• Bio
  • Contatti
  • Curriculum

Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

Archivi tag: Terrorismo

Combattere l’Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

17 domenica Gen 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

BUR, CarloPanella, IllibronerodelCaliffato, intervista, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, saggio, terrore, Terrorismo

Combattere l'Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

La Storia, si sa, è fatta di cicli che si ripetono; Giambattista Vico li chiamava ricorsi. Ma quando sono gli errori a essere commessi ripetutamente cosa viene da pensare? Albert Einstein aveva etichettato come follia la propensione dell’uomo a fare sempre la stessa cosa aspettandosi ogni volta un risultato diverso.

Carlo Panella ne Il libro nero del Califfato, edito da BUR (Biblioteca Universale Rizzoli) ad aprile 2015, pone l’accento sugli errori commessi dall’Europa nel 1939 allorquando non capì la gravità del disegno progettato da Hitler e quelli, identici, commessi oggi nell’interpretazione del fenomenojihadista.

«Non rendersi conto che qualcuno ti fa la guerra per imporre la sua “cultura” è un errore. Errore ancora più grande è non capire perché ti vuole annientare».

Perché Hitler ci ha fatto guerra? Perché voleva annientare il popolo ebreo? Perché il Califfo ci fa guerra? Perché vuole annientarci? «Un abisso separa la nostra totale dimenticanza, la stupita ironia, il nostro scherno nei confronti dell’Apocalisse, dalla loro certezza che è immanente e imminente. Schiaccio il detonatore, mi uccido e uccido gli infedeli perché domani, tutti insieme, siamo chiamati al Giudizio Universale».

Il libro nero del Califfato è un testo che vuole focalizzare sulla centralità dello scisma islamico in atto nelle tragiche vicende che hanno visto coinvolto anche il territorio occidentale nei recenti attacchi di Parigi. Ne abbiamo parlato in un’intervista con l’autore Carlo Panella.

«L’Europa ha commesso gli stessi errori nel 1939 e ora li ripete»: il non capire che qualcuno ci combatte per affermare il predominio della propria civiltà e il non cogliere le ragioni per le quali qualcuno vuole annientarci. Cosa spinge il Califfo verso la volontà di annientare l’Occidente? E quali sono i termini di questa guerra di civiltà?

La ragione fondamentale alla base delle azioni del Califfato, come di tutti i movimenti jihadisti, è quella di conquistare potere politico ovunque, in particolare nelle zone che furono sottoposte al dominio islamico in passato, per imporre la legge divina, la sharia. È quello che sta facendo non soltanto in Mesopotamia e in Libia ma anche attraverso atti che noi, erroneamente, definiamo di terrorismo, come gli attentati di Parigi, e che invece sono solamente delle punizioni shariatiche per delle trasgressioni alla legge di Dio.

«Charlie Hebdo» per blasfemia, il Bataclan perché la musica, qualsiasi non solo quella occidentale, è proibita, colpiti bar e ristoranti per punire la promiscuità tra uomini e donne. Tutti segnali molto chiari che l’Occidente non interpreta anche perché abbiamo una visione “egoistica” del mondo. Pensiamo che loro ci vogliano fare paura o che siano dei terroristi. È scontato dire che vogliono farci paura, in realtà tutte le loro azioni mirano a far applicare la sharia.

Non rendersene conto vuol dire ignorare lo scisma religioso interno al mondo islamico. Non è tutto l’Islam ma un Islam scismatico quello che ci attacca. Che ci fa la guerra e quindi noi dobbiamo farla a lui. Farla sul serio però, non quello che l’Occidente sta facendo ora, ovvero bombardando in Siria e Iraq, ma andando a combattere sul terreno o comunque appoggiando chi sta combattendo. Non lo facciamo per varie ragioni ma principalmente perché l’Occidente non ha ideali, quindi non ha coscienza di sé stesso.

Combattere l'Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

Nel testo sottolinea gli errori del direttore della Cia, di Cameron, di Hollande e della Mogherini i quali affermano che il terrorismo non è Islam. «È Islam, invece: è uno scisma musulmano». Ci spiega i caratteri di questo scisma?

Brennan, Mogherini, Obama… pensano si tratti di una banda di criminali e la trattano come tale, una sorta di bounty killer, quando invece è uno scisma dei Saud e Muhammad al-Wahhab, un teologo islamico. Fece un’azione militare all’inizio dell’Ottocento andando a occupare La Mecca e Medina, si alleò con le tribù dell’Anbar, in pratica le stesse di oggi. È stato l’asse portante della rivolta indiana del 1857 e di quella sudanese del 1880 pur restando nell’ombra e riemergendo con forza durante la rivoluzione khomeinista. Perché l’elemento fondamentale di questo scisma è la pratica liquidatoria di tutte le dottrine idolatriche.

Loro ritengono che i cristiani e gli sciiti siano idolatri perché mentre loro hanno un solo Dio, questi adorano anche i santi o gli imam. Hanno questo atteggiamento persecutorio nei confronti degli idolatri, che verifichiamo anche in questi giorni in Iraq, mosso dalla volontà di venerazione di un unico Dio.

Non conoscere questi elementi, fare dei comodi appelli al bene contro il male o frasi del tipo non si uccide in nome di Dio è una difesa culturalmente miserrima che, ahimè, coinvolge anche il Papato che, peraltro, difronte alla persecuzione dei cristiani in atto da parte di questo movimento islamico, fa ben poco, nonostante le migliaia di martiri cristiani che questi scismatici uccidono ogni anno in tutto il mondo.

Come si colloca in questo scisma l’irrisolto conflitto israeliano-palestinese?

Una delle tante verità che ha spiegato questa vicenda è il fatto che la centralità del conflitto israelo-palestinese per sistemare il Medio Oriente era una bufala. Anzi spiega il contrario. Quanto sta avvenendo in Mesopotamia, in Yemen… in posti in cui mai c’è stato l’intervento occidentale, dimostra che la ragione per cui questo conflitto non si risolve non è in una dimensione di terra contro pace,come si è detto per decenni, ma in un non possumus di tipo islamico dentro, peraltro, questo scisma, per cui i palestinesi musulmani non sono disposti ad accettare l’esistenza dello Stato di Israele. Il tutto concretizzato dalla gestione fatta da Hamas.

Hamas e parte dello scisma non discutono minimamente della questione territoriale. Hanno avuto Gaza gratuitamente nel 2006 da Sharon, ma non fanno la pace con gli ebrei perché devono imporre la sharia su tutto Israele.

Il conflitto israelo-palestinese andrebbe risolto ma ciò non può avvenire perché nel mondo musulmano esiste da sempre il rifiuto della coesistenza tra uno Stato ebraico, uno Stato arabo e uno radicale e non a caso questo rifiuto inizia con una leadership religiosa, Haj Amin al-Husseini, il Gran Mufti di Gerusalemme alleato dei nazisti.

Combattere l'Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

L’altro grande nodo delle aspirazioni universalistiche dell’Islam è rappresentato dall’Iran. Ora che le sanzioni sono state revocate lei affermerebbe che la «deterrenza atomica per esportare la rivoluzione» ha funzionato?

Direi di sì. Sono riusciti a convincere le classi dirigenti occidentali della loro volontà di non destabilizzare il Medio Oriente nel momento stesso in cui con strumenti tradizionali lo facevano in maniera parossistica. In Iraq, in Siria appoggiando Assad, in Yemen, a Gaza, in Libano…

Gli iraniani non sono arabi, hanno delle èlite dirigenti estremamente raffinate, pongono all’Occidente il problema di una rivoluzione popolare vincente, hanno un’ideologia di morte basata sul martirio, di nuovo di tipo nazista, gestiscono il Paese in maniera autoritaria però l’incapacità di affrontare la situazione iraniana fa sì che l’Occidente chiami Rouhani affidabile riformista nonostante lo stesso premio Nobel Ebadi continui a dire che da quando c’è lui le condanne a morte in Iran sono duplicate. Assisitiamo al paradosso del riformista che duplica le condanne a morte formalmente per reati comuni, ma per la gran parte sappiamo tutti essere dovute a reati politici o di semplice dissidenza ideologica o verbale.

Contrapposto a quello wahabita c’è questo scisma khomeinista basato sulla ideologia del martirio e obbligo del musulmano di uccidersi per uccidere gli infedeli e, esattamente come per il fenomeno wahabita, non vogliamo prendere atto della radicalità culturale di questa ideologia autoritaria.

Lei ritiene che l’Occidente si rifiuti di comprendere «che queste migliaia di “John” sono uomini di fede» in quanto prenderne coscienza comporterebbe implicazioni terribili. Quali sono queste “implicazioni terribili”?

Affrontare il problema del consenso di massa che tutti gli inviati dicono… leggete cosa scrive Cremonesi sul «Corriere della Sera» intorno a Mosul. Ripete più volte: «La popolazione sunnita appoggia in maniera convinta gli uomini dell’Isis».

Dovrebbe bastare per rendersi conto che c’è un’adesione di massa a un’ideologia di morte, autoritaria e violenta, e ciò costringe a prendere atto che dentro l’Islam c’è uno scisma operante. E che questa parte scismatica, che uccide in nome di Dio, non viene contrastata a sufficienza se non con poche dichiarazioni verbali, proprio perché molti dei valori che i jihadisti difendono sono simili se non proprio uguali a quelli di gran parte del mondo islamico.

Elemento questo che non viene preso debitamente in considerazione, sfugge, si mistifica la realtà e si risponde in maniera meccanica con dei bombardamenti che, peraltro, non fanno che aumentare il consenso delle popolazioni civili colpite verso questa nuova forma di autoritarismo, non maggioritario ma di massa.

Combattere l'Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

In un altro passaggio del libro, definisce i terroristi islamici «simbolo di un male dell’anima che penetra in profondità persino nelle nostre metropoli». In cosa consiste questo male?

Noi non siamo figli di Set ma di Caino. C’è questo rifiuto dei contemporanei di affrontare di petto quello che è l’insegnamento non soltanto della Bibbia ma anche della mitologia greca: la propensione dell’uomo al male, all’assassinio, addirittura al fratricidio.

Ormai l’ideologia che gira, anche ad alti livelli della nostra cultura, è molto simile a quella delle Miss. «Vogliamo la pace nel mondo» è il corale desiderio espresso. Invece questa capacità di attrazione che ha una nuova ideologia di morte dentro un corpo religioso millenario pone dei problemi enormi per quanto riguarda la comprensione dell’uomo e della sua dimensione.

Problemi questi che sono contrapposti al politically correct, al mainstream buonista che pervade tutti gli ambienti della nostra cultura. Siamo difronte a una manifestazione del male dell’animo umano sviluppatasi ora in ambito musulmano, nel Novecento esplose in ambito europeo, che è inquietante e pone problemi drammatici.

Voi amate la vita, noi la morte è il messaggio che lanciano i jihadisti e questo alla nostra cultura, oltre che alla nostra sicurezza, pone dei problemi che si preferisce evitare.

Si sofferma a lungo nel libro sulle differenze tra Al-Qaeda, Isil e Califfato eppure tutte attirano «migliaia di giovani come falene». Perché? E perché l’Occidente stenta a capirne le motivazioni?

Al-Qaeda differisce dal Califfato per una ragione molto semplice: è essenzialmente una struttura organizzativa di tipo classico, non ha avuto la capacità di fare il salto di qualità che il Califfato ha fatto proclamandosi Stato e gestendo un territorio.

Attirano tanti giovani foreign fighter. Una grande capacità di attrazione di questa ideologia di morte che è dentro il corpus dottrinario dell’Islam. Il loro primo teologo di riferimento, Ibn Taymiyya, vissuto alla fine del 1200, sosteneva che il jihad è il sesto principio dell’Islam, più importante del Ramadan e della preghiera stessa. La loro sharia è identica a quella applicata in Arabia Saudita. I loro presidenti storici risalgono al 1800.

Da noi tutto questo viene frainteso, si fa finta che sia colpa nostra. Non c’entra niente l’Occidente. Questo non è un fenomeno di reazione a vere o presunte colpe dell’Occidente. È un fenomeno che nacque, all’interno del mondo musulmano, nel 1740 con lo scismawahabita, è diventato carsico per quasi un secolo e ora è riemerso con una capacità di attrazione di consenso che ebbe non soltanto il nazismo ma anche l’applicazione e la gestione della shoah. L’uccisione, lo sterminio di sei milioni di ebrei fu possibile perché c’era consenso in larga parte del popolo tedesco. Lo stesso fenomeno lo rileviamo oggi.

Quali sono stati i veri errori commessi da Bush e Blair nel 2003? E quanto si è rivelato efficace in realtà il cambio di strategia voluto da Obama?

L’errore fondamentale gravissimo compiuto da Bush e Blair nel 2003 è stato quello di sottovalutare la radicalità del conflitto tra sciiti e sunniti in Iraq e in Mesopotamia, il non aver compreso che questo elemento religioso era ed è centrale.

In Iraq è stato messo alla guida un personale tecnico-amministrativo che non aveva la minima idea di dove si trovasse e questo ha avuto conseguenze disastrose perché ha radicato, nella componente sunnita, un rifiuto totale dell’amministrazione americana e ha favorito l’impianto dei jihadisti. Ciò è stato in parte risolto dal cambio di strategia imposto dal generale Petraeus ma non ci sono stati comunque grandi risultati, a causa della disastrosa dottrina Obama. Il totale abbandono dell’area ha consentito la persecuzione dei sunniti da parte degli sciiti. Parossistica conseguenza di ciò è la caduta dei sunniti nelle braccia del Califfato.

Pur con gli errori detti, la politica di Bush ci ha lasciato in eredità l’unico alleato affidabile, il Kurdistan iracheno, mini-Stato democratico di fatto nascente e crescente, affidabile sia dal punto di vista politico che militare. Non a caso alleato dell’Italia che, giustamente, lo aiuta.

Il non-interventismo di Obama ci ha lasciato senza alleati, senza interlocutori e con un numero di morti civili che raggiunge la cifra di 300-400mila unità, tra Iraq, Siria e Yemen.

Combattere l'Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

Il 2011 è stato un anno di grande fermento nel mondo arabo, con le rivolte in Tunisia, Siria, Egitto. Quali sono stati i reali motivi, secondo lei? E in seguito cosa è successo durante i mesi di governo della Fratellanza Musulmana?

I motivi erano gli stessi della Rivoluzione iraniana del 1979. Dopo la decolonizzazione, i “cattivi imperialisti” hanno cercato di instaurare in tutto il Medio Oriente delle democrazie, subito destabilizzate da gruppi militari di provenienza filo-nazista, che si sono poi alleati con l’Unione Sovietica, che hanno instaurato dei regimi all’insegna della corruzione e dell’autoritarismo. Incapaci di fare fronte alle richieste di partecipazione e alle tensioni sociali che venivano soprattutto dai giovani.

Le Primavere arabe hanno avuto la capacità di abbattere dei regimi ma, quando si è trattato di gestire direttamente, hanno dimostrato che nel mondo arabo-musulmano non c’è una élite in grado di amministrare lo Stato e così sono andati al potere uomini dei vecchi regimi che hanno saputo riciclarsi.

Lei sostiene ne Il libro nero del Califfato che il vuoto di potere che è derivato dall’eliminazione del regime di Gheddafi in Libia ha contribuito alla «germinazione di terrorismo e jihadismo». Perché?

Non si è minimamente pensato, né nel momento in cui è stato fatto l’intervento né negli anni successivi, a quale potesse essere la gestione della Libia una volta battuto Gheddafi.

Si è fatto finta che sia stato ucciso da una rivolta popolare, il che non è vero in quanto Gheddafi è stato ucciso da forze militari della Nato, e si è lasciato il Paese nel caos con un livello di incompetenza e di non comprensione del territorio spaventosi, soprattutto a fronte dell’arretratezza delle classi dirigenti libiche.

Ora si è cercato di rettificare questo abbandono ma l’idiozia euro-americana nell’abbattere il regime di Gheddafi senza poi minimamente gestire le fasi successive credo andrà studiata nei secoli come manuale di quello che non va fatto in generale nel mondo.

Una lunga e saggia esperienza americana di Nation building nei Paesi in cui sono intervenuti sta ormai scemando verso un dilettantismo drammatico e tutto ciò crea terreno di coltura per la nascita e il radicamento dell’Isis e dei jihadisti.

Combattere l'Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

Nel 2006 fu lanciato l’anatema contro la rivista satirica «Charlie Hebdo» e nel gennaio del 2015 c’è stato l’attentato. Pochi giorni dopo, il 14 febbraio 2015, il Califfato minaccia l’Italia: «Prima ci avete visti su una collina della Siria. Oggi siamo a Sud di Roma… in Libia». Cosa dobbiamo aspettarci?

Dobbiamo aspettarci degli attentati. Tanto più perché facciamo guerra all’Isis. Fortunatamente finora la fase è stata quella di attentati fatti da volontari, islamici di seconda generazione che sono andati a cercare il jihad in Afghanistan, in Yemen o in Mesopotamia e poi sono tornati. Non abbiamo avuto alcun attentato per mano di una centrale operativa specifica creata ad hoc dall’Isis, ma questo passaggio verrà a maturazione a breve.

Non possiamo prevedere dove, se in Italia o in Inghilterra o altrove, ma di sicuro ci saranno attentati, anche perché, a differenza di Al-Qaeda, l’Isis ha una valenza anti-cristiana molto marcata.

Come si combatte il terrorismo?

Creando una rete di alleati nel campo avverso. La follia della gestione obamiana della crisi è tale per cui noi non abbiamo alleati.

Siamo alleati con gli uni e con gli altri, vogliamo fare la pace, far fare la pace a sciiti e sunniti, tra i khomeinisti e gli anti-khomeinisti. In Yemen Obama bombarda gli sciiti con i sauditi e in Iraq e Mesopotamia invece a essere bombardati sono gli alleati dei sauditi e ciò va a favore degli sciiti.

È un quadro parossistico, vergognoso che farà sì che questa crisi complessiva continuerà a svilupparsi fino a quando, finalmente, un nuovo o una nuova presidente non prenderà incarico nel gennaio 2017. Abbiamo davanti oltre un anno di tempo durante il quale questa crisi diventerà sempre più ampia.

http://www.sulromanzo.it/blog/combattere-l-isis-sul-campo-le-ragioni-intervista-a-carlo-panella

 

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirestein

29 martedì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

FiammaNirestein, IlCaliffoelAyatollah, intervista, Mondadori, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, saggio, terrore, Terrorismo

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

A ottobre è uscito per Mondadori Il Califfo e l’Ayatollah di Fiamma Nirenstein, un libro che osserva «quello che abbiamo di fronte con gli occhiali dell’analisi e non con quelli dell’illusione» per cercare di capire cosa in realtà sia il terrorismo internazionale.

Il terrorismo si presenta agli occhi degli occidentali come un enigma, una sfinge, al punto che siamo stati persino «incapaci di darne una definizione sancita dall’Onu tanto alligna in noi l’incertezza sia sulla sua ragionevolezza sia su come combatterlo». Una situazione, quella medio-orientale, complessa e di difficile interpretazione per cui facilmente si cade nell’inganno del fraintendimento, come nel caso delle rivolte della Primavera araba, le quali mostrarono molti segnali della loro vera natura «che noi abbiamo ignorato del tutto nel nostro infinito egocentrismo».

Eppure sarà proprio da uno scenario tanto tragico quanto lo scontro fra sunniti e sciiti «che può nascere la speranza di una nuova stabilità». È questo il messaggio che vuol lanciare Fiamma Nirenstein con il suo libro, scritto per dimostrare che gli errori occidentali (sfruttamento, opportunismo legato al mercato petrolifero, colonialismo) comunque non legittimano il terrorismo né tantomeno ne sono la causa. Ne abbiamo parlato nell’intervista che, gentilmente, ci ha concesso.

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

L’immagine che più colpisce all’interno del suo libro è quella dell’Occidente accerchiato da una tenaglia a due ganasce: l’ISIS sunnita e la Repubblica Islamica Iraniana di stampo sciita, entrambe accomunate però da un’aspirazione universalistica in nome dell’Islam. Al di là delle divergenze teologiche, cosa li accomuna?

Li accomuna il progetto di conquista del mondo intero e la volontà di convertirlo alla loro dottrina, l’Islam, anche se uno è sunnita e l’altro sciita.

Li accomuna poi la maniera con cui cercano di portare a compimento il progetto. L’assoluta mancanza di rispetto per i diritti umani che, come descrivo nel libro, si riscontra nelle azioni dell’Isis ma anche nella Repubblica Islamica Iraniana dove vige la shari’a.

Le azioni dell’Isis sono più visibili e più terrificanti ai nostri occhi ma la situazione è da film dell’orrore anche in tutto il mondo iraniano.

Entrambi inoltre hanno ambizioni imperialistiche. L’Iran ormai controlla il Libano, parte della Siria tramite l’assistenza ad al-Assad con l’aiuto degli Hezbollah, lo Yemen, l’Iraq… la sua aspirazione possiamo convenire che sia diventata, almeno in parte, una realtà. Mentre l’Isis ha fondato lo Stato Islamico che comprende una parte della Siria e una dell’Iraq, che tende a espandersi.

L’Isis lo fa in maniera più evidente, dichiarando di voler combattere contro l’Occidente e sottometterlo ai capi e all’ideologia islamista.

È lecito pensare a una futura alleanza tra Isis e Iran o almeno a un accordo, oppure prevarranno la controversia religiosa e l’impossibilità della convivenza tra due universalismi islamici che hanno la loro base in Medio Oriente?

Il terrorismo ha consentito già molte alleanze ai danni dell’Occidente. Basti pensare che si dice che Osama Bin-Laden, sunnita e fondatore di Al-Qaeda, si è nascosto a Teheran per un periodo. Hamas, sunnita, si è appoggiata per molto tempo all’Iran e parte dei suoi capi vivevano a Damasco.

Gli esempi da poter fare sono molti… Ora l’elemento guerra è più forte tra sunniti e sciiti perché c’è il campo di battaglia siriano che spinge in questa direzione. Ma sì, è relativamente realistico pensare a possibili alleanze.

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

Restiamo un attimo in Medio Oriente. Nell’epigrafe del libro, ringraziando Bernard Lewis, lei afferma che occorrono coraggio e sapienza per comprenderlo. Perché?

È evidente nell’odio irragionevole che caratterizza una parte dell’opinione pubblica, anche occidentale, nei confronti di Israele. Molto spesso si cercano delle scappatoie, la mente rifugge dal vedere le cose come stanno veramente. Inoltre ci vuole molto anticonformismo e tanto buonsenso, come quello che ci ha insegnato il professor Lewis, per non indulgere in fantasie che vedono l’Occidente colpevole e responsabile di chissà cosa nei confronti del Medio Oriente. Ciò non fa che allontanarci dalla comprensione della realtà, la quale è comunque molto complessa e di ardua interpretazione.

Troppe ancora sono le immagini stereotipate. Pensiamo alla figura di Yasser Arafat, da molti visto come un eroe che si è battuto per la libertà del popolo palestinese quando in realtà non è che l’inventore del terrorismo internazionale.

Troppe le cose che in fondo si finge di non capire, come il fraintendimento della Rivoluzione Islamica Iraniana considerata una rivoluzione sociale dovuta alle terribili condizioni in cui era stato ridotto l’Iran. Nessuno era in grado di leggere i testi di Khomeini, in cui si spiegava chiaramente quale era il disegno perseguito, ovvero la creazione di uno Stato Islamico Integralista. Soltanto Bernard Lewis, che conosceva il persiano e che aveva letto quei testi, sapeva con precisione cosa stava accadendo.

Occorrono conoscenza, pazienza, capacità di discernimento, intento e buona volontà per sbrogliare la Storia dai nostri pregiudizi.

«Il Medio Oriente e l’Africa si prendono la loro vendetta per essere stati tanto incompresi». Si tratta solo d’incomprensione o è anche il frutto di politiche occidentali non proprio attente alle conseguenze?

Certamente ci sono state delle politiche occidentali di sfruttamento, di opportunismo legato al mercato petrolifero, di colonialismo… guai a dimenticarsene. Ma ciò di certo non legittima il terrorismo.

L’intento del mio libro è proprio dimostrare questo, cercare di spiegare i motivi di quanto accaduto a Parigi, attentati non legati al fatto che l’Occidente è o è stato colonialista, bensì motivati dall’intento imperialista che il terrorismo nutre a sua volta. E non sono animati né da ragioni sociali né da ragioni storiche, solo da una spinta ideologica. I terroristi sono mossi da una volontà religiosa di dominio.

In Israele accade la stessa cosa. Il terrorismo che c’è nello Stato non ha nulla a che vedere con lo scontro territoriale, altrimenti si sarebbe già giunti a un accordo. Una proposta che prevede due Stati per due popoli fatta decine di volte, a cui io personalmente sono favorevole. Ma gli estremisti hanno un’altra idea, ovvero che Israele deve appartenere solo alla umma musulmana e che gli ebrei se ne devono andare.

Cosa significa oggi per il Medio Oriente trovarsi in balia dell’Isis e della minaccia atomica dell’Iran? Si tratta davvero di un conflitto interno al mondo mediorientale, come ritengono alcuni, oppure l’intervento dell’Occidente è ineludibile e necessario?

L’Occidente non deve combattere solo per intervenire nello scontro tra sunniti e sciiti, ora più evidente che mai, ma deve farlo soprattutto per difendersi.

Siccome il disegno di entrambe le fazioni è imperialista e il mezzo che hanno deciso di impiegare è il terrorismo, è chiaro che noi o restiamo vittime del terrorismo oppure dobbiamo difenderci. Se ciò si tradurrà poi nello andare boots on the ground, come si dice “con gli stivali sul terreno”,o meno è solo una questione tattica non strategica. Una cosa è certa: c’è da combattere e da difendersi.

Si tratta di fare una guerra difensiva, di necessità, senza alcun carattere imperialista. Noi occidentali, siccome abbiamo avuto le terribili esperienze delle guerre mondiali, siamo molto restii a questo, giustamente. Rimane sempre un dubbio, un sospetto sulle intenzioni… la paura del riaffacciarsi delle guerre di conquista. Ma ora non si tratta di questo.

Il mondo è punteggiato, in maniera sempre più virulenta, da attentati terroristici che ormai coprono tutta la carta geografica e l’intenzione viene dichiarata continuamente dall’Isis. Da parte dell’Iran è meno esplicita ma tutti gli studi e tutta l’esperienza confermano la minaccia.

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

Banche, pozzi petroliferi, finanziatori stranieri, acquisto di armi dall’Occidente, una casa di produzione (Al-Itisaam establishment for the Media Production), una casa cinematografica (Al-Hayat Media Center) e una società di comunicazione (Al-Furqan): più che un gruppo terroristico, l’Isis sembra una holding della guerra santa. Le sembra esagerata una tale lettura?

No, lei dice benissimo. Le cifre di cui l’Isis gode, per finanziare il proprio progetto, sono enormi. Centinaia di migliaia di dollari di budget. Questa è infatti una grande differenza rispetto ad altre organizzazioni, quali Hamas. L’Isis non dipende da donazioni, ha dato vita a un sistema di guadagno che va dalle rapine alle richieste di riscatto, al commercio di opere d’arte, occupa territori dove ci sono pozzi petroliferi importanti e vende petrolio.

In Iran, d’altra parte, proprio mentre noi parliamo cadono le sanzioni, daranno al Paese centinaia di migliaia di dollari e non abbiamo alcuna garanzia che tutto questo denaro non venga poi impiegato per progetti antagonisti innanzitutto a Stati Uniti e Israele, indicati come il grande e il piccolo Satana. Definizione mai smentita, anzi più volte ribadita da Khamenei sia durante che al termine dellaTrattativa 5+1.

Inoltre una Commissione apposita istituita dagli americani, di cui sono stati pubblicati i risultati pochi giorni fa, ci dimostra che tutte le condizioni dell’Accordo ancora non sono state poste in essere. L’Iran doveva mantenere solo 3000 centrifughe di vecchia costruzione e invece ha ancora centrali di ultima generazione che in breve possono produrre uranio arricchito necessario per una bomba, non ha ancora liquidato le sue riverse di uranio, non ha distrutto le fabbriche di plutonio arricchito… e l’elenco è ancora lungo, lo si trova facilmente anche nel mio libro.

Lei sostiene che dobbiamo guardare all’Isis «come all’affacciarsi su di noi di un’apocalisse in senso tecnico», con gli attentati che rispondono a una strategia ben precisa che lega insieme terrorismo e propaganda. Insomma, una guerra vera e propria?

Sì, la si può considerare una guerra non convenzionale vera e propria. C’è un uso spietato dei civili, l’impiego dei mezzi di comunicazione di massa contemporanei, come i social network, sia per diffondere informazioni che per trovare adesioni.

Purtroppo funziona. Basti guardare ai giovani foreign fighter che scelgono di arruolarsi tra le loro fila, non per motivi sociali, molti di loro hanno studiato, hanno famiglie che li amano, hanno un lavoro… sono mobilitati, vittime di malattie ideologiche esattamente come noi occidentali lo siamo stati nel secolo scorso, pensiamo al Nazismo, al Comunismo…

Dobbiamo ammettere di trovarci di fronte a una malattia ideologica e affrontarla come tale, oltre che con le armi, altrimenti non riusciremo a vincere.

Un esempio molto importante è quello palestinese. Si parla sempre della loro volontà di creare un proprio Stato, se ciò fosse vero l’avrebbero fatto da tempo. Tante volte gli è stata offerta questa possibilità. Ciò che li spinge, come si vede anche durante l’ultimaIntifada definita dei coltelli, è un’incredibile macchina della propaganda. Consiglio di visionare il materiale che si trova sul sito Palestinian Media Watch per vedere tutto quello che viene trasmesso dai media palestinesi, altrimenti non si comprende questa macchina dell’odio che spinge tanti giovani ad accoltellare, a investire con le automobili…

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

Nel suo libro, c’è un’altra immagine che colpisce molto, quando paragona la paura del Vecchio Continente a quella «avvertita quando l’immortale Impero romano ha cominciato a sgretolarsi». Fino a che punto possiamo parlare di sgretolamento del Vecchio Continente?

Possiamo far cominciare lo sgretolamento del Vecchio Continente, ma in realtà di tutto l’Occidente, da quando l’Onu ha cambiato completamente la sua natura.

All’interno delle Organizzazioni Unite si sono formate delle maggioranze legate prima all’Unione Sovietica, quella dei Paesi denominati “non allineati” e dei Paesi arabi e musulmani in generale, che hanno completamente rovesciato l’idea originaria dell’Onu. Nata in seguito agli orrori della seconda guerra mondiale avrebbe dovuto combattere per la difesa della libertà, per la promozione dei deboli e delle donne, per l’uguaglianza dei cittadini e per la diffusione di tutte le idee, indipendentemente da chi appartenessero. È accaduto l’esatto contrario. Tutti i nostri valori sono stati minati da un’organizzazione internazionale che ha cominciato palesemente a combatterli.

Da presenza compatta e morale in difesa della libertà e della democrazia siamo diventati una comunità incerta e impaurita, con un fortissimo senso di colpa legato al continuo fraintendimento e stravolgimento delle proprie idee da parte avversa.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-minaccia-islamica-tra-isis-e-iran-intervista-a-fiamma-nirenstein

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

10 giovedì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

FrancoCardini, intervista, MarinaMontesano, Mondadori, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, saggio, terrore, Terroreeidiozia, Terrorismo

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

È innegabile che, dopo la strage al Bataclan, siamo scesi in guerra.

Ma chi è il nostro nemico? Qual è il suo scopo? E quello di chi lo combatte? Come si vince la guerra contro il terrorismo? Quali sono i principali errori commessi dall’Occidente? Domande che è opportuno porsi e risposte che potrebbero anche lasciare increduli o irritare ma che è giusto conoscere.

Terrore e idiozia. Tutti i nostri errori contro il terrorismo islamista esce domani, 11 dicembre, per Mondadori, scritto a quattro mani da Franco Cardini, docente di Storia Medievale alla Scuola Normale di Pisa, saggista e studioso dei rapporti tra il mondo cristiano euromediterraneo e l’Islam, e da Marina Montesano, docente di Storia Medievale all’Università di Messina, studiosa di storia della cultura medievale e dei contatti tra Oriente e Occidente letti attraverso le fonti della storia delle crociate e del pellegrinaggio.

Poche settimane di lavoro sono bastate a Franco Cardini e Marina Montesano per raccogliere e riunire per iscritto tutti gli errori commessi e le idiozie pensate o dette riguardo quanto sta accadendo e rischia di trascinare tutti nell’ennesima carneficina voluta dagli uomini per “salvare il mondo (occidentale) e condurlo alla pace”.

Proprio di tali errori abbiamo parlato con Franco Cardini, in quest’intervista rilasciata in anteprima a Sul Romanzo, pochi giorni prima dell’uscita di Terrore e idiozia. Tutti i nostri errori contro il terrorismo islamista.

Fin dal titolo, una presa di posizione molto netta. Quali sono le idiozie e gli errori più comuni e pericolosi che l’Occidente sta commettendo nei confronti del terrorismo islamista?

Ve ne sono di più tipi. C’è quella dei politici e dei capi di Stato ad esempio, che in linea di massima fingono di non capire, o non capiscono, che siamo davanti a un movimento politico, che è quello jihadista, che non ha nulla di religioso a parte qualche slogan, che vuole l’unione di tutti i musulmani per combattere l’Occidente.

Ci troviamo dinanzi a un postulato ideologico che sembra fatto apposta per attaccare un ambiente che si sta proletarizzando. L’Islam conta un miliardo e seicento milioni di persone, la maggior parte delle quali appartiene a ceti sociali bassi, sia culturalmente sia economicamente, ma che comunque guardano allo sviluppo europeo. Che hanno presente, seppur in modo molto schematico, le ragioni per cui il mondo occidentale è diventato ricco e si è diffuso con la sua potenza, non soltanto per la forza delle sue invenzioni e delle sue scoperte, ma anche per il sistema coloniale, che è stato un sistema di sfruttamento.

Difronte a questa realtà non si può reagire combattendola come fosse uno sbocco di violenza irrazionale, non si riuscirà a vincere con gli aerei, con i droni o con le truppe di terra.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Perché secondo lei si continuano a impiegare questi metodi indicandoli come risolutivi?

Le potenze occidentali e anche il mondo musulmano alleato delle prime, soprattutto le monarchie del golfo Persico e della penisola arabica, non riescono a mettersi d’accordo. Questo sarebbe già un elemento di stupidità se non venisse anche il sospetto, e nel libro si parla pure di questo, che in realtà non si combatte questo nemico perché tutto sommato non è tale ma fa comodo a qualcuno.

Da un lato c’è la difficoltà dei politici, il loro impantanarsi in dichiarazioni di guerra totale al fenomeno jihadista, che appaiono molto ferme ma non lo sono affatto. Ricordiamo che la coalizione contro il cosiddetto Stato Islamico non è invenzione recente, non è nata dopo l’attentato di Parigi del 13 novembre, è in piedi da un anno e mezzo.

Così una coalizione composta dalle principali potenze occidentali, inclusi noi anche se siamo il fanalino di coda, dai Paesi arabi-musulmani (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Egitto…), compresi Paesi musulmani che non sono arabi, come la Turchia, non ha fatto niente se non impantanarsi in questioni particolari come il caso della Siria.

Cos’è successo in realtà in Siria?

Intorno alla questione siriana è sorta una ferocissima polemica soprattutto in merito al fatto che il presidente Assad resti in carica o si ritiri. Quanto accaduto è dovuto alla grave mancanza di previdenza e intelligenza dei politici… Assad aveva proposto da tempo una riforma costituzionale in Siria che avrebbe portato alle elezioni sulla base di un pluripartitismo. Ebbene la sua proposta non è stata accettata, le potenze occidentali l’hanno ritenuta strumentale e demagogica, quando in realtà sarebbe stato un modo per pacificare, almeno temporaneamente, il Paese e andare a libere elezioni. Ora la Siria è inquinata da forze jihadiste aderenti all’ISIS che hanno in pratica fagocitato tutte le altre formazioni anti-Assad.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Qual è stato il ruolo, se ne hanno avuto uno, dei media internazionali?

I media continuano a non informarci correttamente, parlando un linguaggio per un verso allarmistico e per un altro molto generico. Lasciano intendere che tutto l’Islam è pericoloso, il che non ha il minimo fondamento.

Nel mondo islamico ci sono continue lotte: quelle tra i gruppi religiosi, gli sciiti e i sunniti, e poi tra Stati musulmani, che spesso non si limitano all’aspetto politico diventando veri e propri scontri militari.

I nostri mass media continuano a non informarci di tutto ciò, mostrando invece una sorta di colata lavica che sta avanzando e che può travolgere l’Occidente. Sembra tutto studiato per generare in noi apprensione, disorientamento, per indurci ad azioni inconsulte. E a ben riflettere ciò è proprio quello che vogliono le centrali terroristiche. Se ci lasciamo terrorizzare facciamo il loro gioco. Non capire una cosa così semplice è da idioti.

In quest’ottica, come valuta la reazione del governo francese ai recenti attentati che hanno colpito Parigi?

Lascia senza parole la reazione inconsulta del presidente Hollande. Se ne capisce purtroppo la logica politica ma questa è un’aggravante.

Non si reagisce a una cosa grave come quelle accaduta in territorio francese, fatta da cittadini francesi o belgi che tali restano anche se di fede musulmana, con un’azione unilaterale di bombardamento indiscriminato su un centro urbano, anche se poi hanno sostenuto di aver ucciso solo terroristi, non si capisce bene sulla base di quali fonti o risultanze.

Bombardando un centro urbano non si uccidono solo militari (i terroristi si comportano come tali) ma anche la popolazione civile. Ora noi non siamo in guerra con Raqqa, una città che dipende formalmente dal governo iracheno, un Paese alleato, amico. Noi italiani stiamo addestrando l’esercito e la polizia iracheni. Raqqa è occupata dalle forze dello Stato Islamico, tenuta in ostaggio da una banda di briganti, e non si possono bombardare dei civili che oltretutto sono già delle vittime.

Hollande è presidente di un Paese, la Francia, che fa parte dell’ONU e dell’Unione europea e non può procedere unilateralmente solo sulla base di un bisogno di fare una rappresaglia che, se proprio la vogliamo chiamare col suo nome, è una vendetta, consumata però ai danni di persone del tutto innocenti rispetto a quello che è successo a Parigi.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Quali saranno le dirette conseguenze di queste azioni?

Regalare simpatie al Califfo. Mettiamoci nei panni di una persona a cui sono stati ammazzati dei famigliari a causa dei bombardamenti fatti dall’aviazione di un Paese che sostiene di essere nemico dello Stato Islamico. Le simpatie dei superstiti penderanno sempre più per il Califfo, e ciò è proprio quello che lui vuole.

Prima ha parlato delle influenze della disinformazione. Queste, unitamente alle azioni dei governi, quanto vanno a incidere sull’opinione pubblica?

Non si può spargere disordine, paura indiscriminata, apprensione. È un’idiozia. Equivale a fare il gioco dei terroristi.

Gli operai musulmani picchiati, le facciate delle moschee sporcate con sangue di maiale, le famiglie che rivendicano la tradizione del presepe in odio ai bambini musulmani… Io sono invecchiato sentendo la storia, che annualmente si ripete, di qualche famiglia che protesta per il presepe nella scuola, ma a ben guardare è sempre stato uno scontro tra italiani, i musulmani non hanno mai detto nulla in proposito.

L’Islam considera Gesù un grande profeta e ha una forte venerazione per la Madonna. I musulmani non hanno alcun preconcetto, sono alcuni italiani che portano avanti campagne per una scuola laica o, per contro, azioni motivate dall’intenzione di ferire l’altro che deve essere un nemico per principio.

Come si combatte il terrorismo?

Senza dubbio c’è un pericolo ma, da che mondo è mondo, il terrorismo non lo si batte con i bombardamenti. Lo si fa con l’intelligence, con l’infiltrazione, individuando i centri terroristici, distruggendo alle radici le ragioni per cui qualcuno potrebbe decidere di andare a fare il terrorista.

Ci sono ragazzi che vanno a fare i soldati col Califfo che sono stati allevati da noi, con i nostri valori… sono drogati, spaesati, marginalizzati, si può dire tutto ma bisogna pur chiedersi perché a un certo punto la nostra società li delude talmente da spingerli a unirsi a una banda di tagliatori di teste.

Il Califfo è un nemico che si riuscirà a sconfiggere?

Si riuscirà a batterlo. Insomma il Califfo ha una cinquantina di migliaia di persone al suo seguito, non di più. Certo sono ben armati, sono ben addestrati e bisogna interrogarsi su chi gli dà i soldi per finanziarsi.

Una delle ragioni per cui i turchi hanno abbattuto l’aereo russo sembra riconducibile al fatto che la Russia fosse sul punto di bombardare un convoglio di petrolio pompato dal Califfo che si stava dirigendo verso la Turchia.

In una situazione internazionale come la nostra, nella quale ogni cosa è costantemente monitorata, tutti i movimenti di conti, anche di importo non particolarmente rilevante, sono controllati, ebbene in questo sistema dovremmo credere al racconto che non si riesce a individuare la fonte finanziaria alla quale attinge il Califfo?

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

C’è chi teme che nei prossimi decenni vi sarà una lenta e inesorabile islamizzazione del continente europeo. Che cosa ne pensa e cosa direbbe ai sostenitori di questa ipotesi?

Noi cristiani d’Europa, pur non avendo una forte identità religiosa, siamo cinquecento milioni di persone abbastanza ricche nel complesso, o comunque in rapporto alla media islamica. I musulmani che per il momento sono tra noi, considerando quelli che arrivano e quelli che si convertono, ammontano circa a una decina di milioni di persone in tutta Europa. Quelli che paventano queste teorie qualche calcolo lo hanno mai fatto?

Inoltre bisognerebbe chiedersi: con quali strumenti ci convertirebbero? Io vedo le moschee che sono molto modeste, spesso non gliele facciamo neanche aprire. I loro giornali sono altrettanto modesti. Non hanno un’università…

Capirei che qualcuno avesse paura di essere colonizzato dai protestanti, che hanno moltissimi mezzi. Dagli ebrei, che sono pochi ma hanno molti mezzi e sono molto colti. Io non ho mai visto alcun accenno di colonizzazione da parte degli islamici.

Ritornando alla Turchia, lei ritiene possa essere visto come un Paese-ponte fra Occidente e Oriente oppure un tentativo mal riuscito di integrazione di un territorio di pace fra Cristianesimo e Islam?

La Turchia è un Paese che si è fortemente occidentalizzato, anche in maniera autoritaria. Già nell’Ottocento scelte fatte da sultani andavano in questa direzione, poi c’è stata una grande rivoluzione europeizzatrice condotta da Mustafa Kemal Atatürk.

In questo momento c’è una situazione di reflusso e anche di simpatie islamistiche, per un verso di volontà di riforma nei confronti delle tradizioni musulmane e per l’altro proprio di inclinazioni a favore dello Stato Islamico.

Erdogan, che certo non nutre simpatia verso l’IS, è un politico che ha ricevuto vantaggi dal cauto ritorno a una condizione nella quale la fede islamica ha più peso rispetto al passato. In questo momento, non ha più tanto interesse a entrare in Europa come un tempo. Le sue richieste furono bocciate e gli fu addirittura chiesto di condurre delle prove di lealismo verso l’Europa. Noi abbiamo abolito la pena di morte mentre in Turchia ancora c’è, però l’UE si sente parte dell’Occidente e noi sappiamo che Paesi occidentali mantengono la pena di morte, gli Stati Uniti d’America, per esempio, dove viene applicata piuttosto spesso. Per cui si poteva anche venire incontro a questo processo di europeizzazione della Turchia, che era sincero. Non lo è altrettanto adesso, perché il clima è cambiato.

Erdogan ora ha altre possibilità: ha davanti a sé il mondo musulmano in crescita, è diventato, insieme ad altri Stati quali l’Egitto e l’Arabia Saudita, uno dei principali Paesi musulmani sunniti del mondo, ha davanti a sé anche la possibilità di attrarre Paesi musulmani sunniti del centro dell’Asia che hanno una forte componente etnica turca. Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan, Kyrgyzstan… grandi produttori di petrolio e di materie prime, verso i quali Erdogan sta facendo una politica di fratellanza etnica volta alla creazione di un potenziale mercato comune. Ovvio poi che ciò lo mette in rotta di collisione con la Russia, ma questi due Paesi sono geo-politicamente destinati a essere nemici.

In questa fase, a Erdogan l’Europa sta stretta, magari è interessato a rimanere nella NATO che attualmente è un’organizzazione paralizzata da una buona dose di ambiguità nei confronti dello Stato Islamico.

La Francia tende a risolvere principalmente la questione siriana eliminando Assad, altri Paesi NATO non sono dello stesso avviso, molti Stati membri ritengono che tra l’IS e alcuni Paesi arabi nostri alleati ci siano dei rapporti. Non si osa dire che c’è un rapporto di amicizia, di collaborazione o di complicità ma questo è nelle cose perché molto probabilmente tra la compagine dello Stato Islamico e quella dell’Arabia Saudita, del Qatar e della stessa Turchia ci sono delle relazioni anche a livello governativo.

Lo stiamo vedendo: se i Paesi occidentali della Nato lo volessero davvero, il Califfo sarebbe spazzato via in pochi giorni.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Cosa andrebbe fatto?

Tanto per cominciare ci vorrebbe una campagna di terra. E proprio su questa gli Stati membri non trovano un accordo.

Erdogan sostiene che sarebbe pronto a farla. Noi sappiamo perché la vuol fare: il suo esercito passerebbe dalla Siria e dal Kurdistan, sistemerebbe secondo gli interessi turchi questi Paesi e poi arriverebbe al Califfo e, a quel punto, chissà cosa farebbe. Naturalmente non possiamo permettere che ciò accada. D’altra parte non si può attaccare il Califfo se non con forze musulmane sunnite, perché questi tiene a presentarsi come il più puro rappresentante dell’Islam sunnita. Attaccandolo con un esercito di soldati musulmani sunniti si dimostra al mondo islamico che non è lui il puro rappresentante dell’Islam sunnita.

Il fatto è che queste forze musulmane noi non le abbiamo e Erdogan non vuole mettercele a disposizione, lo stesso vale per il presidente egiziano. Inoltre sono pochissime. Il Maghreb africano non si vuole impegnare. E allora noi con chi la vogliamo fare questa campagna di terra contro il Califfo? Con gli occidentali che lui chiama crociati? Oppure con gli iraniani? È proprio quello che il Califfo vuole. Essere attaccato dagli occidentali e dagli iraniani per dimostrare all’Islam sunnita che lui è il miglior sunnita del mondo, il più degno di esserne il capo, attaccato dai crociati cristiani e dagli eretici sciiti iraniani.

E le campagne aeree?

Batterlo solo per via aerea non è possibile, in quanto le forze del Califfo non sono tante e per poter attaccare efficacemente un’armata militare piccola in un territorio enorme bisogna prima farla concentrare e per fare ciò occorre un’azione di terra. Altrimenti si uccidono solo dei civili inermi, come è già accaduto e sta ancora accadendo purtroppo in Afghanistan.

Il Califfo, evidentemente, ha forti intelligenze in molti Paesi dell’Occidente e dell’Islam sunnita. Per questo continua a sopravvivere. Costituisce di sicuro un pericolo nel vicino Oriente ma va fatto un discorso diverso, in quanto il Califfo non organizza direttamente attacchi terroristici che invece partono da cellule autonome. Se poi queste forze autonome lavorano nella sua direzione e fanno attacchi terroristici efficaci il Califfo se ne appropria, ci mette il suo marchio, come un franchising, dando così l’idea di avere una forza territoriale nel vicino Oriente compatta e un’altra terroristica diffusa in Europa. Ma si tratta solo di un errore visuale ottico.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Eppure è proprio questo errore ottico a spaventare maggiormente l’Occidente. Perché?

È un altro esempio di idiozia il non capire la trappola mediatica nella quale entriamo quando crediamo che il Califfo sia il grande burattinaio del terrorismo europeo.

Il Califfo semplicemente si serve di un terrorismo europeo che è endemico, spontaneo, indipendente da lui che non ci mette un soldo, non ci mette nemmeno uno dei suoi uomini, non fa progetti, lascia che questo terrorismo generi da solo e chiaramente sta riuscendo nel suo intento.

http://www.sulromanzo.it/blog/gli-errori-occidentali-contro-il-terrorismo-islamista-intervista-a-franco-cardini

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l’ultima grande utopia del Novecento

03 giovedì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

GuerinieAssociati, intervista, Lultimautopia, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, RenzoGuolo, saggio, terrore, Terrorismo

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Gli attentati di Parigi del 13 novembre hanno richiamato, con maggiore forza, l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica sulla questione dei foreign fighter. Cittadini europei o immigrati di seconda generazione che scelgono di abbracciare l’Islam più radicale e combattere per lo jihad, addestrati in campi allestiti in Medio Oriente, spesso ritornano in Europa e il motivo si teme possa essere la realizzazione di attentati kamikaze.

Lo stesso commando responsabile degli assalti di Parigi era composto da nove persone, di cui sei cittadini europei. Allora in molti si chiedono quale sia l’utilità della chiusura delle frontiere auspicata da alcune forze politiche come deterrente all’ingresso in Europa di stranieri considerati potenziali attentatori. Altri invece cercano di focalizzare l’interesse sui foreign fighter perché rappresenterebbero quest’ultimi il reale pericolo da cui difendersi.

Chi sono i foreign fighter? Da dove provengono? A quali ceti sociali appartengono? Perché scelgono di convertirsi all’Islam radicale? Davvero questo rappresenta l’ultima grande utopia del Novecento?

Abbiamo rivolto queste domande a Renzo Guolo, docente di Sociologia della politica e Sociologia della religione presso l’Università degli Studi di Padova e di Sociologia dell’islam nel Master di Studi sull’Islam d’Europa, oltre che autore di L’ultima utopia. Gli jihadisti europei (Guerini e Associati, 2015).

Il dibattito attuale sull’Isis, anche a seguito degli attentati del 13 novembre a Parigi, si sofferma spesso sul fenomeno dei foreign fighter, a cui è dedicato il suo saggio L’ultima utopia. Cos’attrae dell’Islam radicale al punto da decidere di andare a combattere per la sua affermazione? È solo la mancanza di ideologie forti in Occidente?

La dimensione ideologica è un elemento rilevante, conferma il fatto che tra i cosiddetti foreign fighter abbiamo un profilo sociale e culturale molto diversificato. Troviamo giovani che provengono dalle banlieue parigine o da Molenbeek, come nel caso degli attentati di novembre, con situazioni di marginalità sociale alle spalle ma anche giovani che provengono da ceti medi. L’ideologia offre loro una sorta di senso che probabilmente dentro al mare fluttuante della modernità liquida non riescono a trovare. Per cui, in condizioni particolari quali il malcontento per la modernità o per la marginalità, questa ideologia che promette di sovvertire e combattere l’ordine mondiale può apparire un elemento che attrae, che dà una forte identità in situazioni in cui queste persone sembrano averne bisogno.

Nel delineare un identikit dei foreign fighter europei, lei nota una trasversalità di fondo che rende difficile stabilire delle caratteristiche fisse, ma ne individua due comuni: sono in prevalenza giovani e diventano musulmani sunniti. Perché l’integralismo islamico riesce a far presa in modo così forte sui giovani europei?

Parliamo di immigrati di seconda generazione per i quali il bagaglio religioso è considerato o un mero elemento culturale o comunque qualcosa di diverso dall’Islam tradizionale, per cui quando decidono di ritrovarlo come ideologia mobilitante imboccano la via del radicalismo proprio per la sua messa in discussione finanche della religione stessa. Per questo tipo di militanti lo jihad è quasi una sorta di sesto pilastro dell’Islam ma se si va a vedere la dottrina islamica non c’è alcun obbligo del credente rispetto a questa dimensione. È evidente che la religione viene vissuta non più come tradizione ma come sostegno alla mobilitazione politica. Il 90% del mondo islamico è sunnita e il radicalismo islamico si è sviluppato, così come noi lo conosciamo ovvero nella forma dello jihadismo, al suo interno, mentre nel mondo sciita di fatto è diventato Stato con la Rivoluzione iraniana del 1979. Anche nel campo dell’Islam politico-radicale in sostanza sono state riprodotte le fratture confessionali antiche.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Tra i foreign fighter in Siria e in Iraq spiccano anche immigrati di seconda generazione. A quale loro esigenza, che non trova riscontro in Occidente, potrebbe rispondere l’Isis? Si può parlare di un’integrazione mancata?

Sì, l’integrazione mancata è un elemento chiave. Lo vediamo attraverso i percorsi per gli immigrati di seconda generazione per esempio nei sobborghi metropolitani londinesi oppure nelle banlieue francesi. Un’integrazione mancata è evidente nel grande percorso che è stato fatto nel tempo dai giovani di banlieue se pensiamo al Movimento di rivolta della fine degli anni ’80. Rompevano le vetrine e si appropriavano dei beni e, paradossalmente, chiedevano l’integrazione attraverso il consumo. Oppure ancora nella rivolta nelle periferiedel 2005 contro l’idea francese dei valori universali veicolati del modello assimilazionista. Testimonianze tutte del fatto che il processo di integrazione si era fermato.

L’Isis è riuscito, facendosi Stato, a mostrare l’Islam radicale come ultima ideologia capace di sovvertire lo status quo appena descritto. E questi ragazzi hanno maturato una sorta di nichilismo religioso con l’idea di distruggere tutto, rovesciare un ordine in cui non ci si può più riconoscere per cercare di instaurarne un altro.

Per comprendere gli accadimenti e le scelte compiute dai foreign fighter lei suggerisce di ampliare il raggio di azione degli studi verso l’analisi del concetto di radicalizzazione e non fermarsi ai risultati delle osservazioni sul terrorismo. Quali sono i punti sostanziali su cui bisogna focalizzare l’attenzione per scandagliare al meglio il fenomeno?

Il concetto di radicalizzazione ci consente di capire cosa succede prima che queste persone scelgano di aderire all’Islam radicale e quindi, in qualche modo, di mettere in atto azioni di prevenzione da parte delle istituzioni, delle società. Proprio perché la radicalizzazione è un processo, si tratta di comprendere quali sono i fattori sociali che possono indurre queste persone ad aderire. Oggi ammontano a circa 5000 gli europei tra i foreign fighter in Siria e Iraq o che ci sono stati in questi anni. Il numero è altissimo. Capire i processi che portano alla radicalizzazione permette anche di comprendere quali scelte politiche e sociali compiere per cercare almeno di ridurre il fenomeno.

Lei indica tra i luoghi della radicalizzazione le moschee, il carcere e soprattutto la Rete. Non è la prima volta che a questa viene imputata una responsabilità in tal senso. Quanto ha inciso sullo jihadismo attuale e quanto lo ha condizionato l’essere nell’era della digitalizzazione?

Ha inciso moltissimo perché un tempo per leggere, ad esempio, il testo di un predicatore islamista radicale bisognava conoscere qualcuno che potesse renderlo disponibile, oppure procurarselo… ma diventava difficile. Oggi invece se voglio leggere i teorici radicali o certe interpretazioni specifiche, la Rete offre un’enorme possibilità di accesso. In più questa è interattiva e ciò consente anche di comunicare con ambienti islamisti radicali. La capacità di proliferazione è molto più accentuata. Basti pensare all’attenzione spasmodica che l’Isis assegna alla costruzione non solo del messaggio ma della produzione mediatica dei docu-film fino ai reportage di combattimento e ai videogiochi di guerra in versione islamista radicale.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Uno dei temi più sentiti dello jihadismo è quello di Shahīd, cioè l’essere testimone della fede attraverso concrete operazioni di testimonianza. Spesso ciò equivale a trasformarsi in veri e propri martiri. Come si inseriscono i foreign fighter in questo? E come interpretano il martirio?

Nell’ideologia radicale il cosiddetto martirio ha un ruolo centrale. Nel momento in cui si aderisce a questi gruppi si dà per scontato che ci sia la consapevolezza a considerare lo jihad come un obbligo personale. Per molti giovani che provengono dalle periferie disagiate questo elemento può diventare un gesto che va a riscattare una vita vissuta come sbagliata, segnata da condotte illecite o poco legate ai principi religiosi. Per altri l’idea di diventare martiri coincide col testimoniare, con la propria scelta, un percorso in cui si dimostra che si è stati coerenti fino in fondo. È evidente che la credenza del martirio deve essere fatta propria in pieno. Non è escluso il ripensamento. Pensiamo al caso, probabilmente, dell’ultimo membro del commando di Parigi che sembra essersi sottratto a questo compito. In fondo si tratta di togliere la vita ad altre persone e a se stessi.

Restando in tema, alcuni giornalisti sostengono che il martirio, ovvero l’immolarsi per la causa, spesso equivalente al diventare un kamikaze, in realtà abbia poche valenze religiose o spirituali ma sia dettato da un bisogno economico estremo. In altre parole i martiri acconsentono a diventare tali perché in cambio hanno ricevuto la promessa di un indennizzo/risarcimento per i familiari. Ritiene che questa si possa effettivamente spiegare solo ricorrendo a tale motivazione? Ed è possibile formulare una tale ipotesi anche per i foreign fighter? 

Ci sono casi molto diversi, può esserci anche l’elemento della compensazione materiale. Ma non è questo l’elemento determinante, che io penso sia legato all’idea di sacrificio di sé per una causa superiore. Lo abbiamo visto anche con i tanti casi di suicidio in Iraq e Siria: molti foreign fighter che si sono fatti saltare in aria lo hanno visto come la logica conclusione di un percorso di rifiuto dell’esistenza precedente ed è come se si cercasse, con questa scelta, di tagliare i ponti con tutto quello che era terreno per porsi in un piano extra-mondano. Il motto che ripetono spesso è: non c’è altra ricompensa più grande del martirio, visto come un qualcosa che regala una forte identità personale e consente di metterla al servizio della causa.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Il titolo del suo saggio è molto emblematico, ma “ultima” è da intendersi nel senso di “definitiva” o nel senso di “più recente”, l’ultima in ordine cronologico? Cioè, ritiene possibile pensare a un’utopia in grado di fronteggiare quella proposta dall’Isis?

Le utopie si presentano ciclicamente, quando ho scelto il titolo “ultima” l’ho legata sia al fatto che io leggo il radicalismo islamico come l’ultima grande utopia del Novecento, anche se i suoi effetti si vedono nel nuovo millennio, e al contempo è come se fosse l’ultima perché oltre questa sembra non esserci più niente. Questa può essere l’ultima utopia che si realizza anche attraverso la morte, per cui diventa una dimensione in cui la vicenda extra-terrena ha altrettanta e forse maggiore rilevanza di quanto accade nel regno del qui e ora.

http://www.sulromanzo.it/blog/chi-sono-i-foreign-fighter-il-radicalismo-islamico-l-ultima-grande-utopia-del-novecento

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’Isis”, intervista a Sergio Romano

19 giovedì Nov 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

intervista, Laquartasponda, Longanesi, monocolooccidentale, Occidente, Oriente, saggio, SergioRomano, terrore, Terrorismo

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

A meno di un anno dall’assalto alla redazione della rivista satirica «Charlie Hebdo», il 13 novembre 2015 Parigi subisce un nuovo attacco terroristico, questa volta diffuso. Sei volte in 33 minuti, almeno129 morti e oltre 300 feriti. Questi i numeri della carneficina di venerdì notte.

Perché Parigi? Perché la Francia? Tutto l’Occidente si interroga, chiedendosi se la scelta caduta su la Ville Lumière sia motivata oppure se il commando kamikaze abbia agito all’impazzata, a caso, e questo significa che potrebbero colpire chiunque, dovunque, in qualsiasi momento. Minacce vere o presunte all’Italia e alla sua capitale mettono in allerta anche gli italiani alla soglia del Giubileo.

Il presidente Hollande ha così indicato lo schema d’attacco: «ideato in Siria, pianificato il Belgio, eseguito in Francia. Un modello usato in precedenza su scala minore che ora rischia di essere riprodotto anche in altre parti d’Europa e non solo».

Ne abbiamo parlato con Sergio Romano, già ambasciatore NATO e a Mosca, attualmente editorialista del «Corriere della Sera» e di «Panorama», in occasione della pubblicazione, per Longanesi, nella nuova edizione, aggiornata, de La quarta sponda. Quella compiuta dall’autore è un’attenta analisi volta a capire i conflitti tra Occidente e Islam, gli scontri interni al mondo islamico nonché gli errori strategici dei Paesi europei e degli Stati Uniti.

Gli attentati di Parigi confermano il tentativo dell’ISIS di portare la guerra in Occidente, concretizzando un obiettivo ampiamente dichiarato. Come s’inserisce questo all’interno dell’attuale scenario geopolitico internazionale?

Credo che l’attacco di Parigi sia un contrattacco, provocato dalle difficoltà in cui si trova l’Isis nei territori di Iraq e Siria. In queste ultime settimane, l’Isis ha subito una serie di disfatte, alcuni suoi leader sono stati uccisi, sta perdendo una parte del territorio che aveva conquistato… la coalizione che si è formata nel corso degli ultimi mesi sta quindi producendo dei risultati piuttosto positivi. I bombardamenti aerei sembrano funzionare. Ed è questa la ragione per cui io credo che l’Isis, a un certo punto, abbia deciso di cercare di rovesciare la situazione colpendo il fronte interno.

Ha colpito la Francia perché questa è, da un certo punto di vista, il Paese più vulnerabile. Ha la maggiore comunità musulmana in Europa, con l’eccezione della Russia naturalmente, dove i musulmani sono molto più numerosi ma il Paese è più lontano.

Questa comunità musulmana agli occhi dell’Isis è un serbatoio di volontari. Sono le comunità musulmane nei Paesi occidentali che possono maggiormente fornire quelli che sono stati definiti foreign fighters.

Credo che la tattica, o strategia, dell’Isis vada vista sotto questa luce: sta combattendo, o sta cercando di combattere in Francia perché sta perdendo terreno in Iraq e in Siria dove ha il suo territorio. La debolezza dell’Isis in questo momento offre alla coalizione la possibilità di agire con maggiore efficacia, soprattutto se riuscisse a diventare più omogenea e più organica.

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

In molti sostengono che quella dell’Isis sia una guerra interna all’Islam. Fino a quale misura possiamo ritenere fondata una tale affermazione?

L’Isis è un movimento sunnita e noi sappiamo che in questi ultimi anni la destabilizzazione del Medio Oriente ha provocato il risveglio di un vecchio conflitto religioso tra le due anime dell’Islam, i sunniti e gli sciiti. Non c’è dubbio che questa vecchia ruggine fra le due maggiori componenti dell’Islam ha in qualche modo contribuito a rendere il conflitto ancora più aspro.

Il principale obiettivo dell’Islam sono i Paesi occidentali ma non escludo effettivamente che questa sorta di guerra civile e religiosa tra sunniti e sciiti esplosa nuovamente sia diventata importante, soprattutto per i grandi Paesi come l’Arabia Saudita e l’Iran, vale a dire i Paesi che sono la maggiore espressione delle due grandi anime dell’Islam.

Oggi, in molti rimpiangono il regime di Gheddafi, quasi fosse l’unica soluzione possibile ad arginare l’avanzata dell’Isis. Lei stesso sottolinea i danni generati dall’interventismo francese. Quali sono le conseguenze più significative?

Anzitutto la spedizione anglo-francese fu sbagliata perché non avevano preso in considerazione quale sarebbe stato l’assetto politico-costituzionale della Libia dopo la scomparsa di Gheddafi. Quando si vuole eliminare un regime, bisognerebbe sempre avere delle idee abbastanza chiare su ciò che dovrà accadere il giorno dopo, e questo non è accaduto. In quel momento, nel 2011, l’Isis non rappresentava un problema. Non avevano preso in considerazione il fatto che la struttura della società libica è tribale, con conflitti interni che sarebbero, come è accaduto, riesplosi.

Poi l’Isis ha approfittato di questa situazione caotica in Libia dopo il fallimento dell’operazione anglo-francese per intervenire. È così che in genere il radicalismo, l’integralismo islamico appare sulla scena. È già accaduto nel caso di Al-Qaeda.

Non c’era Al-Qaeda in Iraq nel 2003 quando gli Stati Uniti invasero e occuparono il Paese, apparve nel momento in cui, avendo disintegrato il regime di Saddam Hussein, trovarono spazio per le loro ambizioni, per i loro piani strategici.

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

Ne La quarta sponda, inquadra la questione libica anche all’interno del contesto delle rivolte di Tunisia ed Egitto del 2010. Queste rivolte rappresentano la “primavera araba” come indicato dalla stampa internazionale? E come s’inseriscono nel processo di diffusione dell’Isis?

Credo che non dovremmo più parlare di “primavera araba”, piuttosto constatare che quei movimenti, quelle piazze piene di gente che protestava contro il regime di Ben Ali in Tunisia e contro quello di Mubarak in Egitto erano il segno di una protesta reale, non c’è dubbio che c’era una grande insoddisfazione, soprattutto generazionale. Nuove generazioni che avevano in qualche modo ambizioni suscitate anche dal fatto che potevano, a differenza dei loro padri e dei loro nonni, vedere meglio grazie alle nuove tecnologie quello che stava accadendo altrove, quello che la modernità rappresentava in altri Paesi.

Però in quelle piazze non c’erano movimenti o partiti politici quindi sono certamente riusciti a cacciare Ben Ali e far dimettere Mubarak ma non sono stati in grado poi di istituire un regime nuovo, creare nuove stabilità basate su progetti organici e quindi i paesi sono in modo diverso precipitati nel caos.

Le rivolte arabe, se vogliamo continuare a chiamarle così, non furono vere rivoluzioni, bensì manifestazioni di disagio economico e sociale. Riuscirono a distruggere il regime esistente ma quel regime venne poi sostituito da altri e, nel caso dell’Egitto, abbiamo un regime di carattere militare.

Lei sottolinea il filo diretto che lega «lo sbarco a Tripoli e il colpo di pistola sparato a Sarajevo il 28 giugno 1914» ma precisa che questo legame si «intreccia con altri più antichi che imprigionano l’Europa in una fitta trama». A cosa si riferisce in particolare?

La tesi secondo cui la guerra libica ebbe l’effetto di provocare le guerre balcaniche e una serie di avvenimenti che si conclusero sì con quel colpo di pistola sparato a Sarajevo, ma le cause furono altre e numerose. Anzitutto vi era il declino di tutti gli imperi, che già da molto tempo davano segni di grande malessere.

Il primo, l’impero ottomano, che stava declinando ormai da molto tempo. L’altro, l’impero austro-ungarico, che proprio per salvare se stesso volle trasformare l’attentato all’arciduca nell’occasione per regolare i conti con la Serbia e ricostituire la propria influenza nei Balcani.

Quindi la Libia giocò la sua parte, come tanti altri eventi, ma non possiamo stabilire un rapporto diretto di causa-effetto.

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

Lei paragona quanto sta accadendo in Libia ora a quanto accaduto in Iraq nel 2003. Alcuni ritengono che l’idea di Stato islamico sia sorta proprio dai deposti membri dello sconfitto esercito di Saddam. Dobbiamo aspettarci qualcosa di simile anche in Libia?

La Libia è molto più frammentata, è un Paese tribale. In Iraq la situazione non è così. Esistono dei grandi gruppi etnico-religiosi che sono per l’appunto la maggioranza sciita e la minoranza sunnita, i curdi nel Nord, ma non credo che sia facile e giusto stabilire un confronto troppo stretto tra gli avvenimenti libici e quelli iracheni. In Iraq le strutture statali preesistenti non sono mai state completamente distrutte. Ancora oggi rimane traccia di strutture statali importanti: le università, i tribunali, la gestione politico-amministrativa delle varie province. In Libia non c’è nulla. Quel poco che c’era è praticamente scomparso. Il Paese è in preda a una sorta di caos, di anarchia.

Nel caso dell’Iraq è certamente vero che il corpo degli ufficiali e dei sotto-ufficiali dell’esercito iracheno, l’esercito di Saddam Hussein per intenderci, quando è stato licenziato, congedato dalla primissima amministrazione americana, dopo la fine del conflitto, ha in qualche modo cercato di ricollocarsi, sia per ragioni di disoccupazione professionale sia anche per ragioni politiche, all’interno di un’altra organizzazione.

L’estremismo religioso di Al-Qaeda prima e dell’Isis dopo si è servito di queste competenze professionali, erano ufficiali e sotto-ufficiali che conoscevano il loro mestiere. Per otto anni avevano combattuto contro l’Iran quindi erano eserciti, non all’altezza di quelli europei, ma avevano una loro struttura che poteva tornare utile a qualcun altro, come poi effettivamente è accaduto.

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

Rispetto alla crisi siriana, lei individua nell’atteggiamento dei Paesi europei e degli Stati Uniti un elemento di debolezza, dovuto al loro essere «tormentati e paralizzati da opposti sentimenti». In che modo, secondo lei, si sarebbe potuta affrontare la questione siriana?

Nel regime di Bashar al-Assadvi erano componenti di opposizione di grande importanza.Era un regime clientelare però basato sulla fedeltà di un grande gruppo, l’alauita, e quindi già dagli anni del padre di Bashar al-Assad esisteva un’opposizione sunnita, che era stata repressa sanguinosamente da Hafiz al-Assad. Il regime aveva una sua intrinseca instabilità ma era anche in grado di difendersi e lo ha dimostrato e lo sta dimostrando con una guerra che si è protratta per molto tempo.

Non farei confronti troppo stretti tra Siria e Libia. Dopotutto Bashar al-Assad sta sempre lì e può sempre contare su sostegni internazionali importanti, che sono quelli dell’Iran e della Russia.

Il regime di Bashar al-Assad, come quello di Saddam Hussein, era un regime laico; entrambi avevano cercato di fondare la loro esistenza su principi desunti dall’Occidente. Il partito al potere, sia in Iraq che in Siria, era il partito Ba’th, nazionalista e socialista, con una forte componente laica. Saddam Hussein non ha mai avuto rapporti con Al-Qaeda, anche se questa era l’accusa da parte degli Stati Uniti, l’argomento o il pretesto per cui hanno deciso di fargli la guerra.

Paradossalmente era più simile a uno stato europeo quello di Bashar al-Assad, ma anche quello di Saddam Hussein insieme all’Egitto, di quasi tutti i Paesi arabo-musulmani.

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

Alcuni schieramenti politici italiani richiedono a gran voce l’adozione di due soluzioni: il bombardamento della Siria e la chiusura delle frontiere bloccando il flusso migratorio in entrata. Questa può essere una soluzione per difenderci dagli attacchi dell’Isis in Europa, oppure presenta pericoli ancora peggiori?

Chi ha questi obiettivi? C’è di sicuro un desiderio turco di creare delle zone di interdizione aerea che se decise su scala internazionale, nell’area occidentale, avrebbero significato naturalmente aiutare, sostenere Erdogan e la Turchia a meglio colpire il regime di Bashar al-Assad.

I turchi continuano a proporre questa soluzione ma mi sembra con minore insistenza, anche perché si sono resi conto che il nemico non è più veramente Bashar al-Assad, il nemico adesso è l’Isis.

http://www.sulromanzo.it/blog/gli-attentati-di-parigi-sono-il-contrattacco-dell-isis-intervista-a-sergio-romano

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“È arrivata la bufera” di Giulietto Chiesa (Piemme, 2015)

13 sabato Giu 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

Earrivatalabufera, GiuliettoChiesa, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, Piemme, recensione, saggio, terrore, Terrorismo

9788856647785_6c41f41e6844b9758ebf1e6529d4b3c4

Giulietto Chiesa, tra i più noti giornalisti italiani, ripropone con È arrivata la bufera il saggio Invece della catastrofe, pubblicato sempre con Piemme nel 2013, arricchito con I misteri di Parigi, inchiesta sui «buchi neri» nella ricostruzione ufficiale della strage attuata mediante l’assalto alla redazione della rivista satirica Charlie Hebdo e a un supermercato ebraico. Ed è proprio da questi ultimi fatti che si può partire per spiegare la «enorme crociata che sta investendo tutto il mondo».

Una spietata caccia al nemico resa possibile e giustificata dall’elevato livello di isteria che ha raggiunto “l’opinione pubblica” internazionale.

Dall’11 settembre del 2001 dilaga un radicato sentimento anti-islamico, praticamente in tutto il mondo occidentale, e una decisa convergenza di opinione che individua nel “terrorismo islamico” l’origine dei peggiori mali.  A seguito degli eventi di Parigi del 7, 8 e 9 gennaio di quest’anno di nuovo «osserviamo come sia in atto un formidabile tentativo di ripetere la successione di eventi manipolatori che mascherarono l’11 settembre e i suoi veri autori; che permisero di cancellare le tracce; che costrinsero i nostri occhi a guardare altrove, là dove erano accesi i riflettori, non là dove erano state fatte calare le ombre».

Chiesa spiega dettagliatamente il suo punto di vista, frutto di analisi approfondite, ricerche, studi e sopralluoghi, confronti e raffronti e sottolinea anche la facilità e a volte la faciloneria con cui viene attaccato e bollato di essere un ‘visionario’ al pari di tutti quelli che non digeriscono la ‘versione ufficiale’ elargita dai media, come ci si aspetta che debba essere. Interrogarsi sui «buchi neri», cercare di capire e dare un senso a qualcosa che appare o è poco chiaro invece è un qualcosa che dovrebbe essere fatto, in maniera naturale e istintiva, da ognuno soprattutto da noi occidentali che abbiamo fatto dell’informazione un baluardo dei tempi moderni.

Chi ha cercato come Chiesa di produrre una ricostruzione dei fatti dell’11 settembre 2011 che non fosse la «versione semplice, banale, destinata a occultare i fatti reali accaduti, a spostare l’attenzione dai veri attori e protagonisti verso un gruppo di capri espiatori, tutti già morti, o fatti variamente sparire, e quindi non in grado di difendersi» è stato bollato quindi come ‘visionario’ e ‘complottista’ e costretto a osservare genti, popoli, generazioni intere anche di giovanissimi che hanno pienamente ingerito e fatto proprio l’odio verso i terroristi che hanno privato il mondo occidentale delle Twin Towers e ucciso migliaia di americani, indicandoli per certo come degli estremisti islamici. Anche se nella gran parte dei casi la loro ‘conoscenza’ termina qui. Nessuno o quasi di loro si è mai chiesto eventualmente da cosa ha avuto origine questo sentimento di riscatto che smuove centinaia di giovani contro la prima potenza mondiale. Nessuno o quasi sembra interrogarsi su quali siano i motivi di fondo da cui scaturisce la volontà di creare uno Stato islamico. Nessuno o quasi sembra volersi interrogare sul ‘centrismo occidentale’ nel mondo. Nessuno o quasi sembra volersi chiedere fino a che punto le ‘versioni ufficiali’ siano reali.

«Che i servizi segreti israeliani fossero presenti a Parigi il 9 gennaio è un fatto assodato. È stata l’ANSA a mostrarci le immagini del Mossad mentre entrava in azione durante l’accerchiamento e l’assalto al supermercato kosher» e Giulietto Chiesa si chiede se sia normale un intervento diretto dei servizi segreti israeliani in un paese, come la Francia, «dotato di una Legione Straniera, sperimentato da decenni contro il terrorismo, impegnato da anni nella sovversione in tutto il Nord Africa (e non solo)» e se questo intervento fosse davvero necessario. Possibile che la Francia «non dispone di proprie forze per fare fronte a situazioni di emergenza interna? Chiunque capisce che tutto ciò non ha alcun senso». Chiesa avanza delle ipotesi, o meglio riporta le sue impressioni avute al momento: «Quasi che “qualcuno” avesse in mente di “orientare” l’interpretazione dell’attentato in senso antiebraico. Se i terroristi, uno o più, avessero occupato un grande magazzino Auchan, per esempio, la presenza del Moussad non sarebbe stata in alcun modo giustificata e giustificabile».

Lo scopo dello scritto I misteri di Parigi non sembra essere quello di trovare a ogni costo i colpevoli, i mandanti, i correi… bensì quello di analizzare i fatti, i dati e anche le impressioni per cercare di capire i motivi propulsori di certi comportamenti e accadimenti e soprattutto le conseguenze che ne deriveranno. Per Chiesa la prima e diretta ripercussione degli assalti di Parigi del gennaio 2015 sarà «ridurre le nostre libertà in nome della sicurezza», esattamente come è accaduto in seguito agli attentati di New York e Washington del settembre 2001.

Il politologo Aleksei Martynov ha dichiarato: «Ci sono persone che guidano il terrorismo islamico internazionale, e queste persone si trovano negli Stati Uniti d’America». Giulietto Chiesa aggiunge: «Personalmente non credo che siano solo negli Stati Uniti d’America, perché penso che si trovino anche in Israele, in Germania, in Francia, per fare solo alcuni esempi». È una sua opinione certo e lo precisa anche tuttavia, dopo aver letto il saggio, non si può fare a meno di interrogarsi per cercare di capire ed è esattamente questo l’insegnamento o il suggerimento che è nelle intenzioni dell’autore. «Questi eventi non accadono per niente. Avvengono perché si persegue un obiettivo strategico. Più grandi sono, più grande è l’obiettivo strategico. E sicuramente quella di Parigi è un’operazione destinata a segnare a lungo la storia futura dell’Europa e del mondo intero. Questo libro cerca di descrivere qual è l’obiettivo strategico.»

Invece della catastrofe è stato scritto da Chiesa alcuni anni fa ma ciò di cui parla sembra ed è riferibile alla contemporaneità nel modo più assoluto. È vero che l’autore in fase di riedizione ha provveduto a rivedere il saggio ma lo è anche il fatto che gli scenari da lui descritti non fanno altro che concretizzarsi o prospettarsi nell’immediato futuro e nell’accezione più drastica e tragica. Eppure una via per evitare ‘la catastrofe’ ci sarebbe, c’è. Ne parla Chiesa e ne parlano altri, ognuno piegando gli argomenti alle proprie opinioni o riflessioni, ma in ogni caso si tratta comunque di ‘alternative’ volutamente ignorate dai più.

Per comprendere il tutto bisogna partire nuovamente dalla comunicazione, dai sistemi di comunicazione-informazione che giocano un ruolo determinante nella formazione e sull’influenza dell’opinione pubblica. «Se noi non sappiamo è perché non siamo stati informati. Qualcuno che sa, anche se non tutto, anche se non ha capito bene, c’è» ci dice Chiesa, il quale si chiede anche come sia possibile che «pur essendo ormai incommensurabilmente più informati di quanto non lo fossero le generazioni precedenti, non sappiamo le cose più importanti per la nostra stessa esistenza umana, è cioè che ci stiamo suicidando?» La risposta sembra venire da sé: «il sistema dell’informazione-comunicazione che ci circonda, ci pervade, ci accudisce, ci diverte, è quello stesso che ci nasconde le verità fondamentali della realtà in cui viviamo».

Il saggio Invece della catastrofe porta il lettore a cercare la spiegazione degli eventi e delle parole allargando il raggio di riflessione a 360° evitando nettamente di barricarsi dietro posizioni o arroccamenti. Gli eventi come le parole sono legati, consequenziali, non facilmente scindibili e quindi anche gli accadimenti devono essere spiegati tenendo presente questa logica. Abitando un pianeta unico non si può pensare e agire locale, limitatamente ai propri interessi e a al proprio ‘benessere personale’ senza confrontarsi con gli interessi e il benessere degli altri. Il primo mito assolutamente da sfatare è quello del progresso o della crescita infinita, incompatibile con un ‘pianeta finito’.  I procedimenti suggeriti poi da Chiesa sono simili a quelli auspicati dai promotori della Decrescita Felice con la differenza che l’autore rifiuta l’uso dell’aggettivo ‘felice’.  La sua posizione sembra essere dettata dalla perentoria necessità di smettere di fingere di non vedere, cessare i tentativi di abbellimento o di alleggerimento che dovrebbero servire a far ingoiare con più facilità la pillola della certezza che se non si cambia, se non si costringono i governi a prendere seri e risoluti provvedimenti, il nostro pianeta, la nostra casa, collasserà.

«Ora abbiamo bisogno di una “apocalisse”. La parola biblica, come ci viene trasmessa dall’evangelista Giovanni, piegato sul suo scrittoio sull’isola di Patmos, significa “rivelazione”: togliere ciò che impedisce di vedere. Per noi moderni la parola ha assunto il senso di “catastrofe”» e Chiesa sottolinea come la situazione attuale riunisca in sé entrambi i significati: «Se non “vedremo”, andremo alla “catastrofe”. E dovranno essere in molti, e non in pochi, a vedere».

Giulietto Chiesa affronta temi ‘scottanti’ come la moneta, la finanza, le multinazionali e le potenze mondiali, il terrorismo, l’anti-terrorismo, i poteri dei vari stati e degli organismi internazionali, cita i classici, i contemporanei e se stesso ma lo fa con un linguaggio diretto, ai più comprensibile, chiaro, che cerca di essere più efficace possibile per arrivare alla ‘massa’, quella stessa massa tenuta per lo più all’oscuro della ‘conoscenza’ mai come ora che viviamo l’era dello spettacolo e della spettacolarizzazione, l’epoca che ha creato ‘la fabbrica dei sogni’ e di ciò ancora si vanta. È prevedibile e quasi scontato che vada incontro a critiche e accuse. Si può non essere pienamente concordi con il punto di vista dell’autore, si può ritenere alcune cose una forzatura e altre analisi sublimi ma la lettura di È arrivata la bufera è fuori di dubbio auspicabile e dal maggior numero di persone, non foss’altro per stimolare lo spirito critico e razionale troppo spesso pigro e latente nella ‘opinione pubblica’ dell’attuale sistema di comunicazione-informazione e oserei aggiungere anche di quello dell’insegnamento scolastico.

“È arrivata la bufera” di Giulietto Chiesa

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Articoli più recenti →

Sostieni le Attività di Ricerca e Studio di Irma Loredana Galgano

Translate:

Articoli recenti

  • Madhumita Murgia, Essere umani. L’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite
  • Vincenzo Patanè, Una piccola goccia d’inchiostro
  • Angelo Panebianco, Identità e istituzioni. L’individuo, il gruppo, la politica
  • Federico Fornaro, Una democrazia senza popolo. Astensionismo e deriva plebiscitaria nell’Italia contemporanea
  • Gabriella Grasso, Smettetela di dirci che non siamo felici

Archivi

Categorie

  • Articoli
  • Interviste
  • Pubblicazioni Scientifiche
  • Recensioni

Meta

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Proudly powered by WordPress

Questo sito utilizza i cookie per migliorarne l'esperienza d'uso. Continuando la navigazione l'utente ne accetta l'uso in conformità con le nostre linee guida.