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Irma Loredana Galgano

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‘La pelle pulita è bianca’ – la pubblicità sottintesa che porta a sbiancare la pelle nera

18 lunedì Dic 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, FedericoFaloppa, recensione, saggio, SbiancareunEtiope, Utet

Il 40% delle donne africane si sottopone a trattamenti per schiarire la pelle, spesso con creme che contengono mercurio. Federico Faloppa indaga le origini e il presente del desiderio di Sbiancare un etiope

Creme, unguenti e gel sbiancanti per la pelle: una pratica dannosa per la salute

Solo sul mercato africano esistono più di centocinquanta marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti, facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali, e dannosi per la salute. Quando un prodotto sparisce dal mercato, perché dichiarato troppo nocivo, subito viene sostituito da rimedi fatti in casa. Spesso definiti naturali, non per questo meno tossici.

Il problema non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di Le Monde del 2008 già rilevava la tendenza diffusa da parte delle persone di colore a volersi sbiancare la pelle. Un desiderio comune anche tra le cittadine francesi di origine africana. Oggi, lo storico Pap Ndiaye – che nel 2022 ha assunto l’incarico di ministro dell’educazione nazionale in Francia – sostiene si tratti di un problema tout court, risolvibile solo attraverso una lotta più efficace contro le discriminazioni, le gerarchie sociali e quelle mélaniques – basate sulla melanina, ereditate dalla colonizzazione. 

Quando nasce la necessità di sbiancare i neri e perché? Un libro ne ripercorre le tappe salienti

Lo studio e la ricerca condotti da Federico Faloppa – autore di Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022 – ripercorrono i tratti salienti della nascita della necessità di sbiancare una persona dalla pelle scura. 

Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata dalla maggior parte della popolazione – da gruppi estremisti quali i membri del Ku Klux Klan ma, anche da molti afferenti la NAACP (National Association for the Advancement of Coloured People), convinti che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi. La prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento… continua a leggere su Lampoon.it

© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

L’igiene decisionale contro il “Rumore”: il difetto del ragionamento umano

03 sabato Giu 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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bias, CassRSunstein, DanielKahneman, OlivierSibony, recensione, Rumore, saggio, Utet

Il rumore è la variabilità indesiderata dei giudizi, e la sua presenza è dilagante. Nonostante ciò si sente molto più spesso, quasi esclusivamente, parlare dei bias. 

Il tema del bias è stato affrontato in migliaia di articoli scientifici e decine di testi divulgativi. Nel libro invece si parla quasi esclusivamente del rumore.

In qualsiasi tipo di giudizio umano c’è, con ogni probabilità, un certo grado di rumore, cercare di debellarlo, così come eliminare il bias, è, per gli autori, l’unico modo per migliorare la qualità stessa del giudizio espresso. 

Se dieci critici cinematografici guardano lo stesso film, se dieci assaggiatori valutano lo stesso vino, se dieci persone leggono lo stesso romanzo, non ci si aspetta che tutti abbiano la stessa opinione. La diversità di gusto è benaccetta e del tutto prevista. Ma la stessa diversità può aiutare a spiegare gli errori che nascono quando il gusto personale viene confuso con il giudizio professionale. 

Per esempio, nelle cosiddette questioni di giudizio, il rumore sistemico è sempre un problema. Se due medici effettuano due diagnosi diverse, almeno uno avrà sbagliato. Se due giudici emettono una sentenza diversa per il medesimo caso, almeno in un caso il giudizio può risultare essere viziato. 

Il libro di Kahneman, Sibony e Sunstein pone il lettore difronte all’oggettiva diffusione del rumore e sulla necessità di porre in essere azioni concrete per la sua riduzione almeno, se non proprio per la sua eliminazione. 

Si provi a immaginare il danno che può causare un rumore nel giudizio di un investigatore in un caso di omicidio. O in un caso di sparizione.

L’investigatore portoghese che ha indagato sulla sparizione di Maddie McCann ha sempre sostenuto di nutrire forti sospetti sui famigliari della bambina, motivati dalle impressioni percepite dal racconto dei movimenti immediatamente successivi alla scoperta della scomparsa, durante i quali, la madre in particolare avrebbe agito in modo strano o, quantomeno, inusuale. Dopo quindici anni le indagini sul caso si sono intrecciate con quelle inerenti un cittadino tedesco detenuto per cinque delitti di violenza sessuale e già noto agli inquirenti per reati connessi a droghe e stupefacenti.1

Sono decenni ormai che Pietro Orlandi racconta quanto accaduto nelle ore immediatamente successive alla sparizione di sua sorella, Emanuela, allorquando i suoi genitori si affrettarono a denunciarne la scomparsa alle autorità le quali, sottovalutando l’accaduto, rubricarono la scomparsa come allontanamento volontario, incoraggiando i famigliari a non preoccuparsi in fondo la ragazza “non è neanche bella”, ragione per cui non dovevano esserci così tanti motivi di preoccupazione. 

Questi sono esempi di rumori molto forti e, purtroppo, non è così azzardato ipotizzare ce ne siano altri. Ma anche su quelli meno evidenti o incisivi conviene effettuare quantomeno una riflessione accurata. 

Per esempio, cosa accade quando un insegnante corregge e valuta il tema di un alunno con un rumore, dettato magari da una semplice opinione personale divergente o da un pregiudizio di qualsiasi natura? 

Ovvio, e gli autori lo sottolineano in diversi punti del testo, che non si riuscirà mai a eliminare tutto il rumore, ma imparare a riconoscerlo è già un ottimo punto di partenza per riuscire a meglio gestirlo. 

Ciò che essi auspicano e consigliano è mettere in atto una vera e propria igiene decisionale: 

  • Obiettivo del giudizio è l’accuratezza, non l’espressione individuale.
  • Pensare in termini statistici e assumere la visione esterna del caso.
  • Strutturare i giudizi in diversi compiti indipendenti.
  • Resistere alle intuizioni premature.
  • Ottenere giudizi indipendenti da più valutatori, per poi eventualmente aggregarli.
  • Preferire giudizi e scale relativi.

Iniziando la lettura del libro di Kahneman, Sibony e Sunstein non si riesce a focalizzare bene cosa ci si debba aspettare, man mano che si va avanti si comprende appieno l’interessante sviluppo dell’esposizione, frutto dell’attenta analisi degli autori. E si capisce anche l’importanza di una ricerca di tale portata. Un libro che riesce a eliminare anche il rumore del lettore nei confronti del libro stesso.

Il libro

Daniel Kahneman, Olivier Sibony, Cass R. Sunstein, Rumore. Un difetto del ragionamento umano, Utet, DeA Planeta Libri, Milano, 2021.

Traduzione di Eleonora Gallitelli.

Titolo originale: Noise: a flaw in human judgement.

Gli autori

Daniel Kahneman: professore emerito di Psicologia e Public Affairs alla Princeton University. Nobel per l’Economia nel 2002 e Presidential Medal of Freedom nel 2013.

Oliver Sibony: professore di Strategia all’HEC di Parigi e membro associato presso la Saïd Business School dell’Università di Oxford.

Cass R. Sunstein: professore di Harvard, fondatore e direttore del programma di ricerca in Economia comportamentale e Politica pubblica. Autore di numerosi articoli e libri. 


1https://www.rainews.it/articoli/2023/05/maddie-mccann-a-16-anni-riprendono-le-indagini-sulla-bimba-inglese-scomparsa-in-portogallo-1303f29d-90fe-4ae9-8fbb-03ac699fbd74.html


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa Utet DeA Planeta per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


Articolo pubblicato su Articolo21.org



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Le regole di condotta: il comportamento in pubblico tra impegno e partecipazione. “Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione” di Erving Goffman (Einaudi, 2019)

Perché proprio questo è il secolo della solitudine? “Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni” di Morena Hertz (Il Saggiatore, 2021)

“Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti” di Pietro Roberto Goisis (Enrico Damiani Editore, 2020)

Sars-Cov-2: la mutazione genetica della vita. “Lock-mine. Due diari della pandemia” di Goisis e Moroni (Enrico Damiani Editore, 2022)


© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

È il bianco l’unico colore possibile? Le giustificazioni per la schiavitù: la costruzione di un immaginario razzista

29 domenica Gen 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DeAgostini, FedericoFaloppa, recensione, saggio, SbiancareunEtiope, Utet

Solo sul mercato africano esistono più di 150 marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti1, facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali, e dannosi per la salute. E allorquando un prodotto sparisce dal mercato, perché dichiarato troppo nocivo, subito viene sostituito da rimedi fatti in casa. Spesso definiti “naturali”, non per questo meno tossici.

Il problema non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di «Le Monde» del 2008 rivelava una tendenza sempre più diffusa: il desiderio di sbiancarsi la pelle anche da parte delle cittadine francesi di origine africana. E lo storico Pap Ndiaye – che nel 2022 ha assunto l’incarico di ministro dell’educazione nazionale in Francia – sostiene si tratti di un problema tout court, risolvibile solo attraverso una lotta più efficace contro le discriminazioni, le gerarchie sociali e quelle “mélaniques”, basate sulla melanina, ereditate dalla colonizzazione. 

Lo studio e la ricerca condotti da Faloppa ripercorrono i tratti salienti della nascita della “necessità” di «sbiancare un etiope» (un moro, un nero, …) da cui deriva direttamente la “volontà” odierna di farlo.

Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata per e dalla maggior parte della popolazione, da gruppi estremisti quali i membri del Ku Klux Klan ma, paradossalmente, anche da molti afferenti la stessa NAACP (National Association for the Advancement of Coloured People), convinti che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi.

La prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento.2 Si tratterebbe di una vera e propria sottomissione psicologica per gli ex colonizzati, che andrebbe superata con un rovesciamento totale non soltanto dei valori ma delle categorie analitiche.3

Ma quando nasce davvero la “necessità” di sbiancare i neri e perché?

«The two pioneers of civilation, Christianity and commerce, should ever be inseparable.»

La civilizzazione e i suoi messaggi sembrano essere indissolubili non soltanto dal commercio ma anche dalla cristianità e dalla missione civilizzatrice di entrambi. È questa la celebre sentenza pronunciata dall’esploratore David Livingstone.4

Il concetto di fondo della sentenza Livingstone sembra aver ispirato diverse campagne pubblicitarie, in particolare quelle di aziende che producevano saponi talmente efficaci da riuscire a sbiancare finanche la pelle di un nero. 

La pulizia non era solo un fatto fisico, ma anche e soprattutto – fin dalla prima metà dell’Ottocento – un fatto morale: un sigillo di rettitudine, una benedizione della proprietà domestica e un dovere civile.5 La pulizia era vista come un bene assoluto, usato spesso inconsciamente come una sorta di “scorciatoia simbolica” per una serie di altri “beni” immateriali e valori: dalla rispettabilità pubblica all’ordine domestico, dalla probità economica all’onestà sessuale (la monogamia, ovvero il clean sex).6

La sporcizia, per contro, era vista come un male in sé, specchio e indizio di altri mali, tanto fisici quanto morali. Andava lasciata fuori casa e fuori dalla società, allontanata, negata. 

Fin dal 1500 l’opposizione simbolica tra il bianco e il nero assunse e sviluppo concetti legati anche alla tradizione classica, soprattutto cristiana, di bianchezza e oscurità. Il bianco associato a purezza, verginità, virtù, bellezza. Il nero alla bruttezza fisica e spirituale, alla mostruosità, alla collera divina. 

Uno dei feticci nella costruzione della polarizzazione (colonizzatori-civili versus colonizzati incivili da civilizzare) fu il sapone, che negli ultimi decenni del XIX secolo diventò il “talismano della modernizzazione”,7 simbolo e strumento di una vera e propria “tecnologia di purificazione sociale”,8 il “principio della civilizzazione”, dal cui consumo si potevano misurare la ricchezza, il livello di civiltà, la salute e la purezza di un popolo.9

L’uso e il consumo del sapone come di altri prodotti detergenti è, ovviamente, legato in primis a questioni di salute, igienico sanitarie, ma non è né esente né lontano da tutti questi aspetti simbolici egregiamente indagati da Faloppa nel libro.

Un simbolismo quasi escatologico che si sovraccarica di aspettative al punto da arrivare ai dati odierni relativi ai tentativi di sbiancamento della pelle. Un tema che le aziende hanno sfruttato, per fini commerciali e di immagine. 

Nel 2017 una pubblicità della Dove fu al centro di polemiche: grazie al potere del brand, una ragazza nera si trasformava in una ragazza bianca dai capelli rossi. Per l’azienda si trattava di un omaggio alla diversità, Ma l’effetto sbiancante del docciaschiuma appariva nella migliore delle ipotesi, sottolinea l’autore, un inspiegabile scivolone, nella peggiore un messaggio razzista, neanche tanto velato. 

Nel 2011 la stessa azienda aveva lanciato una pubblicità nella quale le immagini di tre ragazze – una riccia e nera, la seconda con i capelli scuri e la pelle olivastra e infine la terza con i capelli biondi e la pelle chiarissima – erano accompagnate dal claim «Prima e dopo».

La ricerca condotta da Faloppa va avanti da oltre venti anni e, naturalmente, non è conclusa. Purtroppo, verrebbe da dire. Perché episodi di discriminazione, di presunta manifesta superiorità da parte dei bianchi sono tutt’ora all’ordine del giorno. Tuttavia ciò che l’autore è riuscito a far emergere e che va a comporre il libro è davvero impressionante, notevole e illuminante.

Molto incisiva anche la parte della dedica iniziale dedicata alle generazioni di domani, alle quali l’autore augura di poter rubricare il libro non tra quelli di attualità bensì di storia, perché razzismo e discriminazione saranno ormai superati. 


Il libro

Federico Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022.

L’autore

Federico Faloppa: professore di Linguistica e  Italian Studies presso l’Università di Reading, in Gran Bretagna. Da oltre venti anni la sua ricerca ruota intorno alla costruzione del “diverso” nelle lingue europee, alla rappresentazione mediatica delle minoranze, alla produzione e circolazione del discorso razzista e discriminante, al rapporto tra lingua e potere, ai discorsi d’odio.


1C. Simon, Un réve de blancheur, in «Le Monde», 29 agosto 2008

2A. Memmi, Portrait du colonisé, portrait du colonisateur, Ed. Buchet/Chastel, Paris, 1957.

3R. Diallo, Racisme: mode d’emploi, Larousse, Parigi, 2011.

4J. P. Nederveen Pieterse, White on Black. Images of Africa and Black in Western Popular Culture, Yale University Press, New Haven-London, 1992. La sentenza di David Livingstone è tratta dalla lecture che l’esploratore tenne a Cambridge il 5 dicembre 1858.

5G. Giuliani, C. Lombardi-Diop, Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, Le Monnier, Firenze, 2013.

6A. McClintock, Soft-soaping empire: Commodity racism and imperial advertising, in Aa. Vv., The Gender and Consumer Culture Reader, J.Scalon (a cura di), New York University Press, New York, 2000.

7K. van Dijk, J. G. Taylor (eds), Cleanliness and Culture: Indonesian Histories, Brill, Leiden, 2011.

8A. McClintock, Imperial Leather: Race, Gender and Sexuality in the Colonial Contest, Routledge, London, 1995.

9K. van Dijk, op.cit.

Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Utet-De Agostini Libri per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Virus Antropocene e Reincantamento del Mondo

30 domenica Mag 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Tag

AdrianoFavole, FrancescoRemotti, Ilmondocheavrete, MarcoAime, recensione, saggio, Utet

Partendo dalle misure straordinarie poste in essere dal governo italiano, come dai governanti di innumerevoli altri stati ormai, primo fra tutte il lockdown del 9 marzo 2020, gli autori conducono una dettagliata analisi dello stato attuale della società italiana. Un confronto con quei sistemi da sempre etichettati, troppo frettolosamente, primitivi. E uno sguardo al futuro che deve passare, senza nostalgia, da un passato più o meno recente ma sempre importante. Riflessioni che vogliono anche essere un monito per i giovani, gli unici sui quali si potrà veramente contare, nella speranza che trovino quanto prima la coesione e la consapevolezza necessarie. 

Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non solo non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa ma continua ad avere una visione distorta del mondo. 

Sottolineano gli autori come una convivenza utile tra gli esseri umani sia in realtà possibile solo a patto di realizzare anche e in primo luogo una convivenza utile con la natura. Aspetto questo da sempre trascurato dall’Antropocentrismo imperante nella società dei civilizzati.

A parte il coprifuoco durante la seconda guerra mondiale, la società italiana non aveva mai avuto esperienza diretta di provvedimenti così drastici e restrittivi come una chiusura totale. Per noi le chiusure o sospensioni sono abitualmente ascrivibili a periodi di riposo, ferie, vacanze, svago, divertimento… in sintesi sono una pausa, uno stand by dalla routine. In genere atteso, gradito e piacevole.

L’Ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbath degli Ebrei sono “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Un valido modo per riconoscere che, oltre a se stessa, vi sono altre realtà (la terra, la foresta, …) da cui gli esseri umani ricavano risorse e che potrebbero esistere benissimo anche senza il lavoro degli uomini. 

Il lockdown, questa sospensione tanto inattesa quanto destabilizzante, ha paurosamente arrestato gli ingranaggi di una poderosa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e di intoccabile. 

Ciò che manca alla nostra civiltà, ci ricordano gli autori, è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita “il male dell’infinito”, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. 

Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno loro vedere la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura. 

Siamo talmente intrappolati nelle maglie fitte di questa ipercultura e, come afferma Fred Vargas, non facciamo altro che avanzare alla cieca, inconsapevoli e sprovveduti.

Remotti non esclude la possibilità di acquisire una visione critica e lungimirante, ma in mancanza di un’autentica sospensione culturale non è detto che alla visione critica faccia seguito una corrispondente azione modificante. Il lockdown è un arresto non voluto, non programmato. Un arresto dal quale si ha solo fretta di uscire per ritornare quanto prima alla normalità. 

Virus e confinamenti hanno una lunga storia nell’umanità, anche recente. Basti pensare all’Aids, all’ebola o all’epidemia di morbillo del 2019. Favole sottolinea le particolarità di Sars-Cov-2, le quali sono di essersi diffuso globalmente con una velocità straordinaria ma, soprattutto, di aver sovvertito un diffuso immaginario che lega epidemie a povertà. 

Il coronavirus ha fatto irruzione in un mondo che si riteneva immune da questo tipo di attacchi. Il mondo occidentale, convinto di appartenere a una modernità potente ed efficace contro le malattie epidemiche, è stato costretto a una rapida contrazione degli spazi. 

Quanto però, si chiede l’autore, la sospensione da coronavirus ci ha fatto riflettere davvero su come eravamo e su come vorremmo essere in futuro.

Proprio questo virus, che dovrebbe farci sentire anche biologicamente appartenenti a una comune umanità, ha invece ravvivato il focolaio delle politiche nazionaliste e sovraniste. 

Il senso di impotenza che tutti abbiamo provato dopo le prime chiusure è, nella dettagliata ricostruzione fatta da Favole, lo stesso che tanti esseri umani provavano ben prima dell’arrivo del coronavirus, davanti ai mille confini reali e simbolici che li separavano dalle mete desiderate. Perché la verità è che mentre noi occidentali, per decenni, abbiamo teorizzato le meraviglie e l’incanto di un mondo aperto e globalizzato, altre umanità sono vissute in un perpetuo confinamento. 

E, senza dover guardare neanche troppo lontano, nei giorni più bui, mentre i reparti di rianimazione si saturavano tutti ci siamo chiesti chi avrebbe avuto, prima di altri, il diritto a salvarsi. 

Questo perché la condivisione, la solidarietà, il legame sociale non sono mai definitivamente garantiti nelle faccende umane. 

Il lockdown ci ha fatto riflettere sul fatto che una società immaginata come un insieme di individui isolati, ciascuno dei quali alla ricerca spasmodica del proprio interesse personale, è un’aberrazione e non un ideale a cui tendere. 

I lunghi mesi di lockdown hanno confermato appieno quello che gli studiosi di antropologia definiscono reincantamento del mondo, un ritorno alla religiosità anche nelle sue forme integraliste e intolleranti, un diniego del mito della società secolarizzata che ha pervaso le generazioni degli anni Sessanta e Settanta. 

Credenze, riti, utopie, religioni, leader carismatici, leggende metropolitane… affollano una modernità che non si rappresenta più come “secolarizzata”. In questo quadro Favole colloca anche la rivalutazione dei riti collettivi. 

Il coronavirus, nei momenti di massima aggressività, impedisce anche la celebrazione dei riti funebri. 

Chi avrebbe mai pensato che in Italia – e in molte altre parti del mondo globalizzato – potesse accadere una cosa del genere nel XXI secolo?

Eppure per l’autore non si tratta di un qualcosa di davvero così imprevisto e imprevedibile. I riti impossibili e i corpi scomparsi dell’11 settembre, così come i morti senza volto del Mediterraneo, avrebbero dovuto dare una prima scossa, un avvertimento potente a una contemporaneità accecata e avviluppata nella sua bolla di benessere, circondata da povertà e disperazione crescenti. 

Ed ecco che Favole di nuovo si chiede se i riti di emergenza della Covid-19 lasceranno tracce nell’umanità del futuro.

L’impressione però è che, ancora una volta, la modernità consista nella fretta di archiviare e rimuovere la memoria traumatica, tornando alle spiagge e ai centri commerciali.

Forse, come evidenziano gli studi di Giovanni Gugg, siamo incapaci di “tornare al futuro”, cioè incapaci di immaginarci diversi, costruendo creativamente un futuro a partire da una memoria “buona” – e non identitaria – del passato.

E forse questa fretta di ritornare alla normalità è motivata anche da un altro tipo di paura, magari inconscia. Il confinamento è una pianta robusta dalle radici profonde che, spesso, è stata nutrita, più che da timori e paure di virus, da operazioni di natura politica. Senza neanche girarci troppo intorno, sono stati diversi gli intellettuali che in questi mesi ci hanno messo in guardia contro il pericolo che il virus diventasse un pretesto per una riduzione delle libertà ben oltre la pandemia. Per ragioni politiche, l’emergenza rischia spesso di divenire quotidianità. Per contro, la “liberazione” dai confinamenti non può e non deve essere motivata da mere ragioni economiche, a scapito della salute dei cittadini. 

Letto nei termini della crescita economica, lo sviluppo non è altro che l’espansione planetaria del sistema di mercato. Il problema, nell’analisi di Marco Aime, non sta solo nella semplice adozione indiscriminata di tale modello, ma nel pensarlo come naturale, ineluttabile, quasi un destino cui è impossibile sfuggire. 

Un esempio di come l’idea di sviluppo si avvicini più a una fede che all’espressione di una presunta razionalità è dato dal fatto che, nonostante i ripetuti fallimenti, la crescita delle diseguaglianze e la sempre più evidente crisi ambientale, si continua imperterriti nella stessa direzione. 

L’obiettivo di elevare tutti gli esseri umani al tenore di vita degli occidentali è, conclude Aime, materialmente irrealizzabile. Eppure, per sostenere la fede nell’inevitabilità del progresso, inteso come aumento di produzione e accumulo di beni, occorre fare “come se” tutto ciò fosse possibile.

Lo stesso Gandhi sembrava essere giunto a conclusioni simili allorquando affermava che il mondo non può sopportare che l’India diventi come l’Inghilterra. 

Aime invita a osservare con sguardo critico le più importanti rivoluzioni dell’epoca moderna. Si noterà allora che, nella maggior parte dei casi, lo sforzo più incidente è stato nel distruggere l’esistente più che nel progettare un futuro vero e proprio. Si impone dunque una nuova prospettiva che, per essere realizzata, necessita di due elementi: il primo è una nuova visione del futuro, un progetto che guardi avanti e non solo all’orizzonte ristretto del domani; il secondo è una presa di coscienza collettiva di fare parte di una specie in pericolo. 

La pandemia ha nesso a nudo l’estrema fragilità del nostro sistema: pochi mesi di chiusura e di rallentamento lo hanno messo in ginocchio. E questo, per Aime, è segno evidente del fatto che non siamo stati capaci di prevedere un domani incerto, che non abbiamo scorte di alcun tipo, nessun ammortizzatore. Abbiamo costruito un sistema fondato sull’oggi. E allora bisogna chiedersi quale domani potrà mai esserci per una società che non pensa al futuro.

La politica con tutti i suoi partiti viene direttamente chiamata in causa per la sua pressoché totale mancanza di prospettive e di progetti di ampio respiro.

Senza un progetto futuro e neppure una chiara conoscenza del passato, ci si affida a qualcosa di atavico, che si perde nella nebbia dei tempi, una sorta di mito fondante: l’identità, corroborata dalla confortante metafora delle radici e del primato autoctono. 

Resi ciechi dal cono d’ombra creato da questa corsa inarrestabile, abbiamo smesso di pensare a quale sia il traguardo e quale il senso della nostra corsa. Ecco perché gli autori ritengono necessario sviluppare una cultura nuova sull‘Antropocene e a farlo dovranno essere i giovani, spetta loro infatti l’arduo compito di cambiare la rotta. 

Luciano Gallino ha messo in luce come, nella nostra epoca, sembrino scomparse le classi sociali che avevano caratterizzato la politica e la società del Novecento, ma in realtà a venire meno è stata soprattutto la coscienza di classe, la percezione di appartenere a una comunità di intenti, fondata su una base comune. 

I giovani che si sono mobilitati seguendo Greta Thunberg, oppure il movimento delle Sardine sono esempi, seppur circoscritti, di mobilitazioni che hanno auspicato e messo in atto azioni di mobilitazione e protesta “dal basso” ed entro una classe prevalentemente giovanile, contro il dilagare del linguaggio d’odio. Ed è da essi che, per Aime, bisogna partire o ripartire. Perché in una crisi di pensiero, come quella che attraversa il presente, l’unica soluzione è ricominciare a pensare al futuro, che sia però un domani comune. 

Bibliografia di riferimento

Marco Aime, Adriano Favole, Francesco Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano, 2020

Gli autori

Marco Aime: professore di Antropologia culturale all’Università di Genova.

Adriano Favole: insegna Cultura e potere e Antropologia culturale presso il Dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino.

Francesco Remotti: professore emerito all’Università di Torino, socio dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia Nazionale dei Lincei. 

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Utet per la disponibilità e il materiale

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Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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Articolo disponibile anche qui

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L’Altra-Africa: come l’Afromodernità sta diventando una condizione globale “. “Teoria dal Sud del mondo” di Comaroff e Comaroff (Rosenberg&Sellier, 2019)

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019)

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© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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