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Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

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Nobili, Grimaldi, Coppola, Abitare città sicure. Politiche strumenti metodi

15 venerdì Nov 2024

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Abitarecittàsicure, FrancescaCoppola, FrancoAngeli, GianGuidoNobili, MicheleGrimaldi, recensione, saggio

Lo spazio pubblico ben progettato corrisponde ai bisogni dei cittadini, degli abitanti e degli utilizzatori. La sua sicurezza è affidata a molteplici figure professionali e a mestieri che contribuiscono a definirne la pianificazione, il funzionamento o l’animazione. Certi spazi pubblici, a causa di una pianificazione inadeguata o di un’occupazione non condivisa, sono esposti a severi problemi di sicurezza, inciviltà e criminalità, oppure generano una sensazione di insicurezza e sono fonti di conflitto tra i loro utilizzatori. La domanda di protezione avanzata dai cittadini richiede dunque di prendere in seria considerazione le sfide in materia di sicurezza fin dal momento della progettazione dello spazio pubblico, studiare la prevenzione in termini di pianificazione e prevedere a tal fine un dialogo tra il progettatore e l’utilizzatore/gestore dello spazio, fondandolo sull’idea della condivisione e dell’appropriazione dei luoghi.

La presenza di fenomeni di criminalità e, ancor di più, di inciviltà negli spazi pubblici determina un impatto molto forte sul senso di insicurezza dei cittadini. Per le città del XXI secolo, la gestione di tali spazi nell’obiettivo di diminuire l’allarme e la paura rimane una sfida prioritaria. La risposta più utilizzata per ridurre la criminalità, la violenza e l’insicurezza, è stata troppo spesso limitata all’azione dei servizi di polizia, alla giustizia penale e al carcere. 

La società è convinta che la gente che entra in carcere ne esca migliore. Spesso però è l’esatto opposto. Cosa significa riabilitare una persona facendola tornare quella di prima, se essere quella persona vuol dire vivere in uno stato di povertà (educativa oltre che economica), razzismo, disoccupazione, precarietà di alloggio e/o violenza? Può davvero una persona essere riabilitata se non è mai stata “abilitata” o resa adatta o in grado di vivere in società? Numerosi studi dimostrano che la migliore forma di riabilitazione in carcere è l’istruzione.1

L’istruzione dovrebbe rappresentare un’opportunità formativa capace di offrire al detenuto gli strumenti per ripensare la propria realtà e la “speranza” che potrà o saprà riprogettarsi in modo nuovo e rendere significativa la propria presenza al mondo.2 Il diritto all’istruzione assume rilievo in ambito penitenziario sotto un duplice profilo: da un lato, quale diritto costituzionalmente riconosciuto alla generalità dei consociati; dall’altro quale elemento del trattamento penitenziario finalizzato al reinserimento sociale della persona in vinculis.3 Le persone detenute che accedono ai corsi, e gli stessi corsi, sono nel tempo in costante aumento. 

Il bisogno di scuola è innegabile, basta analizzare i dati sulla scolarizzazione per rilevare quanto influisca lo studio sul percorso deviante; troviamo analfabeti, analfabeti di ritorno e sempre più stranieri, quindi, la popolazione carceraria di età adulta è in maggioranza connotata dal basso grado culturale e di scolarizzazione, spesso appartenente a insiemi subculturali specifici rappresentati dalle organizzazioni criminali, e non solo. Nel carcere dove entra la “Scuola”, la logica dell’istituzione totale cede il passo a quella educativa-formativa, per dare vita a una partecipazione corale dentro e fuori dalle mura, rendendo credibile il trattamento ri-educativo.4

Gli amministratori locali sono chiamati dai cittadini a proporre credibili strategie preventive, che devono necessariamente basarsi su un lavoro congiunto di équipe pluridisciplinari, sulla collaborazione tra chi progetta e chi gestisce i diversi luoghi di una città, e sul coinvolgimento degli attori delle politiche di sicurezza e di residenti e utilizzatori. L’urbanistica e l’architettura hanno del resto un impatto riconosciuto sulla sicurezza: possono essere strumenti per risolvere conflitti esistenti, evitare l’insorgere di problemi futuri, ricucire le fratture presenti e creare una relazione di reciprocità tra i diversi spazi della città. 

Rischio e fiducia si compenetrano e assumono significati particolari alla luce della riflessività della vita sociale moderna perché, come osserva Giddens, in condizioni di modernità la fiducia esiste nel contesto della generale consapevolezza che l’attività umana è socialmente creata piuttosto che essere data dalla natura delle cose o determinata dall’influenza divina.5

Per Platone l’uomo non può ricorrere, per garantirsi la sopravvivenza, a un elaborato sistema di istinti innati, ma deve far conto solo sulla sua azione intelligente, sulla sua “sapienza tecnica”. E anche Kant riconosce all’essere umano da un lato la carenza istintuale e dall’altro l’autonomia della ragione nel ricavare tutto da se stessa. L’essere umano risulta, quindi, biologicamente inadatto all’ambiente, in quanto la sua dotazione organico-istintuale è “primitiva”, “incompiuta”, “non specializzata”. Inoltre, poiché non dispone di meccanismi selettivi che entrano automaticamente in funzione secondo le circostanze, è esposto a una “profusione di stimoli” da cui sono esonerati gli animali, sensibili soltanto a quegli stimoli che corrispondono ai loro istinti specializzati. Ma a questa concezione dell’uomo come essere carente, che ce lo presenta in maniera negativa come “un errore della natura” o come “la negazione della finalità naturale”, segue il riconoscimento positivo che, nonostante tutte le sue carenze, primitivismi e inadeguatezze, l’uomo è riuscito a sopravvivere, adattandosi all’ambiente: privo di un suo habitat specifico, ha fatto di qualsiasi ambiente il suo ambiente.6

L’Alto Medioevo coincide con il periodo di massima decadenza economica e sociale. Alla società profondamente urbanizzata dell’Impero se ne sostituisce un’altra in cui la città perde il suo ruolo dominante. Il centro della vita economica è la curtis, la più grande unità produttiva autosufficiente, capace di svolgere quasi in completa autonomia le funzioni di produzione e consumo necessarie alla sussistenza. Dopo l’anno Mille, durante il Basso Medioevo, si registra una rapida ripresa economica che avrà come conseguenza un più diffuso benessere e notevoli trasformazioni sociali e culturali. Le città cominciano a ripopolarsi, si ampliano e diventano i nuovi centri della vita economica, sociale e politica.7

In un contesto altamente globalizzato e interdipendente, la nostra consapevolezza del rischio che determina le nostre percezioni di insicurezza, è influenzata da macro-eventi, come la presenza di guerre sia vicine sia lontane, e da ricorrenti crisi, siano esse di natura sanitaria, climatica, economica o politica. L’insicurezza, però, è anche frutto di micro-eventi, e quindi anche del nostro quotidiano abitare urbano. Negli ultimi decenni, la domanda di maggiore sicurezza (di sentirsi più sicuri) negli spazi urbani è entrata con forza nel dibattito pubblico e negli ambiti di policy. Questa domanda si è spesso intersecata con l’esigenza di migliorare la qualità della vita. 

Contrariamente alla narrazione diffusa fatta di case a un euro e lavori agili in contesti tra l’idilliaco e l’agreste, la reale vita nei borghi rurali italiani, per esempio, è diversa, fatta di rinunce e compromessi.8

Molte amministrazioni hanno promosso un’idea unitaria e monolitica di spazio urbano, in cui solo le aspettative comportamentali ed estetiche dei più fortunati hanno trovato giusto riconoscimento. Ma le città trascendono l’idea di “ordine” imposta dall’alto e coniugano diverse esperienze, modi di vivere e di interagire con l’urbano, e anche modi di comprendere l’urbanità.

Viviamo oggi in una delle società più sicure della storia dell’uomo ma, nonostante questo, il senso di insicurezza che avvolge le nostre vite pare essere progressivamente crescente. Le nuove ansie collettive sono collegate alla crisi moderna e configurano una incertezza esistenziale tipica dell’uomo moderno occidentale. La risposta locale ai problemi della sicurezza può essere letta come conseguenza della condizione sociale contemporanea: l’incertezza nei confronti del futuro (insecurity), l’incertezza sulle scelte da compiersi (uncertainty) che hanno origine in luoghi remoti, fuori dalle possibilità del controllo individuale e della stessa governance locale e nazionale. Da qui la tendenza a concentrarsi verso obiettivi più vicini, verso i timori nei confronti della incolumità fisica (unsafety), quel genere di timori, che a sua volta si condensa in spinte segregazioniste/esclusiviste, portando inesorabilmente a guerre per gli spazi urbani. 

La letteratura sociologica relativa alla paura della criminalità ha evidenziato come il senso di insicurezza urbana sia relativamente indipendente dal rischio di esposizione a eventi criminali, ma sia spesso legato a percezioni di disordine, caos e degrado. La maggiore diffusione dell’informazione e le caratteristiche stesse della comunicazione contemporanea (insistenza sull’immagine, stili semplificatori e spesso sensazionalistici, tendenza alla spettacolarizzazione) creano una relazione del tutto particolare tra cittadini e spazi pubblici, in cui nella formazione del giudizio conta sempre meno il peso dell’esperienza diretta. 

Il nuovo trend planetario che si è affermato dai primi anni Novanta è la crescita inarrestabile di quartieri esclusivi, in particolare alle periferie delle città. Il mondo va verso comunità “blindate” e la conseguente segmentazione e militarizzazione delle città per far fronte a una criminalità predatoria e violenta. Si moltiplicano i metal detector agli ingressi di edifici sensibili o le telecamere a circuito chiuso, che ormai costituiscono l’arredo urbano della contemporaneità. Si tratta di una forma di autodisgregazione urbana che non crea una divisione tra i buoni e i cattivi, ma tra chi possiede e chi non possiede determinate opportunità economiche e di status.

Nel mondo occidentale, gli anni Settanta e Ottanta del Novecento furono caratterizzati da concomitanti fenomeni di deindustrializzazione, aumento della criminalità, moltiplicazione delle dismissioni immobiliari nelle grandi città, dispersione della forza-lavoro, nonché dalla crescita del settore dei servizi alle persone e dalla informatizzazione della produzione capitalistica. Per rendere le città più accoglienti e liberarle delle ingombranti eredità della fase di deindustrializzazione, furono messi in campo progetti di rigenerazione urbana volti, da un lato, a rimuovere la minaccia del crimine, dall’altro, a mettere a frutto il potenziale di consumo e intrattenimento offerto dalle città in una varietà di spazi urbani come lungomari, centri storici, aree ex-industriali e quartieri bohemien, con la mobilitazione di strategie discorsive sulle virtù della creatività, della convivialità, dell’ospitalità allo scopo di attrarre investimenti e consumatori. L’idea di città creativa prende forma quindi nell’ambito di esperimenti di rigenerazione fisica degli ambienti urbani messi in campo in situazioni di deindustrializzazione manifatturiera e vera e propria “crisi urbana”. Nei primi anni Duemila, il patto sociale fondato sulla creatività sembra candidarsi a diventare il principio organizzatore delle società capitalistiche contemporanee. Lungi dal costituire un repertorio stabile di istituzioni, organizzazioni e relazioni contrattuali, la governance urbana è utilizzata quale base operativa, duttile e flessibile, volta a trasformare i residenti urbani in “cittadini” in grado si provvedere da sé al proprio benessere e di agire responsabilmente e creativamente nella sfera pubblica. A partire dalla crisi del 2008 il modello di città socializzata incarnato dalla città creativa inizia a mostrare segni di esautoramento.9

Negli anni scorsi, le città si sono trovate al centro della dialettica tra politiche della crescita e politica dell’austerità che ha caratterizzato le economie dei paesi occidentali a partire dalla crisi del 2008. La proliferazione di un numero crescente in grandi centri urbani e metropolitani di imprese start-up tecnologiche è particolarmente esemplificativo del “ritorno alla vita” delle città contemporanee e con esse del capitalismo globale, considerata la diffusione del fenomeno in diverse aree del mondo. Le economie urbane start-up sono dunque rivelatrici del movimento di rembeddedness, ossia di nuovo radicamento, del capitalismo globale negli ambienti urbani. I sentimenti di euforia e comunanza che contraddistinguono le modalità di rappresentazione delle comunità di imprenditori tecnologici sono rivelatori del più ampio sforzo di rianimazione del capitalismo come “industria della felicità” in atto nelle società occidentali. Per le imprese start-up tecnologiche così come per le grandi imprese del “capitalismo delle piattaforme” i centri urbani e metropolitani non offrono soltanto ambienti istituzionali e socio-culturali dinamici dove potersi affermare, ma funzionano anche da veri e propri “laboratori viventi” dai quali estrarre un’ingente massa di dati relativi ai comportamenti, alle abitudini, alle preferenze di consumo e ai movimenti delle persone che vi abitano o vi transitano. Per cui si può affermare che il capitalismo utilizza le “crisi organiche” come occasioni per ricercare un nuovo radicamento nelle relazioni sociali, reinventando la propria promessa di felicità e le relative forme di vita. Le città hanno acquistato o riacquistato centralità in questo quadro perché offrono il capitale cognitivo, comunicativo e relazionale necessario a realizzare un siffatto modello sociale. Allo stesso tempo, le città sono spazi persistentemente caratterizzati da diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e processi di esclusione sempre meno alleviati dall’intervento dello Stato e delle altre istituzioni pubbliche o semipubbliche preposte alla fornitura dei servizi di protezione sociale. In tale contesto, ancora resta da comprendere il reale effetto che ha avuto l’avvento delle nuove economie urbane a base tecnologica sulla vita delle persone.10

Negli ultimi dieci anni si è passati, in molti paesi occidentali, dal paradigma della prevenzione del crimine a quello della sicurezza collettiva. Il primo vedeva innanzitutto lo Stato quale ente monopolizzatore della questione di ordine pubblico. Il paradigma della sicurezza diviene modello locale, vicino alle aspettative dei cittadini, e non astrattamente vincolato a politiche generali di cambiamento dell’uomo e delle istituzioni sociali. La teoria del modello criminale (crime pattern theory) spiega il coinvolgimento nell’attività criminale attraverso lo studio della conformazione geografica dell’ambiente, e quindi attraverso lo studio della distribuzione spaziale delle attività criminali. Questa teoria fa da sfondo a molti studi riguardanti l’impatto di un determinato design urbanistico a politiche di prevenzione della criminalità. Questa prospettiva che fa da sfondo alla cosiddetta prevenzione ambientale prende in esame i “nodi” (stazioni, fermati degli autobus, dislocamento delle abitazioni pubbliche, scuole, luoghi di svago) e i “percorsi” urbani che portano gli individui a spostarsi ai margini delle aree, di lavoro scolastiche ricreative, frequentate da soggetti che spesso non si conoscono. La teoria del modello criminale risente delle elaborazioni evidence-based di due ricercatori, Paul e Patricia Brantingham i quali sostengono in via molto generale come i luogo possano generare e attrarre criminalità. 

Un’altra serie di contributi interessanti riguardanti il rapporto tra urbanistica e architettura viene dagli studi di Psicologia Ambientale. In particolare, per quanto attiene al senso d’insicurezza si fa riferimento a due modelli teorici mutuati da questa specifica branca della psicologia: la territorialità e il setting comportamentale. La prima è definita come un’area geografica che è in qualche modo personalizzata o contrassegnata e difesa dall’invadenza altrui attraverso segni di demarcazione sia fisici che sociali. Il secondo concetto definisce invece uno specifico luogo-situazione le cui caratteristiche fisiche o sociali stimolano particolari schemi di comportamento. Studiare questi luoghi e le loro caratteristiche può rivelarsi più utile per predire i comportamenti delle persone che lo studio delle loro caratteristiche personali, in quanto le strade e gli isolati costituiscono spazi definiti che possono essere visti come luoghi che sviluppano comportamenti e programmi di relazioni stabili.11

Le città proibite si moltiplicano come esito dei processi di individualizzazione e di dissolvimento dei legami sociali. Si tratta di comunità fluide, flessibili, basate su impegni contingenti e non su relazioni a lungo termine. La vita in questi contesti non sembra accompagnarsi a un miglioramento per la comunità dei residenti stessi: non ci sono evidenze di un aumento del capitale sociale interno e della costituzione di comunità più unite o sicure. Per molti studiosi, l’effetto di queste soluzioni urbanistiche potrebbe essere, paradossalmente, proprio la paura. Questo perché la diffusione di zone protette determina una frammentazione del tessuto urbano che si traduce in una riduzione degli spazi pubblici di fruizione e d’interazione. L’idea più suggestiva di vicinato è quella in cui la costante interazione tra numerosi abitanti diviene fonte di rassicurazione. 

L’ossessione per la sicurezza tradisce un rifiuto della vita, mentre dichiara di proteggerla pretendendo di azzerare il rischio. Esprime una diffidenza e un rifiuto totale per tutto ciò che sfugge al controllo. Poiché, come insegna la psicoanalisi, per il nevrotico vale solo la ripetizione e ciò che è conosciuto: l’inedito, tutto ciò che può interferire con le abitudini, diventa intollerabile.12

Sono diversi gli studiosi che legano il futuro delle città alla necessità di un rovesciamento della spinta regressiva verso la sicurezza. 

L’universo relazionale che caratterizza il rapporto con gli altri alimenta un sentimento di sicurezza ontologico.13 Giddens enfatizza il rapporto tra sicurezza ontologica e il valore della tradizione, un processo di ritrovamento di sé stessi che vive nella tensione tra pulsione all’autenticità e apertura al mondo determinata dai sistemi astratti che ci circondano e definiscono. 

L’alterità è esperita sempre in un contesto sociale e culturale, che influenza il rapporto interpersonale introducendo elementi di regolazione e, in molti casi, di ineguaglianza. In sostanza, l’incontro con l’Altro è una relazione nella quale i soggetti entrano avendo già, in modo reciproco, una rappresentazione dell’Altro che deriva dalla propria formazione culturale e da esperienze pregresse. In essa influiscono – in modo consapevole e anche inconsapevole – immagini, attese, preoccupazioni e talora anche pregiudizi. Tutti questi aspetti interagiscono con le dinamiche endogene e propriamente psicologiche della relazione, facendo sì che ciascuna di esse sia dotata di grande complessità e, spesso, di un qualche grado di ambiguità. Il richiamo all’identità ha un effetto negativo non solo nei confronti dell’Altro esterno, ma anche nei confronti delle differenze interne a quella che viene presentata coma una “nostra” identità. L’identità ci impone un certo modo di essere e di pensare. La rappresentazione dell’Alterità come espressione di una supposta partizione dell’umanità in comparti omogenei è, prima di tutto, espressione di rapporti di potere, di processi di dominazione e subordinazione, che portano a una vera e propria costruzione sociale dell’Altro, ovvero a una sua manipolazione in ambito socio-politico come pure in quello culturale, psichico e persino corporeo, tendenti a far corrispondere l’Altro alla rappresentazione che ne ha il detentore del potere.14

Rischio e sicurezza non sono dati oggettivi in sé, ma percezioni culturalmente connotate, potenziali contenitori di significati diversi quando non contrapposti, valori al centro di processi di negoziazione quando non di scontro. Il fatto che il tema della sicurezza sia ab origine un tema urbano, chiama direttamente in causa l’interesse dell’antropologia urbana: è lecito chiedersi quale idea di città vi sia al fondo di questa questione, quali le ragioni, storiche e ideologiche, che giustificano il binomio città/insicurezza, tale da averlo reso ormai autoevidente, quali le ragioni che di conseguenza hanno reso il tema della sicurezza centrale nell’agenda amministrativa di molte città. Circa l’associazione tra città e insicurezza, l’immagine della città come contesto problematico, minaccioso, potenziale coacervo di pericoli, può in qualche modo essere considerata un filo rosso della letteratura “classica”.15 Va sottolineato come al fondo vi sia un processo di selezione operato dalla sociologia della devianza, che si ferma ai sentimenti di insicurezza e tralascia invece, nel più ampio quadro della sociologia classica, le problematiche del conflitto sociale e del cambiamento e il loro legame con la devianza, finendo col generare una vera e propria sociologia della paura.16

Il paradosso attuale è che le nuove élite globali hanno operato un crescente distacco dalla località in senso stretto: esse si muovono in uno spazio globale che sposta anche l’origine o la controllabilità degli eventi su un piano “globale”. Al contempo le città divengono sempre più le “discariche” della globalizzazione, i terreni su cui cortocircuitano i problemi della globalizzazione, mentre l’origine di questi esula in maniera crescente dai confini urbani: i cittadini, con i loro rappresentanti, si trovano quindi davanti al difficile compito di trovare soluzioni locali a contraddizioni globali. Come conseguenza della costante crescita dei rischi su scala globale, si accresce la tendenza a convogliare i problemi esistenziali dell’endemica insicurezza tipica dell’età tardo-moderna nella sola preoccupazione per le garanzie della sicurezza personale.17 Per cui, la questione della sicurezza urbana, soprattutto nei termini che assume oggi di difesa da rischi sociali, sembra potersi leggere proprio come una specifica intersezione tra globale e locale: cioè la sicurezza diviene una risposta locale all’incremento della società del rischio, sempre più globale e diffuso, a fronte del quale un ampliamento delle politiche di sicurezza agisce su ciò che emerge nell’immediato. 

Molti degli interventi urbanistici finalizzati alla sicurezza non fanno altro che riprodurre i fossati e le torri difensive medievali, e mirano a dividere gli abitanti per rispondere a quella mixofobia che costituisce la reazione oggi più diffusa alla varietà di tipi umani che affolla le città.18

Le città del passato, con le loro mura e la loro vita sociale, rappresentavano un luogo di maggiore tranquillità e sicurezza rispetto all’incertezza e i pericoli delle campagne. Negli ultimi decenni si è assistito a un ribaltamento: la sensazione di pericolo è stata identificata con la città, mentre le zone rurali sono state investite di un immaginario di pace e tranquillità. 


Il libro

Gian Guido Nobili, Michele Grimaldi, Francesca Coppola (a cura di), Abitare città sicure. Politiche, Strumenti, Metodi, Franco Angeli, Milano, 2024.


1V. Law, Le prigioni rendono la società più sicura. E altri venti miti da sfatare sull’incarcerazione di massa, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2023.

2R. Caldin, Università e carcere: una sfida pedagogica, in V. Friso, L. Decembrotto (a cura di), Università e carcere. Il diritto allo studio tra vincoli e progettualità, Edizioni Guerini, Milano, 2018.

3A. Maratea, Il diritto all’istruzione in carcere tra (in)effettività e prassi problematiche: uno sguardo all’istruzione universitaria nelle carceri per adulti e secondaria negli istituti penali per minorenni, in Osservatorio Costituzionale – AIC Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Fasc. 3/2023.

4C. Cardinali, R. Craia, Istruzione e ri-educazione: quale ruolo per la scuola in carcere?, in Formazione & Insegnamento XIV – 2 – 2016.

5S. Gherardi, D. Nicolini, F. Odella, Dal rischio alla sicurezza: il contributo sociologico alla costruzione di organizzazioni affidabili, in Quaderni di Sociologia, 13 – 1997.

6M.T. Pansera, Natura e Cultura in Arnold Gehlen, in Il tema di B@bel, RomaTre Press, 2020.

7R. Zordan, Lettura Oltre. Letteratura. Teatro, Fabbri Editori, Milano, 2022.

8A. Rizzo, I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, Il Saggiatore, Milano, 2022.

9U. Rossi, Biopolitica della condizione urbana: Forme di vita e governo sociale nel tardo neoliberalismo, in Rivista Geografica Italiana, 126 (2017).

10U. Rossi, op.cit.

11V. Mastronardi, S. Ciappi, Urbanistica e Criminalità (Parte Prima). Alle origini di un rapporto, in Urbe et Ius – Rivista de Estudios de Criminología y Ciencias Penales,  2020.

12M. Magatti, Sicurezza/Insicurezza: come si resiste alla città, in P. Piscitelli (a cura di), Atlante delle città. Nove (ri)tratti urbani per un viaggio planetario, Feltrinelli, Milano, 2020.

13A. Giddens, The consequences of modernity, Oxford Polity Press, Oxford, 1990.

14A. Mela, Alterità e transculturalità, 2023.

15F. D’Aloisio, Sentirsi insicuri in città. Etnografia e approccio antropologico al problema della sicurezza urbana, in M. Callari Galli (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi Universitaria, Rimini, 2007.

16V. Ruggiero, I vuoti delle politiche di sicurezza, in R. Selmini, La sicurezza urbana, Il Mulino, Bologna, 2004.

17Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 2001.

18F. D’Aloisio, op.cit.



Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Franco Angeli Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Domenico Cosenza, Clinica dell’eccesso. Derive pulsionali e soluzioni sintomatiche nella psicopatologia contemporanea

20 venerdì Ott 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DomenicoCosenza, FrancoAngeli, Laclinicadell'eccesso, recensione, saggio

Nel mondo contemporaneo l’eccesso si affranca dal territorio dell’effrazione della legge e della trasgressione per presentarsi in forma sempre più “ordinaria” nelle diverse varianti psicopatologiche del senza-limite.

L’eccesso ha a che fare con il nucleo reale della pulsione, con la sua dimensione di godimento irredimibile integralmente dal simbolico e dall’azione della parola. A questo livello, l’eccesso costituisce il cuore della clinica psicoanalitica come tale, intesa come trattamento del nucleo fuori-senso della pulsione. 

La dimensione contemporanea del sintomo è caratterizzata dalla spinta verso un godimento non parziale, non in perdita – come è proprio quello del nevrotico -, piuttosto tendente alla propria infinitizzazione. E quindi esposto agli effetti più devastanti della pulsione di morte. 

Tossicodipendenze, anoressia, disturbi alimentari, e altre forme di dipendenza patologica pervasiva proprie della società contemporanea, dominata dalla spinta senza limite al godimento, sono indagate a fondo dall’autore in un libro che è sì indirizzato a un target specifico di lettori, ma per certo utile anche a un pubblico generalista, per così dire. 

Il volume si rivolge in particolare a coloro che sono interessati ad approfondire – sia come studenti universitari e allievi in formazione in ambito clinico, sia come terapeuti praticanti nel campo della cura del disagio psichico – l’approccio psicoanalitico nella lettura e nel trattamento dei sintomi contemporanei, ma è anche una fonte notevole di informazioni e consigli anche per coloro che sono professionalmente fuori da questo target, perché aiuta a meglio comprendere le dinamiche alla base di queste patologie.

Il libro propone una rilettura della psicopatologia contemporanea, orientata dalla psicoanalisi di Freud e Lacan, che trova il suo fulcro nella dimensione dell’eccesso come tratto unificante che struttura, in diverse declinazioni, le forme sintomatiche più caratterizzanti della nostra epoca. 

Nella seconda parte del testo, l’autore si dedica pressoché completamente al tema dell’adolescenza, affrontato a partire dalla decisiva esperienza della riemergenza pulsionale e del suo trattamento a partire dalla pubertà.

Si tratta di un tema cruciale se si tiene conto che, in larga misura, le cosiddette patologie dell’eccesso – quindi tossicodipendenze, anoressie, bulimie, … – trovano nell’orizzonte temporale tra l’avvio della pubertà e il processo dell’adolescenza il tempo logico del loro esordio e del successivo consolidamento. 

Nell’analisi di Cosenza, le patologie dell’eccesso si presentano come soluzioni alternative al fallimento del processo adolescenziale di iniziazione.

L’adolescente, in diversi casi, sviluppa un sintomo che tratta in una modalità di compromesso la propria difficoltà, soluzione già propria alla nevrosi, dinanzi all’assunzione della castrazione – intesa come la paura inconscia di perdere gli organi sessuali, come punizione per il desiderio sessuale che prova- e dell’assenza di garanzia.

Nei quadri più propri a quelle che diventeranno delle patologie dell’eccesso vere e proprie, il problema si situa già nell’entrata in adolescenza, laddove il soggetto non struttura un velo fantasmatico in grado di facilitare il proprio corpo, di rendere possibile l’esperienza inconscia della perdita e l’entrata nella dialettica del desiderio, e di rendere meno devastante l’incontro con il trauma della castrazione. 

Le soluzioni che il soggetto trova, come alternative alla distruttività pura e diretta e alle soluzioni psicotiche più classiche, sono date da queste forme patologiche della contemporaneità. 

Le forme più radicali del disagio giovanile, che Cosenza inserisce nel quadro di una clinica dell’eccesso, non rispondono al disagio con il conflitto dialettico, bensì con il rifiuto dell’Altro. 

È la sconnessione dall’Altro genitoriale a caratterizzare il disagio giovanile. Si pensi non solo alle dipendenze patologiche ma anche a forme di ritiro più radicali, come l’Hikikomori. Sconnessione dall’Altro a cui si associa solitamente un’iperconnessione con l’oggetto messo al centro del circuito libidico senza-limite: cibo, droga, gadget tecnologico, o il corpo stesso assunto come luogo di un trattamento del godimento che prende forme devastanti, dalla privazione anoressica alla pratica del cutting.

In questa nuova clinica il soggetto è esposto a un rapporto con il godimento senza argine simbolico, è in preda al godimento. Il rapporto con l’oggetto investito libidicamente tende a infinitizzarsi, a non bastare mai. La mancanza dell’oggetto diventa insopportabile, il suo trattamento simbolico diventa precario quando non impossibile. 

E in questo si può riconoscere il tratto di perversione che caratterizza sempre più, in modo trasversale e trans-strutturale, il rapporto contemporaneo con gli oggetti di godimento nell’epoca attuale. L’incontro con l’imprevisto – anche nella sua forma banalmente quotidiana, come un appuntamento mancato – diviene un trauma non soggettivabile ma qualcosa da cui difendersi, edificando barriere difensive e circuiti di godimento autarchici che evitano l’impatto di tali incontro. 

Il fatto che gli esordi di queste patologie avvengono in buona parte nel crocevia della pubertà deve dare adito a profonde riflessioni. L’adolescenza contemporanea è caratterizzata per il fatto che il velo che copre il mistero del sesso è stato tolto nel discorso sociale. Il velo fantasmatico, che introduce all’enigma della sessualità ma insieme protegge parzialmente dall’incontro con la sua dimensione traumatica, si presenta in questi casi come lacerato, se non del tutto assente. Questo può chiarire meglio sulle condizioni di scatenamento di queste soluzioni proprie della clinica contemporanea che spesso esordiscono in seguito a disavventure della vita sessuale o amorosa. 

Al di là del campo strettamente psicopatologico, la condizione dell’adolescente contemporaneo mostra un cambiamento radicale di alcune coordinate classiche rispetto al passato. Se il discorso del capitalista espone gli adolescenti al contatto continuo con oggetti di godimento con cui tappare continuamente il dolore dell’incontro con la dimensione traumatica della vita, le nuove tecnologie cambiano le loro relazioni classiche con il sapere. Sembra che non necessitino più del supposto sapere del maestro freudiano come metafora del padre, alternativa all’infantile paterno per la costruzione di una nuova identità dopo il tramonto del complesso edipico, come indicava invece Freud. Il sapere sembrano incontrarlo già esposto nel grande schermo enciclopedico di internet e di Google. 

Tuttavia, sottolinea Cosenza, il sapere che conta di più per il soggetto si trova precisamente nel punto in cui fallisce il supposto sapere universale: è precisamente nell’incontro con l’orrore del buco in questo sapere, riguardante l’enigma del proprio godimento singolare, che può riaprirsi la via verso una ri-agalmatizzazione del sapere inconscio. 

L’analista del XXI secolo può incontrare l’adolescente contemporaneo precisamente in questi punti in cui fallisce per loro il sapere universale che hanno in tasca. 

Per la quasi totalità dei ragazzi di oggi la fonte unica, primaria e assoluta di insegnamento, apprendimento e ispirazione per la propria sessualità è la pornografia attraverso il web. 

La pornografia basa i propri bias sulla carnalità e l’assenza di contesti, emozioni, sentimenti, responsabilità, maturità… le persone diventano corpi-oggetto atti a soddisfare pulsioni.1

Appare poi abbastanza chiaro che questi ragazzi, educati alla sessualità attraverso la pornografia, non si accontentano di esserne semplici fruitori passivi ma la trasformano in azioni concrete nelle quali si fondono e si confondono desideri e pulsioni sessuali, risentimento e vendetta, aggressività e violenza.2

I giovani di oggi sembrano vivere una vera e propria “emergenza sociale” in ambito di salute mentale e benessere psicosociale. A livello internazionale, 1 adolescente su 7 di età compresa tra i 10 e i 19 anni convive con un disturbo mentale diagnosticato. In Italia, nel 2019, il 16.6% dei ragazzi e delle ragazze di età compresa nel range indicato soffrivano di problemi di salute mentale.3

Nel periodo della pandemia vi è stato un boom di accessi al pronto soccorso di minori per motivi neuropsichiatrici. In particolare sono aumentati gli accessi per “ideazione suicidaria”, depressione, disturbi della condotta alimentare, ansia.4Un trend che era già in salita ma che, negli anni pandemici, è per certo peggiorato.


Il libro

Domenico Cosenza, Clinica dell’eccesso. Derive pulsionali e soluzioni sintomatiche nella psicopatologia contemporanea, Franco Angeli, Milano, 2022.

L’autore

Domenico Cosenza: psicoanalista, è AME della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi (SLP) e dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi (AMP). Professore a contratto di Psicopatologia dello Sviluppo all’Università degli Studi di Pavia, docente dell’Istituto Freudiano, è presidente di Kliné, sede milanese della Federazione Italiana Disturbi Alimentari (FIDA).


1M. Lanfranco, Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità. Pornografia, sessismo, Centro Studi Erickson, Trento, 2019. 

2S. Fontana, Dentro il più grande network italiano di revenge porn, su Telegram, WIRED: https://www.wired.it/internet/web/2020/04/03/revenge-porn-network-telegram/

3United Nations Children’s Fund, The State of the World’s Children 2021: On My Mind – Promoting, protecting and caring for children’s mental health, UNICEF, New York, October 2021.

4Le ferite della mente, «Pediatria – Magazine della Società italiana di Pediatria», volume 12, numero 4-5, aprile-maggio 2022.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Franco Angeli Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo” di Monica Lanfranco (Erickson, 2019)

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© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Prossimità aumentata e pandemia: come gestire relazioni e isolamento nel Terzo Millennio

16 martedì Mag 2023

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Attraversareladistanza, FrancoAngeli, GabrieleGabrielli, recensione, saggio

“Attraversare la distanza” a cura di Gabriele Gabrielli

La pandemia, il lockdown, il distanziamento fisico, chiamato impropriamente sociale, hanno generato sofferenza e disorientamento, una inedita mancanza e un vuoto generato dalla sospensione.

Una sospensione inattesa e inaspettata. La nostra cultura non prevede fughe o sospensioni ed è, forse, questo uno dei motivi per cui si è andata a schiantare dritta contro la pandemia. 

Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa. L’Ekyusidei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbathdegli Ebrei sono “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Un valido modo per riconoscere che, oltre a se stessa, vi sono altre realtà (la terra, la foresta, …) da cui gli esseri umani ricavano risorse e che potrebbero esistere benissimo anche senza il lavoro degli uomini. Il lockdown, questa sospensione tanto inattesa quanto destabilizzante, ha paurosamente arrestato gli ingranaggi di una poderosa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e di intoccabile. Ciò che manca alla nostra civiltà è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita “il male dell’infinito”, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno loro vedere la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura. Siamo talmente intrappolati nelle maglie fitte di questa ipercultura e, come afferma Fred Vargas, non facciamo altro che avanzare alla cieca, inconsapevoli e sprovveduti.1

All’avvento della pandemia da Covid-19 tutto è cambiato: il mondo con il quale avevamo organizzato la vita, la scuola, l’economia, il lavoro. E ora va ripensato anche il futuro. 

Per Gabrielli, tutto ciò è servito a capire che l’esperienza umana non è tale senza le relazioni che la sospensione dell’isolamento ha tolto quasi per intero. 

Molti interrogativi si pongono ora che tutto sta ritornando alla tanta agognata “normalità” perché mai bisogna dimenticare che la pandemia ha accelerato dei processi in atto e che, forse, anche se più lentamente, si sarebbero manifestati comunque.

L’isolamento è stata una necessità e il digitale uno strumento oppure la pandemia è stata un accelerante per “rifugiarsi” ancora di più nel mondo virtuale? Inoltre, come rimettere al centro del palcoscenico organizzativo le relazioni senza buttar via i benefici della tecnologia? La digitalizzazione come sta cambiando le relazioni tra umani? Come ci fa guardare l’altro? Come ci fa guardare e sentire noi stessi?

Da molto tempo prima della pandemia la quarta rivoluzione, ovvero quella legata alla diffusione di un’infosfera, sempre più delocalizzata, sincronizzata e correlata, ha aperto la strada alla nuova esperienza onlife, con il quale si sta mescolando.2

Si sta andando sempre più velocemente verso un mondo intero a portata di click, dove tutto è più semplice, veloce e immediato. Una realtà virtuale sempre più mescolata al reale piena, però, di insidie e di lati oscuri. Una vera e propria “prossimità aumentata” nel campo delle relazioni, anche nel mondo del lavoro, che possono svilupparsi sia attraverso la compresenza fisica sia mediante la compresenza digitale. 

Ed è proprio sulle relazioni che indagano a fondo gli autori, scrutandone i diversi aspetti, sociali e professionali. Un’indagine che parte dell’essere umano e ad esso ritorna, evidenziandone così il ruolo, che deve restare centrale, anche nelle connessioni virtuali. 

Il libro

Gabriele Gabrielli (a cura di), Attraversare la distanza. Per una nuova prossimità nella società, nelle imprese, nel lavoro, Franco Angeli, Milano, 2022.

Con contributi di: Luca Alici, Maurizio Franzini, Gabriele Gabrielli, Raoul C.D. Nacamulli, Luca Pesenti e Silvia Pierosara.

Il curatore

Gabriele Gabrielli: ideatore e presidente della Fondazione Lavoroperlapersona, è imprenditore, executive coach e consulente. Professore a contratto di Organizzazione e gestione delle risorse umane alla Luiss Guido Carli. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative. 


1M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano, 2020.

2L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano, 2017.


Articolo pubblicato su Articolo21.org


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Franco Angeli per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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La solitudine dell’esistente: il tempo di ritrovare se stessi. “Il tempo e l’altro” di Emmanuel Levinas

Virus Antropocene e Reincantamento del Mondo: “Il mondo che avrete” di Aime Favole e Remotti


© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La fede incerta degli italiani oggi

24 venerdì Dic 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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FrancoAngeli, Lincertafede, recensione, RobertoCipriani, saggio

Ricorre spesso nel dibattito pubblico il fenomeno del multiculturalismo, conseguenza più o meno diretta di migrazione e immigrazione. Ciò di cui si sente parlare meno sono gli effetti del multiculturalismo sulla fede, sulla religione e, più in generale, sulla spiritualità degli italiani.

In realtà sono tanti i fattori che vanno a incidere su questi aspetti, non da ultimo modernità e consumismo, ma, dall’incontro con altre culture religiose, possiamo comprendere meglio anche il cambiamento in atto della nostra.

Che ruolo occupa la fede nella vita quotidiana degli italiani oggi? Quanto incide sulle scelte degli individui? Quale sarà il futuro delle religioni? Quanto è significativa l’opera di papa Francesco per avvicinare o riavvicinare le persone alla Chiesa?

Nodi problematici trattati e approfonditi nello studio condotto dagli autori, una ricerca sul campo quantitativa e qualitativa, posta in essere un quarto di secolo dopo una prima, svoltasi nel 1994-95.

Il campione statisticamente rappresentativo dell’intera popolazione italiana è costituito da 3238 cittadini di entrambi i sessi, differenti livelli di istruzione e professione. 

Nell’indagine condotta da Roberto Cipriani e Franco Garelli emerge che, su venti, i primi sei concetti più ricorrenti in associazione con la vita quotidiana sono: 

  • Corano
  • Musulmani
  • Cristiano
  • Religiosità
  • Angelo
  • Chiesa

A dimostrazione della netta predominanza dei doveri quotidiani nella religione maomettana. I cattolici italiani che fanno maggiore riferimento alla famiglia, alla quotidianità e alle pratiche religiose sono coloro che si trovano o si ritrovano ad essere nella condizione di disoccupati. 

Ricercare la felicità ed evitare il dolore risultano essere due obiettivi ricorrenti nella concezione diffusa dell’esistenza. 

Solitamente si associa la felicità alla sicurezza, alla ricchezza, al benessere e al piacere, contenuti non sempre ritenuti compatibili con una visione religiosa della realtà. In linea di massima gli intervistati propendono per vedere la felicità come una questione strettamente personale. 

Soprattutto le persone con un elevato titolo di studio tendono a considerare la felicità come un qualcosa di effimero, passeggero, fugace. Si reputa non valga la pena di affannarsi tanto per una cosa che non è durevole e non soddisfa a pieno. 

Se ciò, da una parte, può essere attribuito a una maggiore propensione, delle persone con titoli di studio elevato, alla riflessione e alla ricerca di risposte a quesiti esistenziali, dall’altra può essere interpretata anche dall’angolazione opposta.

Le persone con un titolo di studi inferiore, in genere, vivono una condizione più modesta. Tendenzialmente sono indotti a ritenere che anche solo una posizione economica e sociale migliore possa portare alla felicità. 

È idea molto diffusa che l’interpretazione religiosa della vita non renda particolarmente felici. Sono in pochi quelli che coniugano insieme religiosità e felicità. 

Le cronache quotidiane dei mass media portano all’attenzione del largo pubblico il problema del dolore, della malattia e del rapporto tra vita e morte. Occorre però constatare che non è affatto diffusa una cultura del dolore. A ciò si aggiunge talora una malintesa concezione religiosa del dolore, che viene interpretato come forma di espiazione, purificazione e preparazione alla vita ultraterrena. Tuttavia, ricorda Cipriani, una simile ottica potrebbe contraddire in modo palese gli stessi fondamenti della religione, che in genere non auspica ad alcuno una sofferenza, per quanto finalizzata a raggiungere un obiettivo salvifico post mortem. 

Nello scenario delle situazioni di dolore si è inserito, da qualche decennio a questa parte, il fenomeno non certo nuovo del disagio giovanile che, collegato alla ricerca d’identità e di un’occupazione soddisfacente, ha assunto i caratteri di una vera e propria sofferenza, non solo psicologica ma altresì con effetti somatici e socio-relazionali in genere. 

Va sottolineato poi che una soluzione intravista dai giovani è talvolta la ricerca di gratificazioni e risposte in altre religioni, diverse da quelle più diffuse in Occidente. 

Il sofferente alla fin fine è un cittadino al pari di tutti gli altri. Perciò lotta per il riconoscimento dei suoi diritti, anche in ambito religioso. 

Molto interessanti, ai fini di una riflessione sociologica della contemporaneità, sono anche le impressioni raccolte, nel corso dell’indagine e delle interviste, sul senso dell’esistere, sulla vita e sulla morte.

La constatazione ricorrente è che la morte venga rimossa, messa fra parentesi, sottaciuta. Soprattutto le giovani generazioni vengono allontanate da essa o sono preferibilmente assenti. Al punto da considerarla quasi un’onta, un qualcosa da non va neanche menzionata. Per ogni genere di pratica intervengono dei professionisti, specialisti del settore. La partecipazione sociale è minima, anzi volutamente minimizzata. In definitiva, la morte tende a perdere un suo certo carattere sacro, religioso. E di fronte a essa prevale il disincanto, come affermava Barrau già nel 1994. Blaumer dal canto suo ha parlato di una sorta di burocratizzazione della morte. 

Il problema della morte sembra essere un discorso a parte, che travalica le appartenenze religiose e appaia credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, con una tendenza ampia allo smarrimento e allo sgomento. 

Confrontando i datti attuali con quelli del 1995, gli autori hanno notato un sostenuto aumento dei negazionisti assoluti del post-mortem, passati dal 10.4% al 19.5%. 

Un vero e proprio ribaltone invece si nota allorquando si guarda all’insieme delle opinioni concernenti l’eutanasia. Il 62.7% è favorevole, contraddicendo quindi il magistero cattolico, mentre il 20.4% ne segue i dettami. Nel 1995 i contrari erano il 42.7%.

I dati raccolti sull’eutanasia ricordano quelli sulle unioni civili e sui diritti civili delle persone appartenenti alla comunità LGBT+ e al dibattito pubblico, anche dai toni molto accesi, che è scaturito dal DDL Zan. 

Si ha l’impressione che la società civile vada avanti e segua il suo seppur lento percorso di crescita, mentre istituzioni e comunità religiose tendano a rimanere ancorate a rigide posizioni evidentemente obsolete e fuori tempo.

Se la Chiesa, nello specifico quella cattolica in Italia, riesce in genere a raccogliere un maggior numero di consensi rispetto ad altre istituzioni (politiche, economiche, giuridiche, militari, formative, comunicative…) è però anche da tenere presente che non mancano molteplici riserve e critiche nei suoi confronti. Si può affermare che, per quanti risiedono in Italia, è più la Chiesa cattolica nella fattispecie che non la religione in sé a costituire un problema.

Una Chiesa che si è trovata all’inizio del secolo e del nuovo millennio ad affrontare l’impatto con un’accresciuta presenza di soggetti appartenenti ad altre religioni. Vi è un primo gruppo, più cospicuo, di persone che non hanno difficoltà ad accettare e annettere in senso lato una religione altra alla propria, pur non rinunciando al proprio credo; e un secondo insieme di soggetti che tiene molto di più alla propria fede di appartenenza e muove alcune critiche alle religioni diverse. 

Nella prima serie di attori sociali sembra essere determinante il livello di studio acquisito, dato che un certo numero di laureati si allinea con una visione più inclusivista in materia religiosa. 

Il carattere bonario di papa Francesco attrae, suscita simpatia, crea un legame, facilita l’ascolto, abbatte le distanze e favorisce anche una certa fidelizzazione soprattutto dei credenti e dei praticanti, che lo seguono volentieri anche via radio o televisione. Tuttavia in molti gli rimproverano di avere solo un ruolo di facciata, di copertura. Egli mostrerebbe dunque un volto pacifico, una personalità accondiscendente, una natura non sanzionatoria, ma solo per non mettere in luce le ostilità interne, le fazioni in lotta, i carrierismi e gli arrivismi. Rispetto a tutto ciò, si osserva che il pontefice non è in grado di intervenire e decidere in maniera ampia e definitiva, limitandosi a reprimende solo retoriche, a rimproveri tanto plateali quanto inutili e a parole non seguite da fatti. 

Nelle conclusioni al testo, Roberto Cipriani sottolinea come già da tempo ormai i sociologi della religione hanno discusso la possibilità di prendere in considerazione la spiritualità come una nuova dimensione della religiosità. La tendenza sembrerebbe andare verso nuove forme di religiosità, interiori profonde individuali. Non necessariamente in contrasto con la religione o la religiosità, classicamente intesa. E sarà proprio la categoria dell’incertezza il carattere prevalente di questa nuova religiosità, morbida vaga soft instabile indeterminata, non facilmente accertabile né definibile, se non appunto come incerta fede. 

Un lavoro di indagine sul campo molto accurato e approfondito, quello condotto dal professor Roberto Cipriani con il supporto, per la parte quantitativa della ricerca, dal professor Franco Garelli. Che arricchisce il lettore di una notevole quantità di informazioni, puntuali e precise, su spiritualità e religione certo ma anche sulla socialità e sull’attualità dell’Italia e degli italiani di oggi. 

Il libro

Roberto Cipriani, L’incerta fede. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia, Franco Angeli Edizioni, Milano, Prima Edizione 2020, Ristampa in corso (Novembre 2021).

Prefazione di Enzo Pace.

Nota metodologica di Gianni Losito.

Peer Reviewed Content.

L’autore

Roberto Cipriani: professore emerito di Sociologia all’Università Roma Tre, dove è stato direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione. È stato presidente dell’Associazione italiana di Sociologia, professore di Metodologia qualitativa all’Università di San Paolo (Brasile), di Sociologia qualitativa all’Università federale di Pernambuco (Recife, Brasile), di Metodologia qualitativa all’Università di Buenos Aires, di Scienza della Politica all’Università Laval del Québec.

Autore di numerose pubblicazioni e indagini teoriche ed empiriche.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Simi Comunicazione per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

“Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio” di Franco Garelli (ilMulino, 2020)


© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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