimere, manifestare, trasmettere quello che essa non dice.1 Tale proprietà potrebbe convenire anche alla parola letteraria, e in particolare alla parola poetica: proprietà che in questo caso sarebbe quella di esprimere, manifestare, trasmettere ciò che non sta nell’ordine del discorso. Ovvero la produzione (la manifestazione) di un senso non risolvibile in termini di significato. 

La poesia è un ambito autonomo della realtà e della lingua, nella quale, attraverso il capovolgimento negli abituali rapporti di forza tra piano sintagmatico e piano paradigmatico, è possibile un’interruzione della continuità ordinaria, non fine a se stessa, ma indirizzata a un cambiamento qualitativo, percepito sul piano del significante come su quello del significato. Se il linguaggio è una catena di relazioni ereditata, l’arte verbale non fa che attivare ciò che è originariamente reattivo del linguaggio ordinario: la poesia crea connettendo “ad arbitrio”. Jakobson arriva a considerare il linguaggio poetico come una liberazione di una capacità insita nel linguaggio stesso: creare connessioni e conseguentemente “mondi”.

Il confine tra ciò che è poetico e ciò che non è tale è divenuto sempre più sfuggente. Nella contemporaneità è riscontrabile il processo di avvicinamento dell’ordinario al poetico. Non soltanto i poeti cercano nell’ordinario il poetico, ma si assiste a una sempre più ingegnosa commistione del poetico al circuito dell’ordinario, che rischia di limitare l’uso della “poeticità” alle dinamiche del meccanismo della domanda-offerta, dominante non solo nel circuito economico, ma anche in quello culturale mass-mediatico, ambito ristretto del primo.2 La pubblicità, per esempio, prende del poetico ciò che le è funzionale per raggiungere i suoi obiettivi commerciali: si può facilmente intuire l’incidenza della funzione poetica nei moderni spot pubblicitari che si servono dei dispositivi formali tipici del linguaggio poetico, pur senza assegnare loro il ruolo determinante che svolgono invece in poesia.3

Se la poesia è riconoscibile in maniera sistematica nel prevalere della funzione poetica sulle altre funzioni del processo comunicativo, la poeticità di un’espressione verbale indica che in gioco non è la semplice comunicazione, ma qualcosa di più: la rilevanza del messaggio in sé chiama in causa il carattere dinamico del linguaggio – affine alla parole saussuriana – rispetto al suo carattere statico – relativo invece alla langue saussuriana. Il linguaggio quotidiano stilizza ciò che descrive, mentre il linguaggio poetico, in quanto emancipato dalla strumentalità della comunicazione, va al di là della stilizzazione, esprimendo la naturalità dell’evento e avviando una decostruzione del linguaggio ordinario stesso. Il linguaggio poetico mette in evidenza ciò che la percezione immediata generalmente fa cadere nell’oblio.4

Nella poesia, lo stesso veicolo di articolazione delle parole, ovvero le caratteristiche specifiche (fonologiche, grafiche, …) delle espressioni poetiche, è determinante per la comprensione del significato, che potrebbe dunque variare indefinitamente. La creatività del linguaggio poetico sta, inoltre, nell’evocare delle immagini mentali che possono essere poi modulate e interpretate dal lettore. La “strada immaginativa” viene percorsa in particolar modo dalla metafora, onnipresente nel linguaggio poetico. Anche se va sottolineato che la capacità creativa e “multimodale” della metafora poetica non costituisce motivo di discontinuità rispetto al linguaggio ordinario.5

Agosti sottolinea come ai radicali mutamenti nello studio del testo poetico, dovuti all’intervento di scienze quali la linguistica strutturale – esemplificabile soprattutto nel Cours de linguistíque générale di Saussure – e la semiologia – principalmente nell’elaborazione che ne ha effettuato Gremas – bisogna aggiungere quelli imputabili all’intervento della teoria psicoanalitica, in tutto il suo svolgimento nel corso dell’ultimo secolo, da Freud a Lacan. 

La psicoanalisi e la poesia sono due pratiche che, seppur in modo differente, offrono al soggetto la possibilità di accadere nel linguaggio diversamente da quanto farebbe qualsiasi altro sapere. Ciò è possibile perché la parola del poeta, così come quella dell’analizzante, non è sottoposta al vaglio di un ordine del discorso che ne disciplina il gesto secondo le proprie categorie, andando così a sopprimere quell’urgenza particolarissima che contraddistingue queste due voci. Si potrebbe aggiungere inoltre che, proprio perché queste due pratiche rinunciano alla posizione di una parola-maestra, sono in grado di non mettere a tacere l’inquietudine che anima i loro discorsi, irrequietezza appunto di una parola che trema, esita, indugia a farsi riconoscere e che riflette senza mistero l’identità in corso di definizione del suo portavoce.

Parola inquieta dunque ma anche, per questo, parola sovversiva che rompe gli argini del discorso corrente e di ogni pretesa di sapere-già-saputo e incontra, da una parte la poesia e dall’altra la psicoanalisi, due pratiche simboliche capaci di ascoltare e raccogliere in un bacino di senso, uno per uno, tutti quei deragliamenti del linguaggio che ogni altro sapere avrebbe o brutalmente messo a tacere oppure collezionato orgogliosamente con tanto di nuova etichetta.6

La poesia nasce dagli sbandamenti della ragione più progettuale, essa scardina ogni pretesa intenzionalità per manifestarsi come effetto di deriva, come colpo di scena improvviso capace di aprire la strada a dirottamenti del senso imprevisti. Se la psicoanalisi costruisce la propria pratica a partire dalla natura ambigua del linguaggio e dagli equivoci che essa inevitabilmente comporta, la poesia glorifica questa ambiguità e si genera solamente in virtù della plurivocità del senso. Entrambi i saperi aprono uno spazio in cui il soggetto “diviene molteplice”7: egli si colloca al di là di una rappresentazione unitaria di sé in quanto parla, in analisi e in poesia, non da una posizione di coincidenza con il proprio dire bensì da un punto decentrato rispetto alla propria immagine. Ma se il compito dell’analisi è portare il soggetto a incarnare la propria parola, cioè ad assumerne, per quanto possibile il peso soggettivo, la poesia rimane quell’apertura in cui la parola evoca senza informare, quel luogo in cui nessuno può domandare più di quanto offra.8

Agosti percorre un itinerario tra le liriche di classici e contemporanei, inseguendone gli echi dentro e fuori dal canone: ecco allora che l’Infinito di Leopardi, in cui ogni lemma sfida l’indicibile, si giustappone ai grafemi di Orelli; la lingua mimetica delle onomatopee di Pascoli si proietta nelle deflagrazioni di Sanguineti; le creature verbali di Rimbaud trovano eredi nei tentativi di Blotto di trascrivere quanto sta fuori dall’ordine del discorso.

Come si fa a registrare verbalmente la percezione di un profumo? Del mal di denti? Uno stato di ansia, o di esaltazione? Lo stato dell’essere nella propria pienezza amorosa? Percezione di uno stato interiore significa che lo stato interiore viene registrato dal soggetto alla stessa stregua di un fatto inerente la fisicità. L’esperienza diventa ancora più eccezionale e complessa laddove si parla di percezione di un nome, di un pronome, o comunque di un elemento del linguaggio. In tal caso, il linguaggio risulta assunto dal soggetto alla stessa stregua di un oggetto materiale.9

Chi scrive versi lo fa per cercare qualcosa che non potrebbe trovare altrove10. Lo scopo della poesia è, infatti quello di rinvigorire la vita morale11. La portata etica dell’operazione artistica fa da corollario a una vasta maggioranza di riflessioni teoriche le quali riguardano in priorità il sapere proprio della letteratura, tanto che è un dato di fatto riconoscere in molte di esse la compresenza di tre elementi della serie analitica: caratteristiche stilistico-strutturali, portata cognitiva, effetto etico.12

Tra le cifre che caratterizzano la produzione poetica italiana degli ultimi cinquanta anni è possibile rinvenire proprio la persistente riflessione sul modo in cui le nostre percezioni e intuizioni colgono gli aspetti contraddittori della vita.13 In questo panorama letterario, l’ansia mimetica spinge l’artista verso forme di rappresentazione che, per quanto irrisolte o sospese tra la versificazione e il racconto, si offrono quale risposta a domande urgenti e perennemente irrisolte: qual è la ragione profonda della convivenza sociale? In che misura è proponibile una raffigurazione del mondo quando questo muta repentinamente? Spetterà allora al poeta il compito di rintracciare queste aporie.14 E al lettore, al critico, apprendere e comprendere le conclusioni. Avviare cioè un’ulteriore ricerca che non deve limitarsi, per Agosti, al semplice parlare dell’autore, della sua vita, dei suoi amori, bensì volgere l’interesse alla verbalità, alle strutture verbali. Egli stesso ha dichiarato di apprezzare la critica di Contini proprio perché diversa, in questo, rispetto alle altre.15

Ed ecco allora che il lavoro svolto da Agosti e riportato ne La parola della poesia è un cammino lungo le liriche di autori classici e contemporanei analizzate non solo seguendo il metodo dettato dalla linguistica strutturale ma anche quello psicoanalitico per riuscire a meglio comprendere le strutture verbali ma anche le risposte alle numerose e contraddittorie domande che i poeti da sempre si pongono. 

Il libro

Stefano Agosti, La parola della poesia. Da Leopardi ad Augusto Blotto, Il Saggiatore, Milano, 2024.


1J. Lacan, Écrits, 1956.

2A. Serra, Linguaggio, poesia e realtà. Linguaggio ordinario e linguaggio poetico in Roman Jakobson, in RIFL, vol. 8 n° 1, 2014.

3R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 1966.

4A. Serra, op.cit.

5F. Ervas, Natura multimodale e creatività del linguaggio poetico, in Rivista di estetica, n° 70, 2019.

6F. Perardi, Psicoanalisi e Poesia: la fede nella parola, in ali-to.it Associazione lacaniana internazionale Torino

7G. Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault e altri intercessori, Ombre Corte, Verona, 1996.

8F. Perardi, op.cit.

9S. Agosti, Il testo degli istanti. Nota sulla poesia di Jaqueline Risset, in M. Galletti (a cura di), Jaqueline Risset “une certaine joie”. Percorsi di scrittura dal Trecento al Novecento, Roma Tre-Press, Roma, 2017.

10V. Magrelli, Che cos’è la poesia, Luca Sossella, Roma, 2015.

11B. Croce, In difesa della poesia, su La Critica, n° 32, 1934.

12C. Caracchini, Il pensiero della poesia: preliminari per un’esplorazione, in C. Caracchini, E. Minardi (a cura di)  Il pensiero della poesia. Da Leopardi ai contemporanei. Letture dal mondo di poeti italiani, Firenze University Press, Firenze, 2017.

13E. Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino, 2005.

14M. Pecora, Lo schermidore lirico. La logica della dissacrazione nell’opera poetico-narrativa di Valentino Zeichin, in SigMa – Rivista di Letterature comparate, teatro e atti dello spettacolo, vol. 3, 2019.

15S. Agosti, Tre lezioni a Ca’ Foscari, A. Costantini (a cura di), Università Ca’ Foscari, Venezia, 2018.

Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de ilSaggiatore per la disponibilità e il materiale.

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Yari Bernasconi, Andrea Fazioli, Non importa dove

11 mercoledì Giu 2025

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AndreaFazioli, CapelliEditore, Nonimportadove, recensione, saggio, YariBernasconi

Il progetto Non importa dove consiste in un viaggio attraverso cinquantotto luoghi, raccontati con parole e immagini. Luoghi narrati e indicati come cartoline. Luoghi del passato o del futuro, reali o immaginari, angoli del globo o spazi indefiniti. Cartoline slegate tra loro che possono essere consultate anche in maniera estemporanea eppure unite tra loro dall’essenza stessa del libro, dalla volontà degli autori di rappresentare il mondo, di ieri oggi domani, usando e sfruttando anche la fantasia, l’immaginazione.

Tolkien ha utilizzato due potenti dispositivi per consolidare la sua rappresentazione della Terra di Mezzo e renderla il più possibile vicina alla realtà: le mappe e i paesaggi. Entrambi gli strumenti utilizzati trasformano la geografia epica e virtuale de Il Signore degli Anelli in una concreta rievocazione della situazione europea vissuta dall’autore. La Terra di Mezzo, inizialmente ispirata e derivata da paesaggi europei esistenti, è poi diventata a sua volta fonte di ispirazione per il mondo reale. Non solo Tolkien “imita” i luoghi reali, ma oggi i luoghi immaginari da lui creati stanno, in un paradosso che mescola audacemente fatto e finzione, condizionando la realtà stessa, plasmandola a loro immagine. Si realizzano idee immaginarie di divertimento. In Nuova Zelanda, in un luogo lontanissimo dall’Inghilterra, si possono visitare i “paesaggi della Terra di Mezzo”.1

Il viaggio intrapreso da Bernasconi e Fazioli nel libro sembra incarnare alla perfezione l’idea di Tolkien di mescolanza e influenza reciproca tra luoghi reali e immaginari. 

Calvino riteneva prossimo un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili.2 Le città di Calvino sono invisibili perché immaginarie, mai esistite, ma non per questo prive di legami con la contemporaneità: sono sogni realistici immersi in una dimensione atemporale, pronti a diventare archetipi primordiali di aggregazione umana. Queste città non trovano posto in nessun atlante, perché sono il risultato di un viaggio interiore di Marco Polo che, nei panni di un novello Ulisse, narra le proprie avventure a un malinconico Kublai Kan, re dei Tartari, maschera orientale dell’omerico Alcinoo, cosciente dell’imminente rovina del suo impero; la sua unica consolazione è contemplare le visionarie città abbozzate dal suo interlocutore.3

Anche le cartoline di Bernasconi e Fazioli sono, per certi versi “immaginarie” laddove, pur illustrando luoghi reali, li raccontano al lettore con i filtri della fantasia e dell’immaginazione. Soprattutto sembra che gli autori abbiano voluto privare, con il loro viaggio, i lettori delle loro certezze. In un libro dove luoghi e non-luoghi si mescolano e si fondono fin quasi a confondersi viene ampliato il distacco dalla realtà quasi come un’invocazione che esorta chi legge a liberarsi dalle prigioni, mentali prima che fisiche, che bloccano la sua esistenza e reprimono sentimenti ed emozioni. 

La strada per la liberazione dalle proprie prigioni porta gli autori e, simbolicamente i lettori, attraverso scenari tipici della letteratura di viaggio. Numerosi sono gli esempi di personaggi inghiottiti dalla balena, ma tutti, in un certo qual modo, sembrano far riferimento al racconto biblico del profeta Giona. Smarrimento, disobbedienza e deviazione dal giusto cammino sono gli aspetti più ricorrenti.4 La permanenza nel ventre della balena diventa così un’occasione di espiazione tuttavia non uguale e non la medesima per tutti. Lo sguardo di chi viaggia e il viaggio in chi lo compie non sono mai un qualcosa di univoco. 

Nel ventre della balena Bernasconi e Fazioli incontrano anche Geppetto e Pinocchio. Iniziano a giocare a carte e Giona li avverte di stare attenti perché il burattino cercherà di imbrogliarli. Il complesso intreccio di climax utilizzato dagli autori in questa come anche in altre cartoline porta il lettore a interrogarsi non solo sulle parole e sulle immagini evocate quanto, soprattutto, sui loro significati reconditi legati ai luoghi e alle esistenze narrate. Storie di vita immaginarie e immaginate che si intrecciano con quelle reali, esattamente come accade per i luoghi visitati o, semplicemente, immaginati. 

Il libro

Yari Bernasconi, Andrea Fazioli, Non importa dove, Gabriele Capelli Editore, Mendrisio (Svizzera), 2025.


1M. Picone, Hic sunt Hobbits. La “realizzazione” di un paesaggio virtuale, in Atti del Convegno di Studi J.R.R. Tolkien: Viaggio ed Eroismo ne Il Signore degli Anelli, G. Picone e L. Scolari (a cura di), Palermo, 2014.

2I. Calvino, Le città invisibili, 1972.

3E. Armentano, La forza invisibile delle città calviniane. Lettura come “provocazione” alla scrittura: il progetto “Itinerari inesplorati tra Le città invisibili di Calvino”, in La Letteratura italiana e le arti, Atti del XX Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti, Napoli, 2016.

4F. Conselvan, Il cavaliere inghiottito. Il racconto esemplare di Giona nei poemi cavallereschi di primo Cinquecento, in La letteratura italiana e le Arti, Atti del XX Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti, Napoli, 2016.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa per la disponibilità e il materiale.

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Luisa Passerini, Artebiografia. Percorsi di artiste tra Italia e Africa

22 giovedì Mag 2025

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Artebiografia, LuisaPasserini, recensione, RosenbergSellier, saggio

Che cosa può insegnare l’arte che nessun’altra forma espressiva trasmette? È questa, in sintesi, la tesi iniziale del libro di Luisa Passerini Artebiografia. L’arte come forma di conoscenza soggettiva: guardando, ascoltando, seguendo i messaggi delle tre artiste oggetto del libro, cosa si arriva a percepire e comprendere personalmente?

Le tre artiste – Muna Mussie, Alessandra Ferrini, Binta Diaw – condividono in modi diversi, tra i poli del percorso biografico e dell’itinerario artistico, l’appartenenza a culture italiane e contemporaneamente l’attenzione per l’Africa. Un percorso che le accomuna all’autrice e da cui Passerini trae spunti per una riflessione di più ampio respiro su tematiche legate all’arte, alla cultura, alla violenza strutturale e alla colonizzazione/decolonizzazione.

Muna Mussie analizza a fondo il concetto di oblio scegliendo di decostruire l’accezione negativa comunemente data per legarla alla pratica del ricamo da lei sovente utilizzata e andare così a agire fisicamente sulla parola “oblio”. Con il gesto, al contempo pratico e simbolico, di scrittura e ricamo della parola “oblio” forma e contenuto si fondono al punto che appare chiaro il fatto che l’oblio rappresenta, alla fin fine, qualcosa che unisce. 

Già Renan aveva individuato nell’oblio un fattore essenziale nella creazione di una nazione. Al contrario della memoria storica che rappresenta spesso un pericolo per le nazionalità. In quanto la ricerca storica riporta alla luce i fatti di violenza che hanno accompagnato l’origine di tutte le formazioni politiche.1 Al Mattatoio di Torino l’artista ha voluto dare origine a una installazione che includesse tutti, umani e non umani. Dai muri del Mattatoio sembrano ancora udirsi dei lamenti. Da qui l’idea di Pianto del Muro che molto ricorda e si rifà al Muro del Pianto di Gerusalemme, un luogo iconico che richiama alla mente una storia nota di grande violenza.

Ecco allora ritornare i concetti di oblio e memoria storica. L’oblio del ricamo diventa allora un’occasione per condividere un dolore, una tristezza, un lamento. Per condividerlo. Ripensarlo fino a farlo sparire.

Anche Alessandra Ferrini indaga e avvicina i concetti di umano e non-umano ma in un’accezione differente, nella quale il non-umano diviene dis-umano. Con Gaddafi in Rome: Notes for a Film, una video-installazione con la quale l’artista rappresenta i controversi accadimenti della storia geo-politica contemporanea, focalizza l’interesse sull’utilità della ricerca per la difesa dei diritti umani e della cittadinanza globale in epoca post-coloniale. 

C’è un filo diretto tra il passato e il nostro presente, sebbene talvolta venga reso invisibile. Il periodo coloniale è forse il momento storico che maggiormente vede acutizzata la contrapposizione tra memoria storica e oblio. Tra necessità di comprendere, per superare e migliorare, e desiderio di dimenticare, nascondere, rinnegare, minimizzare. Destrutturare e ricomporre l’oblio del colonialismo porta, ancora una volta, all’emergere del dolore, della tristezza, dei lamenti, della violenza tutta che in esso ha albergato. 

Binta Diaw ha concentrato molto i suoi sforzi artistici nella rappresentazione del “corpo nero”. Una presenza fisica, anatomica. Una consapevolezza trasmessa in un mondo nel quale si pensa ancora al bianco e al nero in termini di separazione e marginalizzazione. 

Il 40% delle donne africane si sottopone a trattamenti per schiarire la pelle, spesso con creme che contengono mercurio. Una pratica dannosa per la salute. Il problema però non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di Le monde del 2008 già rilevava la tendenza diffusa da parte delle persone di colore a volersi sbiancare la pelle. Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata dalla maggior parte della popolazione, nella convinzione che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi. Così la prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento.2

Binta Diaw, al contrario, con le sue opere, di forte impronta installativa, sembra invece determinata a riprendersi e, al contempo, a trasmettere tutta la fierezza della nerezza. Il messaggio che viene trasmesso all’osservatore è di forte impatto emotivo, con rimandi alle origini della vita stessa. L’uso di materiali organici come la terra ha una forte valenza simbolica nella sua duplice accezione di elemento della natura e principio creativo. Affiancare e intrecciare poi a questo materiale elementi artificiali, come i capelli sintetici per le extension, amplifica l’impatto dell’opera stessa nello spazio al punto che queste installazioni sembrano occupare e “prendersi” l’intera scena. Come fosse la rappresentazione simbolica di una lenta e silenziosa marea nera che avanza in maniera costante e solo apparentemente impercettibile. 

In tutte e tre le artiste Luisa Passerini avverte risonanze di sentimenti che pertengono alla sua vita, ma che non riuscirebbe a esprimere se non attraverso l’interlocuzione con le loro opere. Gli elementi biografici, indagati a fondo nel testo e funzionali a esprimere appieno il senso del termine artebiografia, sono sempre introdotti in colloquio con l’opera artistica, intendendo con ciò sottolineare la relazione tra alcuni momenti cruciali dell’esperienza di vita e quelli della creazione artistica. Individuale, per ogni singola artista e per l’autrice. E corali, in un certo qual modo, laddove Passerini lega le sue esperienze personali a quelle delle artiste e alle loro opere.

L’arte è una forma di espressione umana che affonda le sue radici nelle profondità dell’anima e tocca corde sensibili della persona. Da sempre ha avuto il potere di evocare emozioni, suscitare riflessioni e creare un senso di connessione tra l’artista e il fruitore. A questo l’autrice ha legato le esperienze biografiche di ognuna e di tutte che vedono, tra l’altro, uno stretto legame con il continente africano.

Enormi parti del mondo stanno diventando nere, tanto che alla fine del secolo in corso una persona su tre o quattro sarà africana. 

Da qui al 2050, la sola Africa subsahariana conterà all’incirca il 57% della crescita demografica globale e il 23% circa della popolazione mondiale.3

Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del “Terzo Mondo”, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e una gioventù sotto proletarizzata. L’Africa, sostanzialmente, sta diventando una condizione globale.4

In Europa lo spirito è annacquato, corroso dalle forme più forti di pessimismo, nichilismo e superficialità. L’Africa potrà anche essere sconfinata ma il suo spirito e i suoi spiriti sono lucidi, trasparenti, la sua spiritualità sottile seppure ampia e inclusiva. L’Europa ha “decolonizzato” senza riuscire a “autodecolonizzarsi”.5

Non solo tutte le grandi scoperte e conquiste della storia moderna sono per lo più attribuite agli attori europei, ma l’intero schema storico è costruito in modo tale da escludere l’Africa, presentando l’Occidente come il centro e la forza motrice della storia. L’Occidente ha utilizzato gli attributi della razza per stabilire differenze attraverso la selezione di criteri che favoriscono la sua normatività, il più evidente dei quali è la pretesa esclusiva di razionalità. Di conseguenza, tutto ciò che differisce dall’Occidente diventa irrazionale e primitivo.6 Quando, invece, le agentività umane sono coinvolte e prioritarie, lo sviluppo diventa una questione di capacità umane nei termini di libertà e opportunità piuttosto che di semplici indicatori economici.7

Le posizioni filosofiche africane sono emerse a partire dalla chiara percezione dei profondi danni causati dall’interiorizzazione del discorso coloniale. Convinti che nessuna politica di sviluppo potesse dare frutti finché il sé africano fosse gravato dallo spettro dell’arretratezza, hanno elaborato teorie per contrastare il discorso colonialista al fine di realizzare la decolonizzazione della mente africana.8

In Occidente, anche nei contesti scolastici tendono ancora a riprodursi le ingiustizie socio-economiche del mondo esterno, a perpetuarsi gli stereotipi culturali che giustificano le gerarchie tra gruppi sociali.9 Secondo la teoria del deficit thinking gli studenti delle minoranze e le loro famiglie sono considerati i principali responsabili dell’insuccesso scolastico da loro sperimentato poiché sono privi delle conoscenze e delle competenze culturali attese. Il deficit thinking ha trovato nella colonialità del sapere10 un terreno fertile per il suo sviluppo e la sua diffusione nei sistemi scolastici occidentali.11 La persistenza del deficit thinking approach a scuola si prolunga e si ripercuote poi sull’intera società generando così una sorta di circolo vizioso.

Il potere oggi in essere che muove i processi di globalizzazione di stampo neoliberista trova le sue radici nel colonialismo eurocentrico che, a sua volta, rintraccia nella conquista dell’America Latina il suo atto fondativo. La sottomissione territoriale, politica ed economica ha incluso anche la colonialità del sapere: la cultura eurocentrica divora dall’interno le altre culture attraverso la colonizzazione dell’immaginario delle popolazioni sottomesse con l’imposizione di una super-ideologia. L’assolutismo scientifico positivista imposto dalla colonialità del sapere costituisce ancora oggi lo sfondo epistemologico dei sistemi scolastici occidentali. Gli studenti altri, i cui saperi non sono riconosciuti dal sistema scolastico – il plurilinguismo, la conoscenza del mondo naturale, ecc. – sono letti attraverso uno sguardo che pone l’attenzione su ciò che manca, sulle lacune rispetto alle competenze definite dal curricolo.12 La decolonizzazione della conoscenza è indicata quale compito fondamentale della decolonialità al fine di risoggettivizzare (s)oggetti coloniali.13

La decolonizzazione del patrimonio è attualmente uno dei temi più caldi del dibattito contemporaneo in ambito culturale. Intendendo con essa sia la comprensione di quel passato che aleggia tuttora sul nostro presente che la sperimentazione di un uso più democratico del nostro patrimonio.14 Decolonizzare significa interrogarsi sulle istituzioni: come e perché viene attribuita priorità ad alcune forme di conoscenza e autorità rispetto ad altre? Come vengono organizzate e classificate le conoscenze? Chi determina i criteri di selezione e di qualità delle collezioni? 

La colonizzazione culturale ha interferito e interferisce tuttora con la volontà delle culture locali. Non vi è alcun dubbio nel riconoscere che la questione post-coloniale ovunque ha lasciato delle ampie ferite aperte e l’incapacità di trovare forme autoctone di “rimarginazione” ha solo favorito ingiustizie e guerriglie interne che hanno messo in forte discussione proprio il patrimonio culturale ereditato da queste colonie.15 C’è chi ha visto poi in questi movimenti di liberazione e rivoluzione, africani in particolare, una via d’uscita dall’avvilimento della quotidianità. Per Luisa Passerini l’Africa ha rappresentato il luogo di sovversione totale. Era l’Africa subsahariana o “nera” che attirava e prometteva. Era L’Africa-mondo, più che un continente: una dimensione storica; un modo di vedere l’intrico di passato, presente e futuro; una possibilità di invenzione e cambiamento di prospettiva. Il continente, ricorda Passerini, che sembra mantenere una “giovinezza inesplorata”. 

L’interlocuzione di Passerini con le tre artiste e le loro opere ha guidato un itinerario apparentemente circolare, in quanto le stesse tematiche sono ritornate più volte. In realtà, come sottolinea la stessa autrice, si è trattato piuttosto di una spirale, perché i temi riappaiono in maniera diversa, il che permette di scoprirne nuovi significati. Tutte le fonti, anche quelle giuridiche e statistiche, nascondono o possono nascondere una valenza emozionale, generalmente attribuita alle forme d’arte. Peculiare della fonte artistica risulta essere, nell’analisi di Passerini, l’invito a molteplici forme di intersoggettività: tra chi ricerca e l’artista, tra l’artista e il suo tempo, tra quel tempo e il momento attuale, tra individui e realtà collettive. 

L’arte è, per eccellenza, un luogo dove si incontrano in modo ossimorico la rappresentabilità e l’irrappresentabilità,16 allora in essa la negazione gioca un ruolo fondamentale dal momento che rappresenta un meccanismo chiave. Solo seguendo il sentiero della negatività, infatti, alcuni contenuti sono resi veicolabili a patto di essere in qualche modo cancellati. Vedere è un po’ come distruggere: Orfeo che guarda Euridice la condanna a morire per la seconda volta; Psiche violando il divieto di contemplare Eros scatena le furie di Venere; la moglie di Lot è trasformata in una statua di sale da Dio che aveva ordinato a tutti gli abitanti di Sodoma di non voltarsi per vedere cosa restava della città.17 Cogliere l’intenzione di un artista non è solo una faccenda di comprensione intellettuale poiché l’obiettivo dell’autore è piuttosto quello di destare nello spettatore lo stesso atteggiamento emotivo, la stessa costellazione mentale che ha prodotto in lui l’impeto creativo. Ecco allora che bisogna dirigersi non verso le ragioni dell’opera bensì verso i suoi silenzi per portare alla luce «le travail du négatif à l’œuvre dans l’œuvre» (“il lavoro del negativo all’opera nell’opera”).18

L’oblio di Muna Mussie, il dis-umano di Alessandra Ferrini, il corpo-nero di Binta Diaw, il vuoto di cui racconta Luisa Passerini nel quinto capitolo del libro e che l’ha portata a interrogarsi sulla propria esistenza, sembrano tutti aspetti dell’irrappresentabile impeto artistico che mira a illuminare il buio e oscurare, nascondere l’ovvio, unico modo per indagare oltre, per far comprendere e trasmettere allo spettatore il lavoro del negativo all’opera nell’opera.

Libro

Luisa Passerini, Artebiografia. Percorsi di artiste tra Italia e Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2024.


1E. Renan (autore), G. De Paola (traduttore), Che cos’è una nazione, Donzelli, Roma 2004 (Conferenza alla Sorbona di Parigi del 1882). 

2F. Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, Segrate (Milano), 2022. 

3Orizzonte 2050: le prospettive di sviluppo dell’Africa, in ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 22 aprile 2020.

4J. Comaroff, J.L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.

5A. Mbembe, Emergere dalla lunga notte. Studio sull’Africa decolonizzata, Meltemi, Milano, 2018.

6M. Kebede, African Development and the Primacy of Mental Decolonisation, in L. Keita, (a cura di), Philosophy and African Development: Theory and Practice, CODESRIA, Dakar, 2011.

7A. Sen, B. Williams, Development as Freedom, Knopf, New York, 1999.

8M. Kebede, op.cit.

9I. Vannini, La scuola di tutti e di tutte. Equità e qualità del Sistema e professionalità dell’insegnante: un’analisi incompleta, in LLL, vol.19, n°42, 2023.

10A. Quijano, Colonialidad y modernidad/racionalidad, in Perù Indígena, vol.13. N°29, 1992.

11P. Dusi, Breaking out of the box. Andare oltre il deficit thinking nei contesti scolastici eterogenei, in Educazione Interculturale – Teorie, Ricerche, Pratiche, vol.21, n°2, 2023.

12P. Dusi, op.cit.

13W.D. Mignolo, The Decolonial Option, in W.D. Mignolo, C.E. Walsh, On decoloniality, Duke University Press, Durham, 2018.

14L’ICCROM e la decolonizzazione del patrimonio, in Temi-Evidenza, UNESCO – Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco, 02 dicembre 2021.

15O. Niglio, Decolonizzazione culturale e nuovi paradigmi locali, in Dialoghi Mediterranei, Istituto Euroarabo, 1 luglio 2021.

16M. Gagnebin, L’irreprésentable ou les silences de l’œuvre. Presses Universitaires de france, Pris, 1984.

17A. Tomaino, Per una buona psicoanalisi dell’arte: Vygostskij e il Mosè di Freud, in RIFL, vol.12, n°2, 2012.

18M. Gagnebin, Pour une esthétique psychanalytique. L’artiste, stragège de l’Inconscients, Presses Universitaires de France, Paris, 1994.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Le immagini sono tutte tratte dal libro.


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Jorge Luis Borges, il Mestiere della Poesia

15 giovedì Mag 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IlMestieredellaPoesia, JorgeLuisBorges, LuissUniversityPress, recensione, saggio

Sentiamo la poesia come sentiamo la vicinanza di una donna, o una montagna, un’insenatura. Se la sentiamo immediatamente, perché diluirla in altre parole, che saranno di sicuro più deboli delle nostri emozioni?1

La poesia parla da sé e parafrasata smette di essere tale. Come parlarne, dunque? Da lettore, quale Borges si è sempre, innanzitutto, e senza falsa modestia, considerato. Nelle lezioni tenute a Harvard tra il 1967 e il 1968, descrive passo dopo passo il certosino lavoro del poeta il quale, al pari di ogni altro artigiano, costruisce, cesella, intarsia, perfeziona ogni sua creazione.

Per quanto sia infinita la letteratura, o le possibili variazioni sugli stessi argomenti, Borges ritiene i suoi temi limitati. Analogamente, egli ritiene che l’universo personale di ogni scrittore sia abbastanza limitato, come dimostra, per esempio, nel caso della sua opera, la ricorrenza di alcuni temi specifici. Ora, questi temi, egli sostiene, non è stato lui a sceglierli, ma sono stati questi stessi temi ad aver scelto lui.2

Martinetto afferma che il lavoro svolto da Borges sia stato quello di attingere all’immenso territorio dell’intertestualità una serie di temi che già vi vorticavano e di trasformarli in parabole esemplari. La sua, insomma, è stata l’idea di una letteratura parassitaria e della riscrittura come garanzia di genuinità. 

La citazione (legale) e il plagio (illegale), equivalgono entrambi a scrivere una lettura: in questo Borges va considerato un artista concettuale poiché ri-crea nel momento in cui legge, insinuando la differenza fra originale e copia, come nel caso esemplare del suo Pierre Menard, oppure dove argomenta che ogni scrittore crea i suoi precursori perché modifica la nostra concezione di quelli che lo hanno preceduto.3

Borges immagina che lo scrittore francese, Pierre Menard, si prefigga lo scopo ambizioso non di trascrivere in modo meccanico il Don Chisciotte di Cervantes bensì di produrre delle pagine che coincidano, parola per parola, con l’opera originale.4

Che per imitare nella maniera più perfetta un autore, per scrivere come lui, sia necessario identificarsi con il modello, diventare lui, è un suggerimento ben presente al classicismo tardo-medievale e rinascimentale. Non a caso, Francesco Petrarca, nelle sue Familiares, ha prescritto la propria assimilazione delle pagine più amate in termini fisiologici e organici, come se le parole dei classici mettessero radici nelle viscere stesse del soggetto e lo trasformassero in un altro.5

La medesima opinione di fondo è quella di Leopardi: «La facoltà d’imitazione non è che la facoltà di assuefazione; perocché chi facilmente si avvezza, vedendo o sentendo o con qualunque senso apprendendo, o finalmente leggendo, facilmente, e anche in poco tempo, riducesi ad abito quelle tali sensazioni o apprensioni, di modo che presto, e ancor dopo una volta sola, e più o manco perfettamente gli divengono come proprie; il che fa ch’egli possa benissimo e facilmente rappresentarle e al naturale, esprimendole piuttosto che imitandole, poiché il buono imitatore deve aver come raccolto e immedesimato in se stesso quello che imita».6

Analogamente, scrivendo il suo racconto, Borges presenta il suo tema rinviando alla total identificación con uno specifico autore. Agire secondo lo spirito di un autore significa dunque “entrare” letteralmente nel suo Io. Dietro il Cervantes perfettamente spersonalizzato di Menard si dovrebbe ritrovare (ma ciò è impossibile) la scrittura personale di Menard. Il lavorìo della creatività individuale ha prodotto un testo identico a quello precedente e la differenza delle varianti e dello stile si è cristallizzata nella ripetizione di ciò che già è stato. Pierre Menard si annulla nell’operazione e il suo presente finisce per coesistere con il passato di Cervantes.7

L’utilizzo e la rielaborazione di frasi e concetti attinti all’immenso capitale libresco immagazzinato nel corso di una vita consumata in una biblioteca plurilingue, rappresenta per Borges uno strumento epistemologico, anche quando include testi e autori immaginari per costruire una realtà letteraria speculare inesistente. 

Le trasformazioni della critica letteraria nel corso degli ultimi decenni illustrano come il campo si sia evoluto dalla predominanza della teoria letteraria post-strutturalista e formalista verso una maggiore diversificazione e interazione con altre discipline. L’eclettismo metodologico riflette una visione della letteratura non più considerata nella sua autonomia ma come fenomeno culturale e antropologico complesso intrecciato ad altre sfere della conoscenza. Questo spostamento dal testo e il suo autore verso i lettori, e dunque verso gli effetti empirici, cognitivi o politici della letteratura, ha permesso di difendere il ruolo delle scienze umane di fronte alle critiche neoliberiste sulla loro presunta inutilità.8

Nell’opera di Borges la memoria diventa un’alchimia immaginativa, trasformando saperi eterogenei in un linguaggio narrativo capace di evocarne la ricca portata simbolica. Egli è l’animal symbolicum di Cassirer, colui che vive in un contesto mediato da valori e significati che egli stesso concorre a elaborare, ricorrendo al mito, alla religione, all’arte, alla scienza. Nell’archeologia borgesiana del sapere l’occhio estetico anima un’estrema varietà di modelli culturali, dando loro esistenza concreta, ma anche svelandone i punti deboli attraverso una serie di fratture tra la superficie visibile delle parole e il non-detto che si apre alle loro spalle. Il suo metodo, se è legittimo parlare di metodo, potrebbe somigliare a una provocazione maieutica che miri a suscitare interrogativi, anche evocando posizioni collidenti tra loro. L’orizzonte antropologico si allarga, in questo caso, fino a comprendere non solo ciò che è, ma anche ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.9

Nella prefazione Sideri sottolinea, e ricorda al lettore, quanto la conoscenza, se non condivisa, si trasforma in un mero esercizio di potere. E quanto, al contrario, la parola di Borges abbia dimostrato la potenza del verbo laico: non in flussi di parole, ma in concentrati densi e coerenti, che conservano ancora oggi il valore taumaturgico dei pensieri capaci di permeare la percezione. Un sapere parziale, un dubbio saggio, che proprio per questo si avvicina alla più alta forma di conoscenza accessibile all’uomo. 

Per Borges, la vera conoscenza non nasce dalle certezze, ma dalla capacità di porsi domande e accogliere il dubbio. Ogni poesia, ogni lettura, diventa così un invito a esplorare l’ignoto, un labirinto di enigmi che conduce a una comprensione più profonda di noi stessi e della realtà che ci circonda. 

Nel definire le diverse funzioni della lingua si può agevolmente distinguere dalle altre la “funzione poetica”, che concentra l’attenzione non sull’emittente, sul destinatario o sul referente della comunicazione, ma sul messaggio, ossia sull’enunciato stesso, in quanto formulazione creativa. Nella poesia, il linguaggio funziona al massimo livello delle proprie potenzialità espressive, che ne fanno una fondamentale e insostituibile forma di conoscenza. Per questo la poesia è necessaria. 

Caratteristica della poesia – sia essa poesia orale o poesia scritta e letta – è la sua naturale aspirazione a farsi voce, a farsi un giorno sentire, non solo attraverso l’ascolto ma anche con il sentire del corpo di chi la incontra.10

L’accento che Borges ha voluto dare al suo discorso sulla poesia non riguarda la lettura tipica di un critico o di un interprete, bensì quella di chi assapora il risultato di un lavoro di cesello, invitando il pubblico a notare dettagli che potrebbero altrimenti sfuggire, ombreggiature di suono – e solo dopo di senso. È una lezione sul modo di avvicinarsi alla poesia, come sottolinea Martinetto nella introduzione al testo: abituarsi a lasciar parlare le assonanze, le musicalità, le associazioni di parole, un invito a rifuggire il ragionamento per abbandonarsi a un piacere quasi fisico, dal momento che il linguaggio non è l’invenzione di accademici o filologi. Esso si è evoluto nel tempo, in un tempo lunghissimo, grazie a contadini pescatori cacciatori cavalieri. Non proviene dalle biblioteche ma dai campi, dal mare, dai fiumi, dalla notte, dall’alba.

Per Borges, la prosa convive con il verso. E, forse, per l’immaginazione entrambi sono uguali. Il richiamo a Croce è palese, di cui Borges si è sempre mostrato allievo: nel non distinguere tra verso e prosa; nel ricercare l’essenzialità del dettato; nel finalizzare la poesia alla sua forma classica.11

La poesia di Borges è poesia della centralità, senza tempo e di tutta la storia. E, in quanto tale, tiene in serbo un sentimento profondo delle periferie dello spazio e del tempo, delle distanze remote della civiltà, della vaghezza della memoria, del sogno, della realtà presente. In essa sembra possibile percepire una fatale coincidenza tra la condizione dell’esistenza e il suo fine, tra le esili orme che la vita lascia nel tempo e il volume del suo destino, tra il non senso e la sua necessità.12

Dopo aver trascorso l’intera vita a leggere, analizzare, scrivere, Borges affermava di poter donare una sola certezza: i suoi dubbi. E così che egli comunica agli studenti di Harvard, che ascoltano i suoi discorsi sulla poesia, di poter comunicare loro solo le sue perplessità.

Ed è forse proprio in questo che risiede la grandezza dell’opera letteraria di Jorge Luis Borges, nella grande umiltà di fondo che, nelle lezioni americane, traspare anche più agevolmente rispetto alle opere di narrativa o poesia. Nelle Northon Lectures, Borges cita versi con premesse come questa: Se non li capite, potrete consolarvi pensando che non li capisco neppure io e che sono privi di senso. Sono belli e deliziosamente privi di senso; non devono significare nulla. Sembra una banale provocazione eppure, come ricordano gli autori, si tratta di una lezione sul modo di avvicinarsi alla poesia, per abituarsi a lasciar parlare la musicalità, le assonanze. Il suono, Le parole, Il suono delle parole. Il significato del suono e delle parole. Il significato del suono delle parole. Musicalità e assonanze che conducono alla conoscenza di significati e verità.


Il libro

Jorge Luis Borges, il Mestiere della Poesia, Luiss University Press, Roma, 2024. 

Introduzione di Massimo Sideri. Con saggi di Vittoria Martinetto e Calin-Andrei Mihailescu.

Traduzione di Vittoria Martinetto e Angelo Morino.

Titolo originale: This craft of verse.


1J. L. Borges, Sette sere, Adelphi, Milano, 2024.

2G. Pera, Lo scrittore e la creazione letteraria, secondo Jorge Luis Borges, in Dialoghi Mediterranei, 1 marzo 2023.

3J.L. Borges, Kafka e i suoi precursori, in Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano, 2019. 

4J.L. Borges, Pierre Menard, Author of the Quixote, 1939.

5F. Petrarca, Familiarium rerum libri.

6G. Leopardi, Zibaldone.

7R. Rinaldi, Pierre e Paul, i dettagli del sentimento. Postilla sul bergsonismo di Pierre Menard, in Parole Rubate – Rivista Internazionale si Studi sulla citazione, Fascicolo 22, Dicembre 2020.

8A. Gefen, A che punto è la teoria letteraria?, in Narrativa – Nuova Serie Critica e teoria della letteratura: come leggere un testo nell’Italia degli anni Duemila, 46 | 2024.

9A. Guzzi, La teoria della letteratura: Jorge Luis Borges, Edizioni ETS, Pisa, 2009.

10P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984.

11D. Puccini, Borges, la lunga strada verso la finzione, in L’Indice dei libri del mese, anno I n°3 dicembre 1984.

12B. Mattei, Sulla semplice complessità della poesia di Borges, in Borges e la poesia del pensiero, Fondazione Montanelli Bassi, Fucecchio (Firenze), 22 maggio 2014.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Luiss University Press per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Beppe Severgnini, Socrate, Agata e il futuro

31 lunedì Mar 2025

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Le sfide che la contemporaneità pone al futuro prossimo sono segnate dal rapido invecchiamento della popolazione mondiale. I numeri degli anziani e dei grandi anziani stanno inevitabilmente crescendo anche all’interno delle comunità diasporiche. La longevità può essere osservata con sguardo ambivalente: da un lato essa rappresenta la realizzazione di un ideale di lunga vita, mentre dall’altro è foriera di una crisi demografica, che si manifesta attraverso la molteplicità di cure che una popolazione sempre più anziana esige. Il “peso” della cura si riverbera nelle politiche nazionali del welfare e sui dispositivi di solidarietà intergenerazionale sui quali le comunità si fondano, rischiando il collasso del tessuto economico e sociale (M. Scaglioni, F. Diodati, (eds) Antropologia dell’invecchiamento e della cura: prospettive globali, Ledizioni, Milano, 2021).

Ma come vivono i diretti interessati la longevità? Severgnini ha analizzato a fondo l’universo della terza età e lo ha fatto attraverso lo sguardo indagatore della giovinezza mitigato dalla saggezza filosofica. Il risultato è un libro basato sull’imperativo dont’ become an old bore – non diventare un vecchio barbogio. Le regole da seguire sono semplici: «Essere attenti e generosi; coltivare l’ironia, antiruggine dell’anima; farsi venire buone idee, frequentando persone intelligenti e bei luoghi; farsi domande, anche sull’attualità; non rinchiudersi in un tempio domestico regolato da piccole ossessioni; pensare che il mondo non finisce con noi. Farsi una domanda: Quanti anni mi restano? E poi pensare: quegli anni voglio usarli bene».

Per Severgnini alcuni giovani oggi sono annichiliti perché nessuno li ascolta, altri trovano strade e porte chiuse da chi dovrebbe aprirle per loro: «È una buona cosa che alla mia età – ho 68 anni – ci si senta utili e attivi. Ma questo non deve avvenire a spese dei nostri figli e nipoti». 

A causa dell’invecchiamento e dei fattori associati si può andare incontro a una mancanza di rinforzi positivi e a un fallimento nella capacità di adattamento per cui i tratti di personalità maladattativi e/o sub-clinici diventano manifesti – per esempio aumenta l’invidia e il senso di grandiosità personale tra i narcisisti di successo come risultato di un pensionamento forzato, oppure si ha un importante declino dell’umore (B. De Sanctis, B. Basile, L’applicazione della schema therapy in terza età, in Cognitivismo clinico, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2020). I giovani di oggi, invece, non soffrono solo di una difficoltà psicologica comune a tutta l’adolescenza, ma anche di una dimensione culturale legata alla cultura del nostro tempo in rapporto al futuro. Quindi c’è una sofferenza doppia, con la seconda più grave della prima (U. Galimberti, intervista a «Il Piccolo», 30 ottobre 2019).

Incrementare la produttività a tutti i costi ci ha portati a un sistema sociale nel quale l’uomo sembra esistere solo in funzione del lavoro e così i giovani che ne sono privi si annichiliscono e gli anziani che ne sono ormai fuori si deprimono e si arrabbiano perché si sentono inutili. Severgnini non ha la presunzione di proporre un modello di vita alternativo ma ha la capacità di suggerire un pensiero alternativo: «siamo esseri umani nel tempo, non pezzi di legno nella corrente».

Il libro

Beppe Severgnini, Socrate, Agata e il futuro. L’arte di invecchiare con filosofia, Rizzoli, Milano, 2025

Articolo pubblicato sul numero di aprile 2025 della Rivista cartacea Leggere:Tutti


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Zainab Entezar, Asef Soltanzadeh, Daniela Meneghini, Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afgane

28 venerdì Mar 2025

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AsefSoltanzadeh, DanielaMeneghini, Fuorchéilsilenzio, Jouvence, MIM, MimEdizioni, Mimesis, recensione, saggio, ZainabEntezar

Trentasei donne afghane raccontano, in lingua dari, ognuna con parole e stili propri, la loro vita fino alla primavera del 2022, il momento in cui Zainab Entezar, regista e scrittrice afghana, costretta dalla latitanza, chiude le interviste e la raccolta degli scritti delle attiviste. Donne impegnate a dare conto delle loro esistenze e delle loro proteste spinte dall’urgenza di un evento ben preciso: il ritorno dei talebani al governo dell’Afghanistan il 15 agosto 2021, dopo venti anni di presenza occidentale. 

A quasi quattro anni dal ritorno dei talebani al potere, la situazione nel paese resta complessa e contraddittoria. L’Afghanistan è tornato a una situazione che presenta molte somiglianze al periodo pre-invasione occidentale. Il movimento islamico fondamentalista, colpito dagli Usa perché accusato di connivenza con Al-Qaida e il suo leader Osama Bin Laden, annunciava poche ore dopo la presa di Kabul la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan e il ripristino come legge vigente della Sharïa, nella sua interpretazione più rigida e fondamentalista. Se da un lato i talebani hanno oggi consolidato il loro controllo sul territorio, dall’altro la loro gestione del paese continua a essere segnata da problemi economici, violazioni dei diritti umani e isolamento internazionale. Relativo. Perché, in realtà, Pakistan e Iran hanno ristabilito i contatti con il governo talebano. La Cina poi è stato il primo paese non musulmano a cercare un dialogo con i talebani. Il Qatar ha giocato un ruolo centrale nelle negoziazioni tra i talebani e gli Stati Uniti, mentre la Turchia ha offerto assistenza tecnica e supporto nella gestione dell’aeroporto di Kabul. La Federazione russa, pur non riconoscendo formalmente il governo dell’Emirato, ha ospitato delegazioni talebane e mantenuto contatti regolari, vedendo l’Afghanistan come un punto strategico nella sua politica verso l’Asia centrale.1

Macrory nel 1986 ha prodotto il più puntuale resoconto della peggiore disfatta delle forze britanniche nel XIX secolo, ovvero l’annientamento di un corpo di spedizione inviato a occupare Kabul nel 1839 e massacrato nel corso di una precipitosa ritirata meno di tre anni dopo.2 Molte sono le analogie tra gli eventi del gennaio del 1842 e la fine dei venti anni di guerra in Afghanistan. Ancora una volta, dopo una vittoria sul campo rapida e schiacciante e una lunga occupazione, l’Afghanistan è stato abbandonato in tutta fretta e malamente.3

All’inizio sembrava tutto semplice: abbattere il regime dei talebani, eliminare i militanti di Al-Qaida e i loro campi di addestramento dal paese, catturare o uccidere Osama Bin Laden. Poi si scivola verso obiettivi vaghi, troppo ambiziosi, mai del tutto condivisi tra opinione pubblica, decisori politici e gerarchia militare. Un conto è fare nation building in Germania o in Giappone dopo aver vinto una terribile guerra convenzionale, di cui quei Paesi e la loro gente sapevano di portare la responsabilità maggiore. Tutt’altra cosa ricostruire l’Afghanistan, il cui regime è stato rovesciato nel 2001 per colpe che molti dei suoi abitanti ignoravano e ignorano tuttora, e dove non si è mai riusciti, dopo la “liberazione” dai primi talebani, a formare una classe dirigente adeguata.4

Il 15 agosto 2021 ha segnato il ritorno, per l’ennesima volta in quella terra, della negazione finanche dei più elementari diritti. A tale negazione corrisponde una prassi oppressiva, intimidatoria e violenta di fronte a qualsiasi manifestazione di dissenso. In Fuorché il silenzio trentasei donne ci parlano di questo, di come sono arrivate a quell’agosto 2021, radicando i loro racconti in una realtà storica e sociale che non è separabile dal percorso delle loro vite.

Si stima che l’80% della popolazione afgana sia composta da musulmani sunniti, adepti della scuola di giurisprudenza di Hanafi. Il gruppo etnico dei pashtun è, per la maggior parte, composto da sunniti, a eccezione della tribù pashtun-turi i cui membri sono sciiti. Il resto della popolazione (19%), in particolare il gruppo etnico hazara, professa per lo più la religione musulmana sciita. L’1% della popolazione segue altre religioni. Religione, tradizione e i codici islamici, insieme con le pratiche tradizionali e tribali, svolgono un ruolo fondamentale tanto nella disciplina della condotta personale quanto della risoluzione delle controversie.5

I pashtun sono attualmente, ma anche storicamente, il gruppo etnico politicamente più potente in Afghanistan. Tuttavia, nonostante la loro passata dominazione politica, non hanno mai costituito un gruppo omogeneo e molti sono diventati vittime di oppressione da parte delle élites delle loro stesse comunità. Eppure, nonostante le loro divisioni interne, si sono spesso uniti in un unico fronte quando si è trattato di opporsi a interferenze esterne o poste in essere da elementi non pashtun del governo centrale.6 Sono il gruppo etnico maggioritario in Afghanistan (circa il 42% della popolazione). La struttura sociale dei pashtun si basa sul codice pashtunwali, che è un misto tra un codice tribale d’onore e interpretazioni locali della legge islamica. La risoluzione di dispute e le decisioni prese a livello locale sono affidate al consiglio tribale jirga, mentre la donna è esclusa da qualsiasi questione che non riguardi la vita domestica. 

Le altre etnie sono: tagiki, hazara, uzbeki, aimak, turkmeni, baluchi, e altre etnie minoritarie. 

I tagiki , secondo gruppo maggioritario del paese, sono molto attivi politicamente. Dal 1992 al 1996 sono stati anche alla guida del governo del paese, in seguito agli accordi di Peshawar. Destituiti allorquando i talebani hanno iniziato la guerra civile. Si sono sempre mostrati contrari alla partecipazione dei talebani ai negoziati di pace, temendo ripercussioni per l’impegno in prima linea svolto contro i medesimi. Timori confermati prima dalle persecuzioni subite durante il governo dei talebani poi dall’uccisione (a settembre 2011) di Burhanuddin Rabbani, ex Presidente, leader del partito Jamiat-e-Islami e Presidente dell’Alto Consiglio per la Pace dell’Afghanistan.

In tutto l’Afghanistan, dopo la ripresa del potere dei talebani nel 2021, le donne hanno reagito alla repressione con un’ondata di proteste, alle quali si è risposto con intimidazioni, violenza, arresti arbitrari, sparizioni forzate e torture fisiche e psicologiche. Le donne arrestate per “corruzione morale” sono sottoposte a isolamento, pestaggio e altre forme di tortura e sono detenute in condizioni inumane, in celle sovraffollate e con poco accesso al cibo, all’acqua e, nei mesi invernali, al riscaldamento. 

Obbligo di indossare hijab o burka, chiusura delle scuole secondarie, tutoraggio maschile, accesso ridotto all’università e divieto di accesso a parchi e giardini: questa è la vita delle donne afgane dal ritiro delle forze Nato dal paese. Il regime, che nel momento dell’insediamento aveva cercato di mostrare una faccia moderata, sta portando avanti il proprio progetto a piccoli passi, ma costanti.7

Il filo che lega le trentasei donne del libro è la protesta contro la situazione descritta. Le manifestazioni contro la negazione dei diritti fondamentali e la richiesta di libertà. Le testimonianze raccolte da Zainab Entezar sono, per la maggiore, di donne che nessuno conosceva, ma che hanno compiuto azioni di enorme coraggio, opponendosi alle armi dei talebani per le strade di Kabul, Herat, Mazar-e Sharif. Ognuna arriva a quel 15 agosto da un percorso proprio, da famiglie di diversa estrazione sociale, culturale ed economica. Nessuna è uguale all’altra ma la richiesta di libertà le accomuna indissolubilmente. 

La curatrice del libro invita a una lettura senza pregiudizi, ovvero priva della proiezione dei nostri modelli: quello femminista prima di tutto, poi quello culturale e religioso ma, anche, priva di qualsiasi idea rigida di libertà ed emancipazione. Queste donne hanno avuto delle opportunità durante i non meno tragici venti anni di governo filo-occidentale: spesso con fatica, ma molte hanno potuto studiare. Hanno innescato e vissuto di fatto un’occasione di cambiamento all’interno di un sistema tradizionalista di grande rigidità. Ora tutto è stato loro nuovamente sottratto e negato con violenza. Ma quanto avevano sognato e realizzato non può più essere cancellato, né con la paura né con la tortura. Ormai è parte del loro essere. 

Turbano i racconti delle violenze, del carcere, della latitanza, delle torture, ma a impressionare più nel profondo è la resistenza di queste donne, la capacità di andare oltre sé stesse per un “bene” che probabilmente non vedranno realizzato ma rispetto al quale sono disposte anche a mettere a rischio la propria vita. 

Non c’è condanna per le donne le quali, pur trovandosi nella loro medesima condizione, scelgono il silenzio. C’è invece forte risentimento verso coloro che, stando al sicuro, pretendono di parlare al posto loro, che si appropriano della loro voce in modo strumentale, per ambizione o tornaconto personale. 

Le militanti di RAWA – l’Organizzazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane – sono per la gran parte insegnanti. La scuola per le ragazze è il loro campo di battaglia. È questo l’unico canale per raggiungere le donne, parlare con loro, conquistare la loro fiducia. Aprirsi un varco nelle loro vite blindate, far capire che un’altra vita è possibile, che hanno diritti e che possono combattere per realizzarli. RAWA nasce nel 1977, dopo un decennio di libertà, effervescenza intellettuale, nascita di idee e movimenti, soprattutto nelle Università. In quaranta anni hanno sempre combattuto opponendosi ai regimi dell’URSS e all’Armata Rossa, alla guerra e alla violenza dei mujaheddin, al fondamentalismo e alle sue regole, ai talebani e al regime dei signori della guerra e della droga, vetrina dell’occupazione USA-NATO. Affrontare i talebani non è una novità, lo hanno già fatto negli anni Novanta. Forse oggi i talebani sono più forti e più feroci di allora, hanno più alleati. Ma anche le donne lo sono, le giovani donne che hanno creduto e che credono in un altro futuro possibile, e che non si lasceranno “disarmare”.8

Libro

Daniela Meneghini (a cura di), Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane, Jouvence, Sesto San Giovanni (Milano), 2024. Testi raccolti da Zainab Entezar. Rivista da Asef Soltanzadeh. Edizione italiana a cura di Daniela Meneghini.

Titolo originale: Azadi seda-ye zananedarad (The womanly voice of freedom), Bita Book, Danimarca, 2023. 


1L’Afghanistan a tre anni dal ritorno dei Talebani, in ISPI – Istituto per gli Studi di Politica internazionale, 15 agosto 2024.

2P. Macrory, Retreat from Kabul: The Catastrophic British Defeat in Afghanistan, 1842, Lyons Press, Essex, Connecticut, 2007 (prima edizione 1986).

3M. Mondini, Ritirata da Kabul. Un’analisi della sconfitta in Afghanistan, in Il Bo-Live – Università di Padova, 7 settembre 2021.

4G. Breccia, Missione fallita, Il Mulino, Bologna, 2020.

5CIA, The World Factbook – Afghantistan, 01 agosto 2017, disponibile dal 28 agosto 2017 all’indirizzo:https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/af.html

6Minority Rights Group, Afghanistan Overview, Pashtun, luglio 2018, disponibile in data 17 settembre 2019 all’indirizzo:http://minorityrights.org/minorities/pashtuns/

7S. Carradori, A. Pistolesi, Dossier/Iran, Afghanistan e Golfo: i diritti violati delle donne, in Atlante Guerre, 22 novembre 2022.

8C. Cella, Afghanistan: la guerra delle donne, custodi di dignità e speranza, in NAD – Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, n. 1/2022. 


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa Jouvence per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Elisabetta Galimi, Il successo a portata di like

05 mercoledì Mar 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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ElisabettaGalimi, Ilsuccessoaportatadilike, recensione, saggio, SondaEdizioni


«Quando ho pubblicato la mia prima foto su Instagram, non sapevo che stavo accendendo la scintilla di qualcosa di straordinario. Condividevo scorci di vita, istantanee del mio quotidiano, senza immaginare che dietro ogni like, ogni commento, ci fosse un cuore che batteva all’unisono con il mio. E così, giorno dopo giorno, ho iniziato a percepire la magia di questa connessione: decine, centinaia, migliaia, poi milioni di persone che trovavano ispirazione e conforto nelle mie immagini e parole.»

Con queste parole Elisabetta Galimi introduce il suo libro al lettore, raccontando della sua avventura si Instagram iniziata per caso. Un percorso non privo di ostacoli ma costellato di dubbi, critiche e momenti di incertezza.

L’avvento dei social network ha creato effetti concreti sul modo di sentire e di pensare degli utenti, che finiscono per modificare le loro pratiche di interazione sociale usuali. È cambiato il rapporto con sé stessi e soprattutto con gli altri, più diretto ma molto più mediato. Le nuove tecnologie ci consentono di incontrare molte persone ma tendono a togliere il sapore, la genuinità, l’originalità e la freschezza alla relazione interpersonale vera e propria. Ci danno maggiori possibilità di partecipare alla vita sociale condividendo anche luoghi virtuali, ma non è detto che questa partecipazione sia poi effettiva. Internet può rappresentare un mezzo per fuggire dalla realtà quotidiana e rifugiarsi in un mondo illusorio e gratificante, in cui l’elemento virtuale permette di superare le difficoltà che possono caratterizzare le interazioni reali.1

Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione rappresentano tecnologie del sé corporeo e mentale che modificano le pratiche e i contesti attraverso i quali l’essere umano dà forma a sé stesso e costruisce il proprio sapere. Facebook, per esempio, è diventato nell’infosfera – lo spazio globale nel quale si scambiano informazioni – la metafora stessa del sapere inteso come rete di informazioni e conoscenze interconnesse, condivise ed elaborate dalle persone in forma sociale e comunitaria. Il condividere il proprio sapere, le proprie informazioni, opinioni e conoscenze attraverso i social network chiama il singolo a una responsabilità del proprio sé sociale.2

Elisabetta Galimi ha percepito fin dal suo esordio su Instagram il peso della responsabilità per la condivisione social di istantanee della sua esistenza. Emulazione, condizionamento e fraintendimenti sono all’ordine del giorno e in progressivo aumento con l’incremento dei followers. Eppure non è di questo che ha voluto parlare nel suo libro, piuttosto dei risvolti positivi di questa esperienza, dando così origine a una vera e propria guida per diventare influencer di Instagram partendo da zero.

I dati di fatto sono impressionanti. Secondo le ricerche di Marketing Hub, a livello globale, l’influencer marketing vale 21 miliardi di dollari. Le aziende utilizzano in misura sempre crescente questa forma di comunicazione e sponsorizzazione dei propri prodotti perché i consumatori ci credono e la amano. Gli utilizzatori dei social media danno più retta agli influencer che ai giornalisti. Alcuni sono convinti che i brand siano più in condizione dei Governi di risolvere problemi sociali. Diventare influencer oggi è il sogno di molti, giovani e meno giovani.3

Il motivo per cui Galimi ha deciso di scrivere il successo a portata di like è proprio insito in questo comune e diffuso desiderio di diventare influencer, ovvero per rispondere in maniera corale alle tante richieste di informazione e suggerimenti che la stessa riceve via social. 

«Molti non capiscono che dietro ogni profilo di successo esiste un mondo, sconosciuto ai più, composto da procedure che spaziano dalla scelta dell’outfit alla location dove realizzare i contenuti, dallo studio di strategie comunicative e di marketing, mirate alla costruzione di una solida community, all’analisi attiva e costante dei trend e dei mercati, al fine di stare il più possibile al passo coi tempi. Pensa che per costruire un Reel di nemmeno un minuto, o anche solo per scattare una semplice fotografia da condividere come Post, la media di tempo di realizzazione si aggira intorno alle cinque ore.»

Eppure, in base ai risultati dello studio di Maximilian Beichert, dietro il marketing digitale non vi è solo il lavoro di preparazione ma anche il potere nascosto che lega influencer, politica e brand. Nel panorama del marketing digitale, pochi fenomeni hanno dimostrato la stessa capacità di modellare opinioni e spostare l’ago della bilancia dell’informazione pubblica come l’influencer marketing. Se un tempo questo strumento era appannaggio esclusivo delle aziende, oggi rappresenta un’arma fondamentale anche per le campagne politiche, come dimostrato dall’ascesa del movimento Make America Great Again e dall’uso strategico dell’influencer marketing da parte di Donald Trump.4 La Generazione Z, e non solo essa, si affida sempre più ai social per documentarsi anche su salute, benessere e medicina. Questo fenomeno porta con sé vantaggi e sfide: se da un lato gli influencer possono sensibilizzare e avvicinare i giovani a tematiche di interesse sanitario, dall’altro la disinformazione può avere un impatto negativo sulla salute pubblica.5

Il libro di Elisabetta Galimi non affronta, se non marginalmente, questa tipologia di problematiche, soffermandosi invece maggiormente sugli aspetti tecnico-pratici del lavoro di influencer e sul marketing a esso correlato, osservando il tutto sia dal punto di vista dei potenziali “influenzatori” che da quello di aziende e brand. 

Il libro

Elisabetta Galimi con Alessandro Lucino, Il successo a portata di like. Strategie e suggerimenti per guadagnare si Instagram partendo da zero, Sonda Edizioni, Milano, 2024.


1S. Soderini, Lo sviluppo dei social network: fenomeno di socializzazione o alienazione?, in State of Mind di inTHERAPY, 23 novembre 2015.

2E. Isidori, Quando l’educazione è nella rete: per una pedagogia del social networking, in MeTis – Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni – 10 gennaio 2020.

3E. Sassoon, Influencer marketing, e oltre, in Harvard Business Review – Italia, maggio 2024. 

4B. Orlando, Influencer, politica e brand: il potere nascosto dietro il marketing digitale, in UniBocconi.it, 24 febbraio 2025.

5#Formazione Mangiagalli Journal Club 2025,  Social, influencer e informazione scientifica per la Generazione Z, in policlinico.mi.it, 20 gennaio 2025. 


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Addetta Stampa per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Mattia Morretta, Non fu l’amore

27 giovedì Feb 2025

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I nostri antenati amavano e desideravano come noi? È possibile educare all’amore del bene e del vero, per aprirsi alla fiducia e alla speranza, mentre si sgretola il tessuto della vita sociale? Sono alcuni degli interrogativi affrontati in un decalogo di saggi sui molteplici e camaleontici volti della passione: dalle attrazioni fatali ai legami morbosi, dal qualunquismo erotico al sesso mercenario, dall’immaturità affettiva alla violenza di genere. Un’indagine che dal passato arriva al presente e quasi lo travalica verso il futuro. 

«Non fu l’amore, no. Furono i sensi curiosi di noi, nati pel culto del sogno… E l’atto rapido, inconsulto, ci parve fonte di misteri immensi.»1

Il libro si apre al lettore con questa citazione di Gozzano che davvero sembra racchiudere l’essenza dell’indagine compiuta dall’autore, presentata come istantanee dei migliori e dei peggiori profili dei sensi e dei sentimenti, talora brutali e criminali, eppure vagheggiati e romanzati nel nome di forti emozioni e debolezze comportamentali. 

Nessuno come Guido Gozzano ha saputo sedurre e cancellare le tracce della seduzione, stare tra il racconto e la sua negazione, fra gli entusiasmi globali del liberty e il miraggio della libertà, alla fine dei primi dieci anni del secolo, quando tutto pareva possibile.2

«Attrazioni, passioni, legami sottopongono la fragile tela affettiva a tensioni estreme, col rischio di logorarla o lacerarla; solo un’attenta educazione sentimentale può insegnare l’arte di mediare tra poli opposti, di scendere e salire a occhi chiusi la rapida scala della fisicità e della spiritualità, avendo a cuore l’integrità della persona.»

È questo il consiglio iniziale di Morretta, che sembra far appello alla bontà, da sempre vagheggiata, dell’animo umano. Ma poi ecco che l’autore riporta il lettore alla realtà. Con una brutale quanto veritiera citazione di Orazio: «Anche se la scacci col forcone, la natura torna a presentarsi».3 Quasi a voler ricordare a gran voce che la passione e il desiderio non sono solo positività e beneficio e che, spesso, diventano profondità buio mistero inquietudine malvagità. 

Esiste un connubio complesso tra il narcisismo e i disturbi sessuali. Due aspetti psicologici che spesso si sovrappongono e interagiscono tra loro. Il narcisista, inconsapevole di cercare la soddisfazione sessuale solo per se stesso, senza preoccuparsi del piacere dell’altro partner, può rivelarsi egoista dominante e incapace di ascoltare i desideri e le esigenze altrui. Mette spesso in atto anche in campo sessuale una strategia tipica, in cui il sesso viene usato come strumento di manipolazione emotiva e di controllo sull’altro.4 Morretta parte proprio da una critica puntuale sui modelli dominanti che sviliscono la sfera intima con narcisismo esasperato e aggressività per iniziare il suo viaggio attraverso tematiche che spaziano dalle attrazioni fatali ai legami morbosi, dall’immaturità affettiva al disagio giovanile. Un percorso che fa un largo uso di citazioni di scrittori poeti antropologi filosofi e psicoanalisti , quasi a voler dimostrare l’utilità degli studi umanistici nella comprensione della cultura e della stessa società all’interno delle quali questi comportamenti maturano e si sviluppano. 

Non bisogna però incorrere nell’errore di pensare che solo questi comportamenti “estremi” siano un problema. Morretta sottolinea fin dalle prime pagine del libro quanto, in realtà, ciò rappresenti solo la punta di un iceberg in continua espansione. L’uomo si sa è un animale gregario e collettivo, per evitare il senso di prigionia della solitudine si aggrappa all’adesione corporea e verbale ai molti tra cui vive, «mimetismo di sopravvivenza e travestimento difensivo creano tuttora le condizioni per una normalità “apparente”, auspicata e premiata dai modelli del momento». Perciò il “diploma di abilitazione al sesso” si esibisce in società e online con pose ammiccanti o allusive, dicendo o tacendo i medesimi contenuti dei tempi della censura del discorso pubblico. I sentimenti alti non eliminano o neutralizzano quelli bassi, chiunque resta capace di provare e desiderare il peggio nonostante l’elevazione morale cui tende. 

Elemento fomentatore di angosce e paure ancestrali, proteiforme ma onnipresente, fenomenicamente accidentale ma noumenicamente strutturale, a cui possiamo ribellarci e contro cui possiamo lottare, ma che non riusciremo mai a sconfiggere definitivamente, il male (nelle sue molteplici figure) costituisce già da sempre l’elemento propulsore non solo di ogni tentativo magico o tecnico-scientifico di controllo della natura, ma altresì di ogni meditazione e invocazione religiosa, nonché di ogni interrogare e pensare filosofico. 

Certo è che l’uomo non solo è spesso preda di un’incredibile brama di distruzione, ma si compiace altresì intimamente dell’altrui sofferenza. 

Adam Smith e Immanuel Kant hanno offerto dei significativi spunti di riflessione individuando nell’autoinganno una manifestazione del male legata all’affermazione egoistica dell’amore di sé.5

Per Smith, l’autoinganno è l’origine di metà dei turbamenti della vita umana: impedisce di giudicare con imparzialità la nostra condotta, distorce la visione morale di noi stessi e influenza negativamente la capacità di deliberazione e di giudizio.6

L’ampia disponibilità di conoscenze storiche e scientifiche sembrano proprio non bastare, sottolinea l’autore con una velata amarezza, anzi soccombono sotto il peso dei luoghi comuni che fanno del sesso e del sentimentalismo beni rifugio esenti da nocività e negano la necessità di cautele pratiche e concettuali. Per le devianze come anche per le malattie sessualmente trasmissibili, troppo spesso sottovalutate o, addirittura, sconosciute. E allora Morretta si chiede, e bisognerebbe farlo tutti, se non stiamo facendo passi da gigante ma all’incontrario, a ritroso verso una società sempre più brutale, violenta e aggressiva. Fragile. Impreparata. 

Il libro

Mattia Morretta, Non fu l’amore. I nuovi volti della passione, Gruppo Editoriale Viator, Milano, 2024

1G. Gozzano, Il buon compagno, 1910.

2A. Rollo, Guidogozzano, centoquarant’anni dopo, Maremosso, 19 dicembre 2023.

3Orazio, Epistole, I).

4E. Stopani, Narcisismo e sessualità: una complessa relazione bidirezionale, IPSCO – Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva: https://www.ipsico.it/news/narcisismo-e-sessualita-una-complessa-relazione-bidirezionale/

5R. Garaventa, O. Brino, (a cura di) Il male e le sue forme. Riconsiderazioni moderne e contemporanee di un problema antico, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi), 2017.

6A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, 1790.


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25 martedì Feb 2025

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Carocci, GiorgioZanchini, Laculturaneimedia, recensione, saggio

Quotidiani e riviste sono stati lo strumento principale di chi – come l’autore – si è formato nel Novecento, in assetti analogici, e non è semplice per quelle generazioni confrontarsi con la metamorfosi del giornalismo, viverla e comprenderla in tutta la sua radicalità. Capire sino in fondo quanto la rivoluzione digitale sia stata un vero cambio di paradigma. Il cuore del sistema oggi è la rete. Il giornalismo in generale per cui anche quello culturale è una sorta di ecosistema in cui c’è uno scontro continuo tra giornalisti lettori spettatori e ascoltatori, con quest’ultimi che da almeno un ventennio sono sempre più produttori di notizie. La sfera pubblica è sempre più densa, i media sempre più partecipativi. Chi produce e immette notizie anche culturali nella rete cerca il coinvolgimento dell’utente, la costruzione di comunità, la fidelizzazione di clienti. Per Zanchini quello che è cambiato è il concetto di cultura. Di conseguenza anche quello di giornalismo culturale. 

Il concetto di cultura è cambiato soprattutto nel secondo dopoguerra, andando a interessare attività umane che solo qualche anno prima non venivano ritenute legittimate a far parte della famiglia dell’arte in senso tradizionale. Per il sistema mediatico ciò ha significato una crescita quasi esponenziale degli spazi dedicati alle attività che occupano appunto gli esseri umani nel tempo libero, e ai protagonisti di questi universi. 

La rivoluzione digitale, con la diffusione pervasiva di internet e delle sue innumerevoli applicazioni, ha prodotto profondi cambiamenti non solo nelle nostre abitudini quotidiane e nei più disparati comportamenti individuali e collettivi, ma anche nel campo della cultura, in ragione dell’uso ormai comune delle tecnologie anche per la produzione e la trasmissione del sapere. È facile osservare come i media digitali non sono solo strumenti grazie ai quali comunicare, informarsi, entrare in relazione con gli altri e intrattenersi. Il modo in cui vengono svolte queste attività determina anche, assieme a tutte le molteplici esperienze della vita, l’organizzazione stessa delle strutture percettive e cognitive attraverso le quali vengono elaborate le rappresentazioni mentali. 

Molti studi hanno messo in luce come, con la diffusione del web, si rafforzano le capacità individuali di scansione veloce e di selezione, mentre si indeboliscono quelle di attenzione, concentrazione e riflessione, elaborazione logica, attitudine critica, legate precipuamente alla lettura sui mezzi di stampa. 

Quando i messaggi passano attraverso lo schermo, inevitabilmente gli elementi emotivi hanno la meglio su quellicognitivi, la reazione immediata come riflesso condizionato (dunque come pregiudizio) ha il sopravvento sulla riflessione mediata di tipo intellettuale (il giudizio), la percezione del reale come istante presente (affermazione del sé) prende il posto della elaborazione del proprio essere nel tempo (responsabilità verso gli altri). In sintesi, nelle nuove forme digitali di fruizione culturale – che dovrebbero sancire il passaggio da una “intelligenza sequenziale” a una modalità percettiva e conoscitiva basata sulla simultaneità e l’ipertestualità1 – sembra affermarsi il primato dell’interruzione rispetto alla concentrazione, della frammentazione rispetto alla continuità, del tempo presente e non della temporalità sedimentata, dell’attualità sull’esperienza. Non si tratta di un semplice cambiamento dei consumi culturali, dunque, bensì dello stile conoscitivo stesso, della tecnica della conoscenza.2

Eppure, sottolinea Zanchini, la frammentazione delle informazioni e la rifeudalizzazione dei saperi erano i due timori principali sino a qualche anno fa. Oggi le preoccupazioni sembrano orientarsi verso i rischi di strapotere dei grandi players globali. Google, Amazon e Meta sono diventati fra i grandi mediatori dell’informazione culturale, con una funzione non dissimile a quella che svolgevano un tempo le poche riviste e i giornali. 

I supporti tradizionali per produrre conservare trasmettere ed elaborare il sapere risultano progressivamente soppiantati dai nuovi dispositivi digitali, secondo un processo che si accompagna alla crescente disaffezione nei confronti della lettura tradizionale. Con ciò cambiano anche le risorse stesse della cultura: ora i testi diventano “aperti”, cioè non più completi e definitivamente compiuti, protetti, vincolati a una inequivocabile imputazione di responsabilità dell’autore, bensì continuamente soggetti a possibili integrazioni, revisioni, manipolazioni. Il che implica una metamorfosi del concetto stesso di autore, che ora diviene plurimo e anonimo. 

C’è da aggiungere che tendenzialmente all’ubiquità dei media digitali corrisponde la prassi del “nomadismo” mediatico: si può saltare da un mezzo all’altro con grande fluidità, i canali di accesso risultano moltiplicati, si afferma uno schema di esplorazione conoscitiva “per deriva”, in cui la gerarchizzazione delle fonti appare superata, perché conta più il gioco di rimandi, così come la prassi dell’autoassemblaggio delle nozioni mette in crisi la tradizionale autorevolezza dell’autore. Questa tendenza rende sempre più marginale la funzione di “filtro” delle informazioni e delle nozioni svolta dalle aziende editoriali e dalle istituzioni culturali. Fino ad arrivare alla possibilità – complici gli algoritmi di Google – di costruirsi un percorso talmente personale da rendere i media non delle finestre da cui affacciarsi sul mondo, bensì degli specchi in cui ammirare un paesaggio fatto a propria immagine, in cui sono riflesse solo notizie e nozioni che si adeguano alle nostre convinzioni e aspettative, sancendo così il trionfo dell’autoreferenzialità.3

Zanchini sottolinea come oggi, negli ambienti della cybercultura, lettori ascoltatori scrittori giornalisti editori podcaster e influencer non ricoprano più ruoli definiti e circoscritti. Tutto è diventato più fluido, permeabile, sinergico, collaborativo, tra online e offline si assiste non alla semplice sostituzione di un sistema culturale con un altro, quanto alla compresenza di più poli.

Il giornalismo culturale a opera degli intellettuali diviene un luogo di osservazione non secondario per cogliere gli snodi che caratterizzano l’articolato rapporto fra approfondimento scientifico ed esigenze divulgative. Ogni mezzo di comunicazione, anziché essere neutro, riflette i caratteri del sistema dei media nel quale ha origine, implica un proprio linguaggio, particolari strategie stilistiche, gabbie retoriche che hanno molto a che fare con la resa comunicativa dei contenuti. La forma-giornale, in particolare, per le esigenze mediali e di stile che la caratterizzano, rappresenta un prodotto estremamente complesso. Il giornalismo culturale rappresenta una sfida per gli intellettuali che abbracciano questa pratica, che porta a offrire al mondo la propria riflessione e che impone, per questo, un’interrogazione sul senso profondo del proprio lavoro, sulla funzione che può svolgere, sugli effettivi stimoli che può fornire alla produzione culturale in senso ampio. Si tratta non solo di un esercizio di stile, ma di un esercizio di pensiero che rimanda alla valenza etica del lavoro dell’intellettuale, qualificandolo come mestiere concreto in grado di suscitare interesse e motivo di crescita per un pubblico vasto.4

Ed è esattamente su queste tematiche che Giorgio Zanchini ne La cultura nei media invita alla riflessione per un sistema che ormai si articola quasi indistintamente tra l’online e l’offline ma che va, in ogni caso, a incidere sulla formazione culturale e sociale delle persone e, di rimando, sul loro essere cittadini di un mondo che, per quanto sembra spostarsi sempre più nel virtuale, rimane comunque concreto e reale. 

Il libro

Giorgio Zanchini, La cultura nei media. Dalla carta stampata alla frammentazione digitale, Carocci Editore, Roma, 2024.


1R. Simone, Presi nella rete. La mente si tempi del web, Garzanti, Milano, 2012.

2M. Valerii, M, Conti Nibali, L. Lapenna, G. Addonisio, La trasmissione della cultura nell’era digitale. Rapporto finale, Censis/Treccani, Roma, 2015.

3Rapporto Censis/Treccani, op.cit.

4G. Mazzoli, Il giornalismo culturale di Carlo Bo. Il mestiere di intellettuale fra critica e divulgazione, su Journals UniUrb, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Urbino, 2005. 


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Carocci Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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