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Irma Loredana Galgano

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Giovani e società: la violenza come trasgressione o richiesta di aiuto?

23 venerdì Giu 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, GiovanieSocietà, paura, violenza

Quali sono i reali effetti della violenza sull’essere umano, soprattutto se ne rimane colpito in giovane età? Esiste un limite invalicabile tra reale e virtuale quando si parla di violenza oppure è fin troppo facile passare dall’uno all’altro tipo? 

Nel Rapporto Unicef 2023 si legge che, complessivamente, nel 2022 quasi 37milioni di bambini in tutto il mondo sono sfollati a causa di conflitti e violenze. Un numero che non si contava dalla Seconda guerra mondiale. Cifra che non comprende i bambini sfollati a causa della povertà, dei cambiamenti climatici o alla ricerca di una vita migliore. E non comprende nemmeno i bambini sfollati a causa della guerra in Ucraina. Per la gran parte si tratta di bambini senza uno status ufficiale di migrante o accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria. 

Presumibilmente una larga parte di questi minori ha subito o subirà una qualche forma di violenza o vi abbia assistito.

Stando ai dati diffusi da Save the Children a novembre 2021, in Italia sono stati 427mila i minorenni che nell’arco temporale 2009-2014 hanno vissuto la violenza dentro casa. Diretta o indiretta. In questo secondo caso si parla di violenza passiva, definita dal Cismai – Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso dell’Infanzia – come «il fare esperienza da parte del/la bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti e minori». 

La violenza domestica, diretta e indiretta, ha degli effetti dal punto di vista fisico, cognitivo, comportamentale e sulle capacità di socializzazione dei bambini e degli adolescenti.

I dati dell’informativa OMS: Maltrattamenti infantili regalano uno spaccato di società ancora più impressionante:

  • Un quarto di tutti gli adulti dichiara di aver subito abusi fisici durante l’infanzia.
  • Una donna su 5 e un uomo su 13 dichiarano di aver subito violenze sessuali nell’infanzia.
  • Tra le conseguenze dei maltrattamenti infantili ci sono ricadute permanenti sulla salute fisica e mentale, le cui ripercussioni a livello sociale e occupazionale possono finire per rallentare lo sviluppo economico e sociale di un Paese.
  • Prevenire i maltrattamenti infantili prima che inizino è possibile e richiede un approccio multisettoriale.

I maltrattamenti infantili sono un problema mondiale, che comporta gravi conseguenze per l’intera durata dell’esistenza. Lo stress causato dai maltrattamenti è associato a ritardi nella fase iniziale dello sviluppo cerebrale. Uno stress estremo può compromettere lo sviluppo del sistema nervoso e di quello immunitario. Di conseguenza, gli adulti che hanno subito maltrattamenti nell’infanzia presentano un rischio maggiore di sviluppare problemi comportamentali, fisici e mentali, quali:

  • Commettere o subire violenze.
  • Depressione.
  • Fumo.
  • Obesità.
  • Comportamenti sessuali ad alto rischio.
  • Gravidanze indesiderate.
  • Abuso di alcol e droghe.

Non tutti i bambini abusati si trasformano in aggressori, ce ne sono alcuni la cui triste sorte sembra essere la condanna a rimanere vittime.1

Ogni evento di natura maltrattante, specialmente se sperimentato precocemente e ripetutamente nelle relazioni primarie di cura, cioè con le figure che dovrebbero garantire sicurezza, affidabilità, stabilità, contenimento affettivo ed emotivo, in carenza o assenza di fattori protettivi e di “resilienza” nel bambino, produce trauma psichico/interpersonale, che colpisce e danneggia le principali funzioni dello sviluppo, provoca una grave deprivazione del potere e del controllo personale, una rilevante distorsione dell’immagine di sé e del mondo circostante.2

Dunque le persone, in particolare bambini e adolescenti, traumatizzate da qualsiasi forma di violenza manifestano una rilevante distorsione dell’immagine di sé e del mondo circostante. E allora ci si domanda cosa accade in coloro che assistono a una violenza continua “filtrata e somministrata” attraverso qualsivoglia dispositivo: media, pubblicazioni, video, videogiochi, musica, internet e via discorrendo. In particolare ci si chiede se, in un certo qual modo, tutta questa violenza possa essere considerata una forma di violenza assistita.

Tecnicamente per violenza assistita da minori in ambito famigliare si intende il fare esperienza da parte dell’infante di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Si includono le violenza messe in atto da minori e/o su altri membri della famiglia, gli abbandoni e i maltrattamenti ai danni di animali domestici.

Il bambino può fare esperienza di tali atti:

  • Direttamente: quando avvengono nel suo campo percettivo.
  • Indirettamente: quando ne è a conoscenza e/o ne percepisce gli effetti.3

L’utilizzo abituale da parte di bambini e ragazzi delle nuove tecnologie e di internet in particolare, se da una parte rappresenta un’opportunità di ampliare le possibilità di esperienza e di relazione, dall’altro ha modificato le modalità di comunicare e si è rivelato lo scenario di possibili forme di violenza anche molto gravi. Recenti ricerche hanno messo in evidenza l’estrema diffusione, anche nel nostro paese, dell’utilizzo di internet da parte delle nuove generazioni, e come si stiano diffondendo condizioni di rischio di vittimizzazione sessuale.4

Anche quando l’infante o l’adolescente non è o non diventa vittima di abuso, reale o online, ma è sottoposto costantemente a immagini, video, videogiochi, narrazioni varie di violenza, cosa accade nella sua mente? Si corre egualmente il rischio di una rilevante distorsione dell’immagine di sé e del mondo circostante?

La quasi totalità dei ragazzi oggi dichiara che la fonte unica, primaria e assoluta di insegnamento, apprendimento e ispirazione per la propria sessualità è la pornografia attraverso il web.

La pornografia basa i propri bias sulla carnalità e l’assenza di contesti, emozioni, sentimenti, responsabilità, maturità… le persone diventano corpi-oggetto atti a soddisfare pulsioni. È evidente e palese che il ricorso a questo tipo di visione produca effetti non proprio lodevoli negli adulti quindi si possono facilmente immaginare le conseguenze nefaste che causano sui giovani.5

Presumibilmente analoghe conseguenze negative si hanno anche per tutte le altre forme di violenza e aggressività.

161 bambini dai 9 ai 12 anni e 354 studenti universitari sono stati testati assegnando loro, in maniera casuale, un videogioco violento o non violento, di tutti i partecipanti è stata previamente studiata la storia recente come i comportamenti violenti e le preferenze di videogiochi, programmi televisivi o film, dimostrando come l’esposizione alla violenza mediatica sia associata a un comportamento aggressivo e a una desensibilizzazione degli utenti in associazione con mancata empatia e capacità di avere un comportamento prosociale.6

La battaglia tra chi crede fermamente che la sovraesposizione a una violenza simulata possa condurre quindi un individuo ad avere comportamenti aggressivi nella vita reale e chi, invece, non è convinto esista questa diretta correlazione si combatte tutt’oggi su un campo prettamente teorico, fatto di cifre, statistiche, metodi, studi e conseguenti smentite, critiche su campioni usati per le analisi e nuovi e più ampi soggetti di studio.7 Ciò che è per certo inconfutabile è il fatto che negli ultimi decenni la violenza – nelle serie televisive come nei videogiochi, in internet e sui social – è notevolmente aumentata. Intendendo con il termine generico “violenza” scene di aggressività, criminalità, maltrattamenti fisici e sessuali e via discorrendo.

Un problema che andrebbe sottolineato di più è quello dell’effetto di abituazione, ovvero un processo per il quale la ripetizione continuata di uno stimolo determina la diminuzione dell’intensità e della durata di una risposta – tipicamente innata -, fino all’estinzione della risposta stessa che dipende dal confronto tra un modello, formatosi nel cervello relativamente allo stimolo già presentato e il nuovo stimolo in arrivo. L’abituazione è, in sostanza, il contrario della sensibilizzazione. 

Ovviamente non si può imputare tutto ai media, ma non si può nemmeno ignorare l’impatto che essi hanno sulla psiche di chi guarda e che, senza una guida sapiente e responsabile accanto, può davvero perdere il senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.8

Il male affascina, lo ha sempre fatto. Un racconto con un mistero, un crimine, un delitto, una violenza è certamente più appetibile per molti, altrimenti non si spiegherebbe l’aumento della violenza trasmessa in tutte le sue forme da media, social e internet. Tuttavia non ci si può esimere dal riflettere sul fatto che, forse, l’attrazione alla violenza sia in un certo qual modo una richiesta di aiuto, un tentativo di esorcizzare la paura stessa della violenza. Diventarne artefici per non esserne vittime. 

È notevolmente troppo alto il numero di aggressioni inferte, ad esempio, da giovani di ambo i sessi ai danni di loro coetanei, spesso posti in essere come vere e proprie spedizioni punitive che diventano anche virali sui social. La cronaca quotidiana ne riporta talmente tanti che si teme, anche per questo genere di violenza, il fenomeno dell’abituazione. 

Ci si chiede quale sia il reale scopo che vogliono ottenere questi giovani e quali sono i modelli comportamentali a cui fanno riferimento. 

Tralasciando le condizioni dell’ambito clinico caratterizzate da fragilità narcisistica patologica, discontrollo degli impulsi, tendenze antisociali, di frequente, connesse a quanto si esprime come violenza, è possibile rinvenire rabbia da frustrazione – sono tante le ragioni per cui i ragazzi oggi si sentono frustrati -, noia – intesa come stato emotivo spiacevole o come anestesia emotiva e ideativa-, moda. Quest’ultima può sembrare meno associabile alla violenza, ma se si pensa per esempio alla musica quale dimensione che impegna la fase adolescenziale, si può verificare l’attualità del genere trap, così comune e diffuso tra i ragazzi fin dall’età della scuola secondaria di primo grado, che di fatto inneggia alla violenza con testi cupi e minacciosi, i cui temi tipici di vita da strada tra criminalità e disagio, povertà e droga, sembrano orami diffusi come cultura giovanile.

La diffusione tramite strumenti digitali sfrutta l’immagine che ha le caratteristiche di una comunicazione immediata e molto reale, oltre che una diffusione istantanea su larga scala che non tiene conto dell’interlocutore o di eventuali sue fragilità. Per alcuni comportamenti può accadere che questo tipo di comunicazioni inneschi un effetto di contagio sociale, secondo il quale l’azione condivisa diventa una sorta di prescrizione nell’orientamento del comportamento di altri che si riconoscono simili. Il meccanismo alla base di questo è l’imitazione, che è una caratteristica innata dell’essere umano.9

Il rapporto fra adulti e giovani evidenzia oggi una deconflittualizzazione delle relazioni. Il conflitto nel recente passato ha costituito la modalità più frequente con cui le generazioni più giovani si contrapponevano a quelle adulte per affermare la propria indipendenza e la propria identità. Se, fino agli anni Ottanta, i conflitti intergenerazionali di natura culturale caratterizzavano i rapporti genitori-figli e insegnanti-alunni, i decenni successivi hanno evidenziato una progressiva e generale deconflittualizzazione che, tuttavia, non si è accompagnata a una maggiore coesione sociale. Gli adulti di riferimento, tradizionalmente individuabili nelle figure parentali e in quelle dei docenti, sembrano essere venuti a far parte, nella percezione generalizzata dei giovani, di una massa quasi indistinta di soggetti poco significativi e con quasi nessuna capacità di influenzare, di orientare , tanto meno, di incidere stabilmente attraverso i meccanismi di socializzazione secondaria sulle loro esistenze. 

Un effetto della erosione delle certezze e degli orizzonti di senso collettivi è il diffondersi della violenza reiteratamente agita nei gruppi – reali o virtuali – dei pari. Si evidenzia inoltre una qualche sommaria accettazione acritica della violenza nel suo espressivizzarsi routinario contro coetanei più facilmente stigmatizzabili – stranieri, omosessuali, diversamente abili ecc. – da parte delle giovani generazioni, che sfocia in una banalizzazione delle condotte violente nel mondo quotidiano dei più giovani. La soglia di accettazione della violenza, nel suo plurimo riprodursi (materiale e immateriale, agito o epserito), va però messa in relazione con la scarsa, quando non addirittura inesistente, consapevolezza della natura effettivamente violenta di quell’azione. 

Ecco allora che in questo Zeitgeist caratterizzato da una generale incertezza sul presente e sul futuro, la violenza di gruppo diviene una modalità sostitutiva del conflitto, proprio perché è il micro-rituale violento a definire ruoli e funzioni altrimenti inaccessibili a un numero sempre più grande di adolescenti.10

Per sconfiggere le paure ci si avvicina al male e la trasgressiva violenza sembra diventare l’unico modo che i giovani conoscono per “chiedere aiuto”, supporto, punti di riferimento e, perché no, anche regole precise utili a ridefinire ruoli e realtà. Visto il numero elevato di violenza e aggressioni non bisognerebbe mai tentare di ridurre il tutto a fatti isolati o, peggio, scherzi e quant’altro sminuisca un fenomeno che invece è generalizzato, protratto e dilatato. Educare giovani e anche adulti a un decisivo cambio di paradigma potrebbe aiutare a ridefinire il problema, punto essenziale quando si vogliono davvero cercare delle valide soluzioni.


1S. Cirillo, Il bambino abusato diventa adulto: riflessioni su alcune situazioni trattate:http://www.scuolamaraselvini.it/files/articoli/il_bambino_abusato_diventa_adulto.pdf

2T. Di Iullio, coordinatore Gruppo di Lavoro Infanzia e Adolescenza, Maltrattamento e Abuso all’infanzia. Indicazioni e Raccomandazioni, CNOP – Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, 24 novembre 2017: https://www.psy.it/wp-content/uploads/2019/07/Maltrattamento-e-abuso-allinfanzia.-Indicazioni-e-raccomandazioni_luglio.pdf

3T. Di Iullo, op.cit.

4T. Di Iullo, op.cit.

5M. Lanfranco, Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo, Erickson, 2019: https://irmaloredanagalgano.it/2020/04/25/3497/

6C.A. Anderson, D.A. Gentile, K.E. Buckley, Videogiochi violenti. Effetti su bambini e adolescenti, Centro Scientifico Editore, Milano, 2008. 

7T. Soldani, M. Calderaro, D. Pescina, La violenza nelle serie tv, Revista de Estudios de Criminología y Ciencias Penales, Urbe et Ius:https://urbeetius.org/wp-content/uploads/2020/06/26-61-1-RV.pdf

8T. Soldani, M. Calderaro, D. Pescina, op.cit.

9F. Boccaletto, Risse tra adolescenti: l’origine della violenza e il ruolo dei social, 22 dicembre 2020, Il Bo Live – Università di Padova, intervista a Michela Gatta: https://ilbolive.unipd.it/it/news/risse-adolescenti-lorigine-violenza-ruolo-social

10I. Bartholini, L’opacizzarsi del conflitto fra giovani e adulti e l’affermarsi della violenza fra pari, Studi di Sociologia, Anno 51, Fasc. ¾ (Luglio-Dicembre 2013), V&P – Vita e Pensiero/Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: https://www.jstor.org/stable/43923998


Disclosure: Per le immagini, credits www.pixabay.com


Articolo pubblicato su Articolo21.org


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Libertà di culto e manipolazione del pensiero: “Nella setta” di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (Fandango, 2018)

09 martedì Apr 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CarmineGazzanni, Fandango, FlaviaPiccinni, Nellasetta, paura, recensione, saggio, terrore

Nella setta di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni è un libro-inchiesta esemplare. Un preciso lavoro di indagine e ricerca sul campo, preceduto o parallelo a uno studio delle fonti documentali, e che ha poi condotto alla stesura di un testo che si legge con avidità, maggiormente se si è distanti o a digiuno dell’argomento trattato.
Del resto Piccinni ha già abituato i suoi lettori a tale livello investigativo. Come nell’inchiesta da lei stessa condotta sui concorsi di bellezza e le sfilate di moda riservate ai minori e divenuta Bellissime. Baby miss giovani modelli e aspiranti lolite edito sempre dalla Fandango Libri nel 2017.

Il libro è scritto in maniera chiara, con l’uso di un registro narrativo preciso e semplice, mai semplicistico. Grande attenzione viene riservata alle fonti, siano esse documentali o testimonianze dirette, oltre che, naturalmente, alla trascrizione e rielaborazione dei diari di campo della ricerca in loco condotta direttamente dagli autori, spesso come veri e propri “infiltrati”.

Nella setta di Piccinni e Gazzanni non è semplicemente un libro da leggere, è un vademècum da tenere sempre bene a mente. L’unico vero “mantra” necessario e utile per sconfiggere suggestioni, paure, condizionamenti e debolezze che sono, alla fin fine, il vero lasciapassare per truffatori e guru vari.
La libertà di culto, di fede religiosa, sancita anche dall’articolo 19 della Costituzione, non va confusa o mischiata con la manipolazione del pensiero, la riduzione in schiavitù, lo sfruttamento della prostituzione, l’adescamento, la pedofilia, i maltrattamenti, lo sfruttamento dei minori, il ricatto, la minaccia… ed è esattamente questo che cercano di chiarire e dimostrare Piccinni e Gazzanni con la loro inchiesta.

«Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume» [La Costituzione, Parte I – Diritti e doveri dei cittadini – Titolo I – Rapporti civili].

Tutte le testimonianze e i dati raccolti nell’indagine condotta dagli autori evidenziano la volontà comune a ogni setta di creare una sorta di “universo parallelo”, alternativo al mondo. Un luogo simbolo e simbolico dove far vigere i propri dettami, le regole, le usanze. Lavorare, studiare e nutrirsi seguendo un percorso purificativo-conoscitivo che porta, o meglio porterebbe alla salvezza. Dal male, da Satana, dalle malattie… ma più genericamente dal mondo esterno, quello che deve essere tenuto rigorosamente fuori dallo “universo parallelo”.
Eppure, leggendo il libro, l’idea che prende sempre più forma nella mente del lettore è che, pur se ognuna con i propri ideali, veri o dichiarati, e le proprie regole, le sette finiscono per somigliarsi un po’ tutte. Indottrinamento di massa, manipolazione del pensiero, violenze, abusi e schiavismo protratti per la maggiore su donne e minori, sono le violazioni maggiormente riscontrate. Unitamente all’aspetto economico. La salvezza sì ma da raggiungersi sempre e solo previo esborso di onerosi e ripetuti oboli alla causa.
Truffe e violenze di cui è pieno, purtroppo, anche il mondo fuori.

La manipolazione del pensiero non può e non deve mai essere sottovalutata anche e forse soprattutto quando vip e celebrity varie si fanno testimonial o portavoce di sette o gruppi, arrivando così a sommare le capacità di persuasione di fondatori e adepti alle proprie. Inqualificabile è per certo l’atteggiamento di autorità e politici che presenziano a eventi o avallano questi gruppi senza aver preso preventivamente le dovute informazioni per scongiurare l’eventualità, più volte verificatisi purtroppo, di sostenere associazioni o sette dedite alla manipolazione e allo sfruttamento, fisico ed economico.
A pesare ancor di più è l’assenza, a partire dal vuoto normativo ancora in essere, o la distanza nella tutela delle vittime.
A onor del vero va sottolineata questa negligenza dello Stato anche per quanto riguarda le vittime di associazioni, istituzioni e religioni definite “grandi” in riferimento sempre all’estensione territoriale, proselitista ed economica. Ovvero ciò che genera potere.

Ogni mattina, in Italia, «quattro milioni» di persone si alzano e «hanno un segreto: sono membri di un’organizzazione settaria». Alcuni appartengono a comunità fisiche, altri a realtà internazionali e altri ancora a gruppi misteriosi ed esoterici. Intorno a tutti aleggia il rischio concreto che la libertà di culto, la volontà di rivalsa, il desiderio di apprendimento di nuove filosofie esistenziali siano soffocate dalla manipolazione mentale, dallo sfruttamento, dalle violenze. Educare cittadini consapevoli è per certo il primo passo per evitare che debolezze, paure, suggestioni, timori li rendano facili prede. Un’adeguata normativa in merito è il passo successivo o, se si preferisce, precedente per garantire la tutela, soprattutto dei minori. Controlli economici, finanziari e fiscali potrebbe essere un terzo valido strumento in mano alle autorità statali e non da ultimo necessita un articolato supporto psicologico e psichiatrico per le vittime e i fuoriusciti affinché riescano a superare il trauma certo ma anche i problemi di insicurezza che li hanno spinti a cercare ‘protezione’ in un ambiente chiuso, settario e gerarchizzato.

Nella setta di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni è un libro assolutamente da leggere perché la vera libertà non risiede mai semplicemente nella diversificazione, vera o presunta, dell’offerta, negli slogan e nelle sponsorizzazioni che cercano di avallare progetti e intenti. No, la vera libertà, anche di culto ed espressione religiosa, sta nella capacità e nella possibilità di abbracciare o meno una causa, una fede, un progetto… ma di farlo sempre e comunque con la propria testa, scevri da condizionamenti di qualsiasi tipo.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Fandango Libri per la disponibilità e il materiale


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“Il Patto sporco” di Nino Di Matteo e Saverio Lodato (Chiarelettere, 2018)

28 giovedì Feb 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Chiarelettere, IlPattosporco, mafia, NinoDiMatteo, paura, recensione, saggio, SaverioLodato

«Era un processo che faceva paura».

Così chiosa Saverio Lodato nell’appendice al libro, scritto con il pm Antonino Di Matteo, che racconta per esteso e nel dettaglio quel “Patto sporco” tra Stato e anti-Stato che mai avrebbe dovuto esserci. A spaventare l’Italia e gli italiani, molti di essi, sembrava però più l’azione investigativa prima e giudiziaria poi e che ha portato al processo noto come “sulla Trattativa” e alla relativa condanna degli imputati, rei di minaccia a corpo politico dello Stato, un «terribile reato», come lo definisce lo stesso Lodato.
La sentenza del 20 aprile 2018 della seconda Corte di assise di Palermo sancisce il reato e la condanna e decreta, indirettamente, che la vera “boiata pazzesca” non è stato il processo, che aveva un valido e solido impianto accusatorio, bensì il tentativo di chi ha cercato di sminuire il lavoro della magistratura e il tentativo di far luce sui tanti punti scuri e oscuri che hanno sancito la nascita della seconda Repubblica, ne hanno accompagnato il corso e velano tutt’ora la storia e la cronaca del nostro Paese.

«Era un processo che faceva paura».

Non è certo facile ammettere che lo Stato si è piegato, ha accettato il compromesso con l’anti-Stato che ufficialmente dichiara sempre di combattere. E, soprattutto, che non lo ha fatto per fermare morti e stragi.
Gli ufficiali del Ros non hanno lasciato alcuna traccia scritta della esistenza e della evoluzione dei loro rapporti con Vito Ciancimino. «È assolutamente grave e oltremodo significativo il fatto che, nel lungo periodo dei loro contatti con Vito Ciancimino, gli ufficiali del Ros non adottarono alcuna iniziativa investigativa» e invece, «a dimostrazione che la loro era una iniziativa “politica”, si siano rivolti e abbiano riferito dei loro contatti con Ciancimino a esponenti del governo e del Parlamento».

In questi lunghissimi venticinque anni, man mano che il racconto dei collaboratori di giustizia si è unito alle prove investigative raccolte, il puzzle è apparso sempre più completo, e chiaro. Dal resoconto di coloro che lo hanno vissuto in prima linea emerge un ulteriore aspetto che deve davvero “fare paura”. Quella che Nino Di Matteo, nella sua requisitoria finale al processo “sulla Trattativa” definisce «omertà istituzionale». Un paradosso che è tale solo in apparenza. Lo Stato che collabora alle indagini e all’inchiesta meno dell’anti-Stato.

Il Patto sporco, di Nino Di Matteo e Saverio Lodato, edito da Chiarelettere è un libro «scritto da entrambi con passione e rabbia». Perché se in tutti questi anni la stampa, i giornali, i telegiornali, i grandi opinionisti avessero offerto all’opinione pubblica «un minimo sindacale di informazione» sull’argomento, «difficilmente questo libro avrebbe avuto un senso». Sarebbero notizie già note. Invece così non è stato.

*****

“Gli attentati a Lima, Falcone, Borsellino, le bombe a Milano, Firenze, Roma, gli omicidi di valorosi commissari di polizia e ufficiali dei carabinieri. Lo Stato in ginocchio, i suoi uomini migliori sacrificati. Ma mentre correva il sangue delle stragi c’era chi, proprio in nome dello Stato, dialogava e interagiva con il nemico.
La sentenza di condanna di Palermo, contro l’opinione di molti “negazionisti”, ha provato che la trattativa non solo ci fu ma non evitò altro sangue. Anzi, lo provocò. Come racconta il pm Di Matteo a Saverio Lodato in questa appassionata ricostruzione, per la prima volta una sentenza accosta il protagonismo della mafia a Berlusconi esponente politico, e per la prima volta carabinieri di alto rango, Subranni, Mori e De Donno, sono ritenuti colpevoli di aver tradito le loro divise. Troppi i non ricordo e gli errori di politici e forze dell’ordine dietro vicende altrimenti inspiegabili come l’interminabile latitanza di Provenzano, la cattura di Riina e la mancata perquisizione del suo covo, il siluramento del capo delle carceri, Nicolò Amato, la sospensione del carcere duro per 334 boss mafiosi.
Anni di silenzi, depistaggi, pressioni ai massimi livelli (anche dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano), qui documentati, finalizzati a intimidire e a bloccare le indagini. Ora, dopo questa prima sentenza che si può dire storica, le istituzioni appaiono più forti e possono spazzare via per sempre il tanfo maleodorante delle complicità e della convivenza segreta con la mafia.”

*****

Il testo si presenta come una lunga e articolata intervista che, in realtà, somiglia più a una memoria a due voci nella quale Lodato irrompe con più impeto nelle parti ufficiali e professionali della narrazione, lasciando maggiore adito al pm quando questi racconta i risvolti e le conseguenze di tutto ciò sulla sua vita privata. Laddove Di Matteo parla delle inchieste e dei processi, Lodato dimostra la sua grande esperienza e determinazione in merito. Le sue sono le parole di chi non si è mai arreso, nonostante tutto, e ha sempre continuato a svolgere il proprio lavoro.
Egual ragionamento va fatto per le parole, per le azioni, il comportamento e il lavoro tutto svolto da Antonino Di Matteo. In maniera amplificata, visto che da oltre cinque anni vive secondo i dettami e le regole di quello che in gergo viene definito “primo livello di protezione eccezionale”.

C’è poi la parte di narrazione nella quale il pubblico ministero abbandona per alcuni attimi gli abiti ufficiali e professionali per vestire, “semplicemente”, quelli di uomo, di padre, di marito. Brevi racconti che aiutano il lettore a meglio comprendere il reale significato nonché le conseguenze di scelte che sono per certo coraggiose, ammirevoli e che non possono e non devono, o meglio non dovrebbero mai andare incontro a critiche e facili opinioni da parte di chi non sa, non comprende o finge di non farlo perché pur predicando l’antimafia di facciata in realtà ne è poi attratto o, peggio, coinvolto a vario titolo, molto più di quanto non vorrebbe ammettere neanche con se stesso.
E questo accade tra i cittadini, tra i colleghi, tra le forze dell’ordine e i servizi segreti, tra gli operatori dell’informazione e della comunicazione, tra i politici e gli imprenditori. In quella parte dello Stato che è in qualche modo legata a doppio filo all’anti-Stato.

In uno scenario del genere, di queste dimensioni, «non si può parlare di un merito della magistratura», bensì del «demerito di chi ha volutamente ignorato che, per lunghi tratti di strada, Stato e mafia hanno camminato di pari passo».

Un libro, Il Patto sporco di Di Matteo e Lodato, che si legge con l’adrenalina in circolo e il battito del cuore in accelerazione.
Con la voglia di conoscere fin dove la bravura di magistrati come Di Matteo, eredi professionali e morali di Falcone e Borsellino, li ha portati a svelare i tanti, troppi misteri e segreti dei legami marci tra Stato e anti-Stato.
Con il desiderio di una diffusione e condivisione sempre maggiore di questi traguardi.
Con la speranza che l’Italia della terza Repubblica sia o diventi davvero altro rispetto a quello che, purtroppo, è stata la nascita e la storia della seconda appena conclusa.
Un libro, Il Patto sporco di Di Matteo e Lodato, assolutamente necessario. Da leggere. Da comprendere. Da condividere.


Biografia degli autori

Sostituto procuratore della Repubblica a Caltanissetta e poi a Palermo, Nino Di Matteo è ora sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Ha indagato sulle stragi dei magistrati Chinnici, Falcone, Borsellino e delle loro scorte, e sull’omicidio del giudice Saetta. Pm in processi a carico dell’ala militare di Cosa Nostra, si è occupato anche dei processi a Cuffaro, al deputato regionale Mercadante, al funzionario dei servizi segreti D’Antone, e alle “talpe” alla procura di Palermo. Diverse amministrazioni comunali (tra queste Roma, Milano, Torino, Bologna, Genova) gli hanno conferito la cittadinanza onoraria per il suo impegno nella ricerca della verità. È autore dei libri “Assedio alla toga” (con Loris Mazzetti, Aliberti) e “Collusi” (con Salvo Palazzolo, Rizzoli).

Saverio Lodato è tra i più autorevoli giornalisti italiani in materia di mafia, antimafia e Sicilia. Per trent’anni è stato inviato de “l’Unità” in Sicilia e oggi scrive sul sito antimafiaduemila.com. Ha scritto: “Avanti mafia!” (Corsiero Editore); “Quarant’anni di mafia” (Rizzoli); “I miei giorni a Palermo” (con Antonino Caponnetto, Garzanti); “Dall’altare contro la mafia” (Rizzoli); “Ho ucciso Giovanni Falcone” (con Giovanni Brusca, Mondadori); “La linea della palma” (con Andrea Camilleri, Rizzoli); “Intoccabili” (con Marco Travaglio, Rizzoli); “Il ritorno del Principe” (con Roberto Scarpinato, Chiarelettere); “Un inverno italiano” (con Andrea Camilleri, Chiarelettere); “Di testa nostra” (con Andrea Camilleri, Chiarelettere).


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“Sbirritudine” di Giorgio Glaviano (Rizzoli, 2015) 


 

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Non più contrapposizione di Stati ma guerra di tutti contro tutti. Psicoanalisi e “Guerre senza limite”: nuovi strumenti di conoscenza e analisi (Rosenberg&Sellier, 2017. A cura di Marie-Hélène Brousse)

18 mercoledì Lug 2018

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Guerresenzalimite, MarieHeleneBrousse, Occidente, paura, recensione, RosenbergSellier, saggio, terrore

“Guernica”, Pablo Picasso, olio su tela, 1937

Seguendo la ferrea logica che porta la nostra civiltà a una segregazione sempre più massiccia, a erigere muri, alla delazione, al sospetto paranoico abbiamo assistito alla caduta delle identità collettive. E ora non resta che l’identità individuale, «l’Io che non vuole sapere dell’alterità», considerata una «minaccia costante contro la sua unità, contro la sua sicurezza, contro il suo potere». Il legame sociale attuale, caratterizzato dal predominio del “senza limite”, «trova nella forma contemporanea della guerra una declinazione pragmatica», una guerra che è essa stessa “senza limite”, non più una contrapposizione tra Stati, ma di tutti contro tutti.

Pubblicato nel 2015 in Francia con il titolo originale La psychanalyse à l’épreuve de la guerre da Berg International Éditeurs, Guerre senza limite, curato da Marie-Hélène Brousse, esce in Italia in prima edizione a maggio 2017 con Rosenberg&Sellier, nella versione curata da Paola Bolgiani. Un saggio che raccoglie i contributi di un nutrito gruppo di psicoanalisti che hanno lavorato sul tema della guerra e della relazione fra la psicoanalisi e la guerra.

Un’esperienza sempre traumatica che segna tutti i soggetti che vi sono confrontati, anche indirettamente, la guerra è senz’altro «un laboratorio dello psichismo», dal momento che essa è lungi dall’essere terminata, piuttosto trasformata è diventata multipla, diversa, che «si sposa con la modernità» e le sue forme contemporanee manifestano i tratti di quell’epoca che è la nostra, in questo inizio di XXI secolo. Una società nella quale le trasformazioni del legame sociale rendono necessario il progetto di «una nuova psicologia delle masse» per capire a fondo «quel che la guerra insegna alla psicoanalisi e quel che la psicoanalisi può insegnare sulla guerra», forte dei nuovi strumenti e dati a disposizione.

Il testo si articola in diverse sezioni, ognuna delle quali con uno scopo ben preciso, ma tutte interconnesse secondo il filo logico del ragionamento che ruota intorno al concetto di guerra, all’esperienza di guerra (diretta e indiretta), ai traumi che essa genera, alla guerra come paradigma del legame sociale per una nuova psicologia delle masse.

Ricorrente nel discorso comune è la “ricerca della pace”. Si afferma che l’Europa, dopo i traumi dei conflitti mondiali, abbia finalmente raggiunto lo scopo. L’Europa è in pace. Gli europei si dichiarano pacifisti. Non si può allora non chiedersi, e gli autori lo fanno, come si debba in realtà interpretare questa “pace a casa propria” allorquando si deve legarla al traffico, al commercio e alla vendita di armi che l’Europa e gli europei continuano a praticare.

Lacan partiva dal «reale della guerra» che ci accompagna in modo costante «come una dimensione ineliminabile del potere moderno» e sosteneva che «il potere capitalista ha bisogno di una guerra ogni vent’anni». Per reggere. Per funzionare. La spesa militare è infatti una costante dei fautori del capitalismo. Fa girare l’economia, come suol dirsi. Dapprima con gli armamenti, poi con la ricostruzione, poi la macabra giostra deve ripartire per un altro giro… ed ecco trascorsi i venti anni.

I contributi che compongono il saggio Guerre senza limite analizzano sia questi aspetti, che potrebbero essere definiti macroscopici, del fenomeno, sia quelli più intimi, attinenti il microcosmo di ognuno. Gli effetti deleteri che il contatto con la guerra ha, inevitabilmente, con i soggetti che la vivono o la subiscono.

Per Freud la guerra «autorizza e legittima l’aggressività propria dell’essere umano, che spinge verso le sue inclinazioni più oscure». Ma quando ti trovi faccia a faccia con la morte, vedi morire i tuoi compagni, le mutilazioni, le torture, le lesioni… l’aspetto per così dire “liberatorio” della guerra diventa aleatorio ed è molto facile sviluppare problemi psichici.

Paralisi di vario tipo.
Tic.
Spasmi.
Tremori.
Stati dissociativi.
Riduzione del campo visivo.
Cecità.
Sordità.
Afonia.
Mutismo.

“Psicoanalisi”, Michele Cara, pennarelli e matite su carta, 2011

Sono alcune tra le più frequenti conseguenze psichiche e psicofisiche della guerra. Solo chi l’ha vissuta lo può sapere. Agli altri, per i quali la guerra è quella vista in televisione, al cinema o come un videogame, i reduci appaiono addirittura strani. Persone che per assurdo faticano a incontrarsi, a capirsi.

In un mondo ormai al contempo «mondializzato e in piena implosione geopolitica ed economica», appare ragionevole affermare che «non c’è che la guerra, e tangenzialmente un’unica guerra». La guerra che una «civiltà decaduta dai suoi titoli di civiltà fa contro se stessa». Eppure uno spiraglio di speranza ancora si intravede laddove si può affermare che «non siamo costretti dall’evoluzione a rimanere fissati alle condizioni del passato, possiamo evolvere verso il meglio». Dovremmo. Dobbiamo.


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Source: Si ringrazia Marta Guerci dell’Ufficio Stampa della Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale


 

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“Jihadisti d’Italia” di Renzo Guolo (Guerini e Associati, 2018)

28 giovedì Giu 2018

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GuerinieAssociati, JihadistidItalia, paura, recensione, RenzoGuolo, saggio, terrore, Terrorismo

Dopo aver analizzato il fenomeno degli jihadisti in Europa ne L’ultima utopia, pubblicato sempre con Guerini e Associati, Renzo Guolo decide di indagare a fondo sulla radicalizzazione islamista nel nostro Paese e scrive Jihadisti d’Italia, uscito in prima edizione a maggio 2018.

Nel saggio precedente Guolo si interrogava sulle cause politiche, culturali, religiose che avessero potuto in qualche modo incidere nella scelta di radicalizzazione di tanti giovani europei. Ora, questo genere di analisi, viene applicata al territorio italiano e ai suoi giovani abitanti.
Negli ultimi anni cittadini italiani, o residenti nel nostro Paese, hanno imboccato la via della radicalizzazione islamista. «Tra loro, circa un centinaio hanno combattuto in Siria e Iraq, nelle fila dell’Isis o di gruppi legati ad Al Qaeda».
Guolo ricerca a fondo le motivazioni alla base di queste estreme scelte di radicalizzazione.

Si tratta di immigrati di prima o seconda generazione ma anche di italiani autoctoni. Di uomini come di donne. Di residenti nelle periferie delle grandi città o in piccoli centri abitati. Lavoratori o inoccupati. Delinquenti o incensurati. A unirli sono poche caratteristiche, «in linea con altre esperienze europee»: l’età, in quanto si tratta quasi sempre di giovani o addirittura giovanissimi, e l’essere musulmani sunniti.

Attraverso l’esplorazione del fenomeno della radicalizzazione di matrice islamista, Guolo riesce anche a osservare il «profondo mutamento sociale indotto dai processi di globalizzazione nella nostra società». La comprensione del fenomeno della radicalizzazione consente quindi una più vasta conoscenza anche delle trasformazioni che investono e hanno investito la società italiana, al pari di quella europea, come dei conflitti che la attraversano e la caratterizzano: il ritorno all’ideologia, la ricerca d’identità, lo spazio pubblico delle religioni, le forme di disagio e le rivolte giovanili, l’impatto dei flussi globali sulle comunità locali, la risposta delle istituzioni e della politica, la xenofobia, le nuove forme di organizzazione socio-religiosa dell’islam.

Il fulcro del lavoro di ricerca e analisi di Renzo Guolo sembra centrato sulla dimensione soggettiva della scelta di radicalizzarsi da parte di soggetti giovani, oltre naturalmente il quadro politico e culturale all’interno del quale dette decisioni prendono forma. La violenza, il terrorismo, il terrore sono lontani, nella prospettiva di indagine di Guolo. È frutto certamente di una scelta, o di una necessità, la volontà di limitare il campo d’indagine.

Viene analizzato da Guolo anche il “ritardo” tutto italiano, rispetto agli altri Paesi europei, nella “produzione” di giovani jihadisti ma, soprattutto, le ragioni per le quali «questo gap potrebbe venire, drammaticamente, colmato nei prossimi anni».
Alla fine del 2017 i potenziali jihadisti interni o foreign fighters erano 129. L’immigrazione relativamente recente, limitato effetto banlieue, assenza quasi totale di poli di radicalizzazione, assenza di un gruppo etno-religioso predominante, associazionismo islamico non radicale, lavoro di investigazione e intelligence: sono questi i molteplici fattori che hanno consentito il ritardo italiano, «calcolabile sui tre/cinque anni», rispetto agli altri Paesi europei.

Un ritardo che però, avverte Guolo, non è destinato a protrarsi a lungo, sia per le tensioni sociali legate all’immigrazione, che sono destinate a crescere, sia per «la diffusa presenza, nel panorama politico nazionale, di forze palesemente xenofobe e islamofobe».

Se da una parte è difficile prevedere gli sviluppi «delle future dinamiche generazionali», largamente influenzate da fattori legati al proprio tempo, Guolo ipotizza che solo «attive politiche di integrazione, capaci di attenuare i richiami delle sirene islamiste radicali nei confronti di quanti si sentono per vari motivi esclusi o ostili, possano rafforzare efficacemente la sicurezza collettiva».

Un libro, Jihadisti d’Italia di Renzo Guolo, che si inserisce nel dibattito-focolaio mai sopito su Isis e terrorismo islamista analizzando un aspetto peculiare delle società del ventunesimo secolo in netta trasformazione e in evidente contrapposizione a quelle precedenti e, fors’anche, a quelle future dal punto di vista non soltanto economico e politico ma, soprattutto, sociale culturale ideologico e religioso. Società che come mai prima d’ora sono interdipendenti le une dalle altre, nelle quali soprattutto gli aspetti negativi e le degenerazioni ricadono scambievolmente e a notevole velocità. Ragioni per cui, come sottolinea lo stesso autore, non si può ipotizzare di studiare fenomeni e soluzioni senza allargare lo sguardo oltre i propri confini. Necessita sempre e comunque uno sguardo globale per problemi e fenomeni che sono innegabilmente globali.

Disclosure: Fonte biografia autore www.treccani.it


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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016) 


 

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Derive del terrorismo e dell’antiterrorismo in “Non c’è sicurezza senza libertà” di Mauro Barberis (ilMulino, 2018)

31 giovedì Mag 2018

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IlMulino, MauroBarberis, Noncesicurezzasenzaliberta, paura, recensione, saggio, terrore, Terrorismo

Il saggio del professor Barberis si apre con una citazione di Edward Snowden che in parte anticipa il fulcro centrale del discorso portato avanti dal filosofo e per il resto rende perfettamente l’idea di cosa il lettore deve aspettarsi inoltrandosi tra le righe del libro Non c’è sicurezza senza libertà, edito quest’anno da ilMulino: «Il terrorismo è solo un pretesto».

In Putinofobia (Piemme, 2016), Giulietto Chiesa afferma che, mentre il terrore rosso operante nell’ex Impero Sovietico fosse un nemico vero dell’Occidente, il terrore verde, ovvero quello di matrice islamista, sia in realtà una mera invenzione dello stesso Occidente. Non è l’unico saggista ad affermare una cosa del genere ma bisogna stare bene attenti al significato di queste parole.

Lo stesso Barberis, che in Non c’è sicurezza senza libertà più volte si avvicina alla linea tracciata anche da Chiesa, risulta essere ben lontano dall’affermare che il terrorismo islamista non esiste, letteralmente parlando. È ovvio che gli jihadisti esistono, come pure i foreign fighter. Naturale che gli attacchi terroristici nelle città dell’Occidente ci sono stati, come pure le vittime… quello su cui Barberis, Chiesa, Luizard e altri studiosi invitano a riflettere sono le dinamiche che hanno dato origine a detta forma di terrorismo e le conseguenze, durature seppur non immediate e dirette, di questi attacchi al cuore e ai simboli della civiltà occidentale.

Pierre-Jean Luizard, storico e direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique a Parigi, in La trappola Daesh (Rosenberg&Sellier, 2016) afferma che l’unica strada indicata come percorribile per annientare in maniera definitiva il terrorismo estremista di matrice islamica sia la sconfitta militare del Califfato. È una storia già nota, quella che raccontano media e politici, che prospetta una soluzione già fallita. Basti ricordare quanto accaduto all’indomani degli attentati dell’11 settembre del 2001, alle guerre e alle invasioni che ne sono derivate, alla uccisione di Osama bin Laden e all’affermazione dell’avvenuta sconfitta di Al-Qã’ida.

Il terrorismo islamista si è presentato più forte e organizzato di prima ed è tornato prepotentemente e più volte a bussare alle porte degli stati occidentali, mietendo vittime e democrazia. Esatto, perché è proprio da questo punto che parte la dettagliata analisi del fenomeno portata avanti da Mauro Barberis. Sentirsi o essere al sicuro non significa necessariamente sentirsi o essere liberi. Spesso i valori di sicurezza e libertà, «lungi dell’essere solidali, confliggono». E allora non si può non chiedersi, insieme all’autore, a quanta libertà personale abbia dovuto rinunciare ogni occidentale in seguito non solo e non tanto alle minacce terroristiche quanto alle misure restrittive e limitative intraprese dai vari governi, Stati Uniti in primis.

Conta poco che un 11 settembre sia oggi, con tutti i controlli aerei posti in essere, irripetibile. Autorità e apparati conservano i poteri e le risorse loro attribuiti per prevenire la replica. Da eventi come l’11 settembre, o da noi in Italia i terremoti, si sta «sviluppando una sorta di capitalismo della catastrofe» che ruota intorno al concetto di “sicurezza sociale” che non è mai stata un ostacolo allo sviluppo del mercato «come crede la gran parte dei neoliberisti contemporanei, ma una sua condizione necessaria».

Più volte citato dallo stesso Barberis, Michel Foucault sosteneva che la seconda conseguenza del liberismo, e dell’arte liberale di governare, è la formidabile estensione delle procedure di controllo, di costrizione e di contrappeso delle libertà. L’allerta seguita agli attacchi terroristici in territorio occidentale ha innalzato notevolmente l’asticella dei controlli e delle limitazioni della privacy di ognuno. Ma quanto in realtà queste misure possono o incidono sul reale rischio di nuovi attentati? Barberis afferma che la quasi totalità delle misure antiterrorismo è inadeguata, non necessaria e sproporzionata. Perché viene posta in essere comunque?

I limiti militari e tattici del nuovo terrorismo sono stati più volte dimostrati sul campo di battaglia. La vera forza dei terroristi risiede nell’eco mediatica che le loro “gesta” riscontrano sui media e nella Rete. Se le loro azioni, al pari delle minacce e dei video propagandistici, non ricevessero l’attenzione mediatica che invece trovano in tutto il mondo ormai il loro “potere” e la conseguente efficacia ne sarebbero inevitabilmente compromessi. Mauro Barberis sottolinea come ciò sia vero anche per le misure e le reazioni antiterroristiche dei governi, i quali sembrano affidarsi sempre più spesso alla tattica della politica-spettacolo, dove tutto viene “spettacolarizzato” al fine di ottenere il consenso del pubblico, ovvero dei cittadini. Tattiche che possono risultare affini, almeno per quel che concerne l’esagerazione o, se si preferisce, l’estremizzazione.

Battere così tanto sul concetto di sicurezza può anche sembrare un modo per stimolare e, al contempo, far leva sulla paura. Una persona che ha paura è decisamente molto più remissiva. In nome della sicurezza di tutti si può anche arrivare ad accettare passivamente limitazioni della propria libertà personale purché ciò sia utile a sconfiggere il pericoloso nemico che motiva i provvedimenti di urgenza intrapresi dai vari stati. Provvedimenti che poi si trasformano da eccezione a regola.

Riscontrabile, ad esempio, nella tendenza degli esecutivi ad appropriarsi della legislazione in tempo di guerra tramite la decretazione d’urgenza. Poi le guerre finiscono ma i governi, compreso quello italiano che ufficialmente non entra in guerra da settant’anni, continuano a legiferare per decreto. Quanti decreti vengono approvati? Qual è la loro reale emergenza? A legiferare non è preposto il Parlamento?

Quesiti doverosi su argomenti complessi è vero ma molto attuali. Situazioni e decisioni da cui derivano le sorti di interi popoli e nazioni. Tematiche di cui, a volte, spaventa il sentirne parlare o leggere perché, più o meno consciamente, si teme la scoperta di un ordine inverso delle cose, delle azioni e, soprattutto, delle motivazioni che hanno preceduto e determinato le scelte, di governi e terroristi. Eppure, alla fine, risulta sempre positivo lo studio e l’approfondimento di questi temi.

Non c’è sicurezza senza libertà di Mauro Barberis si presenta al lettore come una sistematica analisi di concetti, nozioni, dati, diritti e violazione degli stessi che ruota intorno a due termini affatto scontati: sicurezza e libertà. Un libro che appare moderato anche nelle tesi “estreme” più volte espresse, le quali vanno assimilate e maturate prima di essere frettolosamente giudicate o mal-interpretate.

Una interpretazione che deve essere portata avanti con una grande onestà intellettuale, la medesima che Barberis chiede abbiano sempre i “produttori” culturali, prima ancora dei politici e dei governanti. Avallando così l’ipotesi e la speranza che un’informazione e una educazione “libere” possano essere le migliori apripista per i cambiamenti di cui il mondo ha bisogno. Cambiamenti che potranno e dovranno per forza venire dalla cultura, in particolare dai libri, vero punto di forza nel giudizio dell’autore, il quale attribuisce loro una potenza talmente intensa da essere, a volte, una vera e propria catarsi.

Una lettura forse impegnativa Non c’è sicurezza senza libertà di Barberis, soprattutto nell’excursus storico-politico e nell’analisi dettagliata di dati e provvedimenti governativi, ma di sicuro interessante e, per molti versi, illuminate. Assolutamente consigliata.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società Editrice ilMulino per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro e biografia autore quarta di copertina


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Scuola dell’Infanzia violata da maltrattamenti e abusi. Come fermare tanta rabbia?

22 giovedì Mar 2018

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articolo, paura, RinnovamentoCulturaleItaliano, violenza

Dalla onlus La via dei colori, fondata e presieduta da Ilaria Maggi, avvertono di usare con cautela termini come maltrattamenti e abusi, almeno fin quando non si hanno prove certe di quanto può rivelarsi solo un’apprensione esagerata o un fraintendimento. Esistono dei campanelli d’allarme, sintomi specifici che connotano in maniera pressoché inequivocabile una situazione d’abuso. Questi campanelli però sembra che li ascoltino troppi genitori.

Dal dicembre 2010 al marzo 2017, La via dei colori ha preso in carico circa 95 processi per reati di maltrattamento (572 cp), abuso dei mezzi di correzione (571), abuso sessuale e pedofilia. 95 processi, non segnalazioni o denunce. Sul sito ministeriale si legge che, per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, è previsto un numero minimo di 18 e uno massimo di 26 bambini per classe. Considerando una semplice media ponderale di 22 bambini se ne deduce che nei 95 processi seguiti dalla onlus sono coinvolti, a vario titolo, almeno 2090 alunni. La via dei colori non è l’unica associazione che si occupa di questo e i tribunali in Italia sono tantissimi… Si arriva così a cifre spaventosamente alte da indurre immediatamente a chiedersi cosa in concreto è stato fatto per prevenire ulteriori aggressioni e maltrattamenti, denunce e processi.

Sembra impossibile reperire, forse perché non esiste, un dossier, un report ufficiale, un’indagine conoscitiva istituzionale sulla situazione scolastica italiana, o meglio sulle qualifiche degli insegnanti, sulle procedure di valutazione, se ce ne sono, e sui dati relativi ai maltrattamenti e agli abusi ma soprattutto sulle conseguenze a lungo termine. Sulle innocenti vittime certo ma anche su chi le ha generate. Che fine fanno questi insegnanti?

I casi balzati alla cronaca che hanno destato maggiore clamore sono stati sovente accompagnati da spezzoni di video delle riprese effettuate dalle telecamere nascoste posizionate dalle forze dell’ordine. Immagini che colpiscono soprattutto per le urla, tante urla da parte delle o degli insegnanti. I locali di quelle scuole hanno l’isolamento acustico? Difficile a credersi. Come arduo è pensare che nessuno sentisse. Non si denuncia per omertà o perché lo si considera un atteggiamento educativo normale? In entrambi i casi si parla di situazione terrificante inammissibile e inaccettabile.

In un’intervista rilasciata per ilfattoquotidiano.it, la Maggi parla di circa 13 segnalazioni al giorno ricevute al numero verde dell’associazione. Non sempre si tratta di reati già commessi certo ma nel corso della loro attività hanno scoperto di «insegnanti che li tengono legati, che fanno mangiare loro il cibo vomitato e che usano percosse non solo con le mani. Le vessazioni sono all’ordine del giorno».

Più di una volta è capitato che i dirigenti dell’istituto coinvolto hanno provato a giustificarsi adducendo di non sapere, di non essere a conoscenza e di non essersi mai resi conto… scusanti che, in ogni caso, non li esimono dalla responsabilità legale e, soprattutto, morale di quanto accaduto. La legge italiana non ammette ignoranza, neanche noncuranza e mai come in questi casi così deve essere.

Violenze non solo fisiche ma anche psicologiche sono state documentate in diversi asili nido, con «urla sistematiche e cibo spesso raccolto da terra e imboccato a forza erano purtroppo la norma per una ventina di spaventatissimi bambini, troppo piccoli per reagire o solo per parlare con i genitori». Agghiacciante il resoconto che rovigooggi.it fa di quanto accaduto nell’asilo dove l’intero corpo docente, composto da tre maestre, è risultato coinvolto. Violenze fisiche e psicologiche protratte su bambini di età compresa tra uno e tre anni.

Sembra che oltre al danno ci si diverta quasi ad aggiungere anche la beffa allorquando si tenta di giustificare i comportamenti ritenuti “meno gravi” come reminiscenza di una formazione e, conseguentemente, di un’educazione all’antica. Il fatto è che non conta se e quando era in vigore o di uso comune una simile tipologia di educazione, in famiglia o a scuola, il punto è che nel Terzo Millennio è assolutamente inaccettabile anche solo credere di poter giustificare una tal simile mancanza di correttezza e professionalità in educatori ed educatrici che sono, in un certo senso, figure istituzionali perché si occupano, o dovrebbero farlo, dell’educazione di coloro che saranno i cittadini futuro dello Stato, che direttamente o indirettamente, tra l’altro, garantisce loro il posto di lavoro e il salario.

Lavorare a stretto contatto con i minori di anni sei richiede una preparazione e delle conoscenze che non riguardano solo la sfera della didattica, abbracciando invece campi che vanno dalla psicologia alla medicina in senso stretto. Gli operatori de La via dei colori sottolineano l’importanza di conoscere aspetti e caratteristiche del funzionamento del corpo umano anche per evitare di causare danni involontari ma che potrebbero egualmente essere gravi e irreversibili per i piccoli alunni.

Shaken Baby Syndrome, ovvero la ‘sindrome da bambino scosso‘ può essere una terribile conseguenza di un gesto che in pochi sanno o ritengono essere potenzialmente molto pericoloso. Il cervello dei neonati e dei bambini molto piccoli è ancora immaturo e lo scuotimento con brusche accelerazioni e decelerazioni del capo causa o può causare lesioni di tipo meccanico all’encefalo.

Il 21 novembre 2013 La via dei colori ha lanciato, a tal proposito, l’iniziativa #iostoconMattia per sensibilizzare genitori e insegnanti «sulla Shaken Baby Syndrome che ha ucciso il piccolo Mattia» e anche per fare in modo che la triste vicenda di Mattia Pierinelli, per troppo tempo passata in sordina, continui a essere raccontata sia come riscatto che come monito a non sbagliare più.

Negli Stati Uniti 30 bambini ogni 100mila nati l’anno subiscono gravi danni a causa della ‘sindrome da bambino scosso’. In Italia mancano dati ufficiali ma «tutte le strutture ospedaliere più avanzate per la diagnosi precoce del maltrattamento sui bambini ci confermano la necessità di avviare un’ampia azione informativa per la prevenzione». A dirlo è Federica Giannotta, responsabile Advocacy e Programmi Italia di Terre des Hommes, che ha lanciato la prima campagna di sensibilizzazione su questa sindrome, “Non scuoterlo!”, con uno spot tv e un sito informativo dedicato.

La scusante più frequente al comportamento aggressivo degli insegnati è la diseducazione o mala-educazione dei bambini che assumerebbero atteggiamenti ingestibili, emulati anche dai soggetti più remissivi, generando il caos in classe. Sottolineando che bisogna anche tenere presente le condizioni precarie e oggettivamente difficili nelle quali sono costretti a operare i docenti. E la soluzione che avrebbero trovato è aggredire i bambini? Viene da sé che questo ragionamento, portato avanti da chi vuol difendere l’indifendibile, non convince neanche un po’. Se ci sono dei bambini con deficit comportamentali non è aggredendoli che la situazione migliora. Se ci sono carenze strutturali e di organico sul posto di lavoro non è aggredendo i piccoli ospiti della struttura che si migliorano le cose.

Si dice che la violenza è lo strumento preferito di chi non ha a disposizione altri strumenti. E gli insegnanti di strumenti e metodi dovrebbero averne molti altri e differenti. Soprattutto con i bambini piccoli, piccolissimi e in età da asilo nido.

L’ordinamento giuridico italiano pone tra i diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo il pieno sviluppo della persona umana. L’articolo 13 della Costituzione sancisce che “la libertà personale è inviolabile”. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’articolo 2 consacra espressamente “il diritto alla vita”. Quando si parla di persona o di uomo bisogna leggere ogni cittadino di qualunque sesso o età anagrafica. Maltrattare verbalmente, psicologicamente e/o fisicamente un bambino è una grave violazione della sua libertà, della sua persona e dei suoi diritti umani.

Nel pieno di un dibattito pubblico e mediatico sulla sicurezza dei bambini dietro le porte chiuse delle aule, la segreteria nazionale della Federazione Italiana Scuole Materne (FISM) diffonde una nota nella quale, pur dichiarando di comprendere le preoccupazioni dei genitori, ritiene che «la richiesta di introdurre negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia sistemi di videosorveglianza allo scopo di prevenire comportamenti di violenza e maltrattamenti sui bambini da un lato non risolverebbe la preoccupazione, dall’altro darebbe origine ad altre questioni di non poco conto». La telecamera «disincentiva, quando non sostituisce, il dialogo, l’ascolto, la relazione indispensabili tra scuola e famiglia». Non sarebbe quindi necessario l’uso di questo strumento per ‘controllare’ «come gli insegnanti impostano e realizzano il lavoro educativo». Molto meglio sarebbe, a parer loro, il confronto, il dialogo, la parola… I genitori «devono essere aiutati a imparare a partecipare alla vita della scuola», perché «devono essere aiutati a imparare a ‘vedere’, leggere, capire, direttamente nei/dai loro figli la presenza di eventuali problemi e non guardare la loro esperienza di vita scolastica attraverso una telecamera».

Il punto è che proprio attraverso la ‘lettura’ del comportamento dei propri figli i tanti genitori che hanno denunciato si sono accorti di quanto in realtà accadeva a scuola. Dopo che era accaduto. Invece di insistere tanto sul voler aiutare i genitori a ‘vedere’ i segnali di pericolo perché non si tenta di studiare un modo per prevenire i danni? Si può anche convenire che l’uso delle telecamere non sia la migliore delle soluzioni ma almeno si focalizzi sulla prevenzione, perché un bimbo maltrattato non è un danno collaterale ma il nocciolo della questione.

Una posizione che ricalca quella del garante della privacy espressosi in merito alla legge 2574 (Prevenzione abusi in asili e case di cura) ma che, forse, la minimizza troppo. Per Antonello Soro infatti non bisogna «inseguire le scorciatoie tecnologiche come esclusiva risposta ai problemi complessi» ma è importante sottolineare come «anche uno solo di questi episodi costituisce motivo di apprensione e di grave allarme sociale». Dovrebbe. Invece si rabbrividisce a leggere la voce pressoché univoca di coloro che operano a vario titolo nel comparto scolastico e che, pressoché all’unisono, definiscono il sistema scolastico nazionale un ambiente “sano” e un’istituzione che funziona “bene”, certo l’esistenza di mele marce, anche alla luce dei processi e delle sentenze giudiziarie, non può essere negata ma di casi isolati vogliono si tratti.

La realtà e l’onestà intellettuale invece vorrebbero che a fronte di maltrattamenti visti, sentiti e taciuti ognuno di questi operatori si passasse una mano sulla coscienza. Perché l’omertà difronte a un reato, anche laddove non è punibile legalmente, lo è per certo moralmente.

«La tecnica non potrà mai sostituire “l’uomo”, nessuna telecamera potrà mai sopperire a carenze insite nella scelta e nella formazione del personale deputato all’educazione e all’assistenza di soggetti particolarmente vulnerabili». Necessario quindi seguire le indicazioni del «disegno di legge approvato» volte a «introdurre sistemi di controlli più articolati ed efficaci che coinvolgano attivamente il personale tutto e, se del caso, le famiglie stesse».

Nel ddl 2574 infatti si parla di accurati metodi di valutazione dei requisiti all’atto dell’assunzione e di successivi e continuati processi formativi e di aggiornamento. Sostegno e ricollocamento per chi risulta non idoneo. Persiste il solito intoppo che dalle modifiche apportate «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» che stride notevolmente quando si parla di strutture pubbliche, statali o comunali. Nel testo ci si sofferma poi sull’utilizzo e sui modi di impiego delle telecamere di sorveglianza e sugli oneri finanziari, null’altro su requisiti, formazione e aggiornamento degli operatori.

Il quadro che emerge dall’osservazione di questo grave allarme sociale dipinge i tratti a tinte forti di una formazione (quella degli operatori) che cerca di fare il più possibile quadrato per difendere la categoria e anche il posto di lavoro, che si indispone e assume un atteggiamento ostile per ogni critica o accusa, continuando ad accumulare in questo modo rabbia e frustrazione. Per contro c’è la ressa dei genitori, intimoriti e spaventati, impossibilitati a ottenere garanzie certe e vessati dalla necessità di affidare i propri figli a queste strutture, diversamente non avrebbero a chi affidarli durante quelle ore. Anche in loro questa situazione genera rabbia e frustrazione. Quasi marginale appare la figura di questi piccoli che sembrano non avere voce e non solo perché per molti di loro è prematuro anche il solo saper parlare.

Lo Stress Lavoro Correlato è «la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro, eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste», secondo la definizione datane dalla European Agency for Safety and Health at Work (EU-OSHA). Le categorie professionali più interessate dallo Stress Lavoro Correlato sono:
Medici
Infermieri
Poliziotti
Assistenti Sociali
Insegnanti
Autotrasportatori

Lasciando da parte un attimo le professioni sanitarie, immaginiamo che dei poliziotti sfoghino tutto l’eccesso di rabbia accumulata e il senso di frustrazione su vittime, a caso, inermi. Tipo quanto accaduto alla scuola Diaz dopo il G8 di Genova. Oppure che un autotrasportatore dia di matto e sfoghi tutto lo stress accumulato verso ignari automobilisti che, per caso, lo incontrano lungo le strade percorse. Anche i bambini che subiscono maltrattamenti sono vittime casuali. Visionando gli spezzoni di video delle riprese delle camere posizionate dalle forze dell’ordine si può osservare che si tratta, semplicemente, di bambini, con i loro atteggiamenti e le loro peculiarità. Niente di più e niente di meno.

Il voler cercare a tutti i costi di ridimensionare quanto sta accadendo, considerando gli eventi come esempi isolati e non come un grave allarme sociale rischia di ingigantire il problema piuttosto che arginarlo. Poi succede che i genitori, esasperati, cercano di farsi giustizia da soli, cercano la vendetta e per trovarla usano a loro volta la violenza.

Ilaria Maggi de La via dei colori, lei stessa genitore di un bambino maltrattato a scuola, lancia un accorato appello affinché episodi del genere non si verifichino più: «non solo corriamo il rischio di inficiare il processo, che è la giusta sede per punire i maltrattamenti, ma incorriamo nel grave errore di non dare il buon esempio. I nostri bambini hanno già conosciuto la violenza e meritano da noi un esempio diverso». Eguali parole sarebbe stato utile ascoltare o leggere da tutti quegli operatori che si ritengono la parte buona del ben funzionante sistema scolastico nazionale e sarebbe stata già una ottima base di partenza per contrastare il fenomeno. Il persistente tentativo diffuso di minimizzare, di negare, di distrarre oltre a confermare una carenza o una mancanza addirittura di professionalità, non fa altro che alimentare il fuoco della rabbia e della frustrazione, di entrambe le posizioni.


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano

17 sabato Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli, Recensioni

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I governi di tutto il mondo basano le proprie decisioni sui rapporti informativi dei servizi di intelligence, strutture di sicurezza cui spetta il compito di reperire tutte le informazioni possibili necessarie alle autorità per compiere le proprie scelte e prendere le relative decisioni. Un potere enorme racchiuso nelle mani di una rete di persone pressoché invisibili, ma che esistono e agiscono, anche se all’ombra di governi e istituzioni, determinandone però la linea e le iniziative. Andrea Foffano, docente di sicurezza e intelligence presso ASCE e ANVU-ISOPOL, sottolinea come alcune notizie di carattere internazionale sono in grado di poter stabilire l’andamento politico, sociale ed economico di un’intera comunità nazionale. Anche laddove queste informazioni fossero volutamente forzate o addirittura falsate. Infatti, uno dei principi cardine dell’attività d’intelligence, svolta da tutti i servizi di informazione del mondo, non è altro che l’imperativo: usa tutto e tutti per raggiungere i tuoi scopi.
Quali sono allora gli scopi dei servizi di intelligence e quali quelli degli stati per cui lavorano?

Per esemplificare il lavoro svolto da servizi segreti e governi Foffano analizza il conflitto civile siriano partendo da quanto accaduto due anni prima l’inizio della guerra. Ovvero allorquando nel tratto di mare compreso tra l’Iran e la penisola del Qatar, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti energetici di gas naturale, usufruibile da entrambi i Paesi. La Siria, al cui governo si trovavano gli Alauiti del Presidente Bashar al-Assad, fedeli alleati degli Sciiti iraniani, negò il consenso al transito delle strutture di trasporto sul proprio territorio nazionale per la Qatar-Turkey pipeline, che avrebbe dovuto collegare l’Europa con il Qatar. Mentre diede il proprio consenso per il passaggio dell’Islamic pipeline progettato dall’Iran. Washington decise di intervenire in difesa dei propri alleati (Qatar e Arabia Saudita) e iniziò a sostenere militarmente le fazioni ribelli che, dopo l’avvento della Primavera Araba in Siria, avevano iniziato a opporsi al regime di Assad. Parallelamente, l’Arabia Saudita iniziò a finanziare in modo massiccio molti dei gruppi terroristici e jihadisti che si opponevano allo stesso regime.

Secondo quanto riportato in un’inchiesta del NewYork Times, l’Arabia Saudita avrebbe finanziato la guerra segreta della CIA in maniera continua e massiccia, si parla di circa un miliardo di dollari da parte degli Stati Uniti e svariati miliardi di dollari provenienti da ricchi e anonimi finanziatori sauditi. Un servizio segreto estero che fornisce sistemi d’arma di ultima generazione a gruppi ribelli divenuti poi estremisti, jihadisti, terroristi è di sicuro una scomoda verità. Modi di agire che ricordano molto, forse troppo, la guerra russa in Afghanistan, con gli americani intenti a sostenere militarmente i Talebani e i Mujaheddin. Americani e sauditi, con il sostegno fondamentale del Pakistan e dei pashtun della zona tribale, avevano creato a Peshàwar il più grande centro jihadista del mondo. Come ricorda Pierre-Jean Luizard, storico e direttore del Centre national de la recherche scientifique, del tempo in cui gli jihadisti erano i nostri eroi che combattevano contro l’Impero del Male, e solo in un secondo momento si trasformarono in barbari che avevano portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Per Luizard, il regime siriano ha avuto sempre alcuni difetti agli occhi degli occidentali. In primis per il diniego a una pace con Israele che non prevedesse la restituzione del Golan, occupato dall’esercito ebraico nel 1967. Continua ad avere ottimi rapporti con Mosca, alleato della repubblica sciita dell’Iran e a sostenere militarmente gli Hezbollah, l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006. Appartiene a quell’asse della resistenza che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo. Insomma, il nemico perfetto che ha fatto della Siria il terreno ideale per una guerra santa.

Secondo Joshua Landis, uno dei massimi esperti mondiali della politica siriana, circa il 60-80% delle armi che gli Stati Uniti hanno introdotto nel paese sono finiti nelle mani di gruppi terroristici jihadisti riconducibili ad al-Qaeda. Ma se a qualcuno venisse in mente di trovare le prove per accusare gli Stati Uniti di fomentare la guerra in Medio Oriente, avverte Foffano, sappia che andrà incontro a un fallimento certo. Il conflitto in atto in Siria appartiene a una nuova tipologia di guerra: quella per procura, nella quale gli attori in campo mascherano il proprio intervento tramite il sostegno, più o meno indiretto, ad una delle parti in causa. Scontri nei quali il secondo livello, ovvero la guerra delle informazioni, risulta alla fin fine più potente e pericoloso del primo, gli scontri armati sul campo. Almeno per gli Stati che non risultano in apparenza coinvolti direttamente nello scontro perché per quelli direttamente chiamati in causa e soprattutto per le popolazioni ad essi afferenti la situazione naturalmente cambia e anche di molto.

Bana Alabed, la ragazzina che ha fatto conoscere il dolore dei cittadini di Aleppo a tutto il mondo attraverso i suoi tweet inviati ai presidenti di tutte le maggiori potenze mondiali, si chiede come le persone possano essere così crudeli da far diventare, per un bambino, nessun posto sicuro e dedica il libro che racchiude la sua storia a tutti i bambini che soffrono a causa di una guerra, per dire loro che non sono soli, purtroppo. In tanti, in troppi soffrono e subiscono le conseguenze di scelte non proprie, non volute e non condivise in nome di una pace che stenta ad arrivare e a causa di interessi che raramente coincidono con quelli di interi popoli e troppo spesso invece con quelli elitari di ristrette cerchie e categorie di persone.

 

Quei terroristi che in altri scenari operativi sparsi per il mondo gli Stati Uniti stavano combattendo, a prezzo di numerose vittime fra i soldati dell’esercito americano e della coalizione internazionale, anche come conseguenza dell’intervento, diretto o indiretto che sia, degli stessi nel conflitto civile rischiavano di prendere il potere in Siria e allora lo Stato Maggiore decise di servirsi dei servizi segreti di intelligence per passare informazioni militari alle forze armate delle altre nazioni impegnate nel conflitto. Con la certezza che i servizi segreti di Assad avrebbero intercettato il movimento di dati e utilizzato il tutto nella lotta contro gli jihadisti. I cablo del Dipartimento di Stato americano, resi pubblici nel corso degli anni da Wikileaks, avrebbero gettato un fascio di luce su un retroscena assai torbido e buio.

Un rischio enorme quindi quello corso dagli americani. Non si può non chiedersi il perché reale del continuo e persistente intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo si prospetti o si profili una qualsivoglia instabilità. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono diventati l’unico polo dominante schierato in campo geopolitico mondiale. L’America è una di quelle nazioni, insieme a tante altre del cosiddetto Occidente, ad aver improntato il proprio sistema economico sulla competitività: non riescono a trovare una sicura e certa stabilità interna, senza ricorrere a nuovi mercati e ad altrettanti investimenti. Lo slogan del ventennio era: “Chi si ferma è perduto!”. Ecco, mai parole furono più adatte a descrivere la situazione di alcune potenze mondiali a ridosso del ventunesimo secolo.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001, da questo punto di vista, sono stati un avvenimento strategicamente molto importante. Hanno decretato l’inizio della «guerra al terrore» che ha significato l’invasione dell’Afghanistan, la guerra ai Talebani, l’invasione dell’Iraq, gli interventi in Libia e in Siria. Operazioni nelle quali ogni mossa è politica, è dettata da convenienze economiche e risponde sempre a chiare regole sociali. Giulietto Chiesa, giornalista e politico italiano, considera il terrorismo islamico un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando. L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetta in questo senso. Ma, una volta abbattuto il Comunismo sovietico, l’Occidente si è ritrovato senza un nemico da combattere. Senza nemici e con un nuovo gigantesco alleato e vassallo non è riuscito a spiegare al mondo intero come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli. Il problema non sarebbe quindi esterno, bensì interno, nel modello di sviluppo scelto. Il piano messo in atto sarebbe stato quello di sostituire il terrore rosso con il terrore verde. Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un’antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Per Foffano, prima di passare all’analisi oggettiva dei fatti, provando conseguentemente a interpretarli sino a giungere a una spiegazione logica e razionale degli avvenimenti, bisogna forzatamente sgombrare il campo da ogni sorta di pregiudizio politico-ideologico, che potrebbe in qualche modo viziare la nostra intrinseca capacità critica. Quello che Chiesa definisce con parole molto più crude Matrix, con riferimento diretto alla omonima produzione cinematografica. L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo. Il mondo reale è altrove però, fatto in un altro modo, è furibondo, è feroce, è senza tregua. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

Anche quanto sta accadendo o è già accaduto in Siria, per fare un esempio, viene tagliato fuori dall’immagine che del conflitto hanno milioni di occidentali indotti a credere che si stia parlando, solo, dell’ennesima lotta contro il terrorismo, di matrice islamica questa volta, necessaria e imprescindibile per la sicurezza e la stabilità del mondo, occidentale naturalmente.


Bibliografia di riferimento:

A. Foffano, “Siria. La guerra segreta dell’intelligence”, Ed. Solfanelli, 2017
P.J. Luizard, “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna”, Rosenberg&Sellier, 2016
B. Alabed, “Caro mondo”, Tre60, 2017
G. Chiesa, “Putinofobia”, Piemme, 2016


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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016) 

Il grido dei bambini vittime delle guerre. “Caro mondo” di Bana Alabed (Tre60, 2016) 

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La memoria troppo condivisa dei social network: i like diventano surrogato della realtà. Quando la filter bubble la creiamo noi, a quale prezzo e a beneficio di chi?

20 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Mark Zuckerberg, ideatore e ceo del social network Facebook, il 12 gennaio 2018 scrive, sulla sua pagina social, un post che ha scatenato una grande eco mediatica. Il succo del suo comunicato riguarda l’imminente e progressivo cambiamento dell’algoritmo che gestisce la condivisione dei post e dei video perché, a suo dire, Facebook sta deragliando da quello che era lo scopo originario per cui lui stesso l’ha inventato.

Facebook sarebbe quindi stato ‘costruito’ per aiutare le persone a rimanere in contatto e avvicinarsi a quelle ritenute importanti, affettivamente parlando. Per questo motivo famigliari e amici devono restare il fulcro del mondo social racchiuso nell’universo del libro delle facce. La esplosione di contenuti pubblici starebbe quindi rompendo l’asse dell’equilibrio, allontanandosi dallo scopo principale del social, ovvero «help us connect with each other» (“aiutarci a connettersi tra noi”).
Zuckerberg si augura che il tempo passivo trascorso sui social, in particolare il suo, diminuisca e che gli utenti siano sempre più stimolati a interagire. Adottando queste misure lui dichiara di aspettarsi una diminuzione del tempo trascorso sul social ma, al contempo, si augura che sia tempo prezioso, di qualità.


«I expect the time people spend on Facebook and some measures of engagement will go down. But I also expect the time you do spend on Facebook will be more valuable.»


Il social network Facebook quindi, per mano dei suoi organizzatori, vuole spronare i suoi utenti a essere più attivi, cliccando like e commentando post personali, famigliari, di amici e conoscenti, foto e riflessioni… saranno quindi scoraggiate le condivisioni di post da pagine pubbliche, da link esterni, notizie, informazione e quant’altro possa distogliere l’attenzione e l’interesse degli utenti dallo scopo principale del social: “aiutarci a connettersi tra noi”.
Ora, a meno che una persona non abbia tutti i suoi affetti lontano e viva isolato su un eremo, davvero si fatica a comprendere fino in fondo la necessità della condivisione social e non di quella reale di immagini, foto, ricordi, impressioni, pensieri, riflessioni, considerazioni… che invece potrebbero e possono benissimo essere condivise de visu, via mail, in chat, su skype, al telefono… Ma l’aspetto più interessante e a tratti inquietante è il tentare di capire se davvero Zuckerberg sia così filantropo da boicottare volutamente il suo social network a beneficio dell’affettività dei suoi iscritti.

Due giorni dopo l’annuncio di Marc Zuckerberg già è virale la notizia, basata su dati della rivista Forbes, di una perdita di 3,3miliardi di dollari a causa del calo nella quotazione in borsa del titolo Facebook. Zuckerberg possedendo il 17% delle azioni ne avrebbe quindi subito un danno personale. Ora, considerando che sempre secondo la rivista Forbes, il patrimonio complessivo dell’ideatore di Facebook ammonterebbe a 72,4miliardi di dollari, quella subita è una perdita che, pur ammettendo non fosse stata calcolata, sarebbe per certo facilmente recuperabile.
La scelta di modificare l’algoritmo di condivisione non sarebbe piaciuta a investitori e sponsor e il titolo societario scende del 4,4%.
Lo stesso Zuckerberg ha dichiarato di prevedere un leggero calo nella quantità del tempo che gli utenti trascorreranno sul social a seguito dei cambiamenti dell’algoritmo. È lecito supporre avesse anche preventivato un iniziale calo di fiducia da parte di investitori e sponsor?

Dopo un 2017 trascorso a tentare in vari modi di bloccare segnalare contrastare confutare le fake news Facebook sembra compiere una decisa virata che prevede, in buona sostanza, una riduzione delle notizie, presumibilmente quindi anche delle cosiddette bufale, e l’ammissione neanche troppo implicita che il social non è un organo idoneo alla diffusione dell’informazione. Non è per questo scopo che è stato creato.
La ricerca condotta dal team di Facebook in sinergia con esperti accademici avrebbe messo in luce che l’utilizzo dei social per connettersi con persone a cui teniamo sarebbe un toccasana per il nostro benessere.

Quindi creare un ambiente social con parenti, famigliari e amici, connettersi virtualmente con loro, condividere sul social momenti di vita, di affetto, di amore, di delusione, di tristezza, di passione… gioverebbe alla di ognuno “felicità e salute”. Essere sempre più il fulcro della propria filter bubble. Questo lo scopo reale di Facebook. Questo il ‘benessere’ di cui sembra parlare il suo fondatore, il quale anni fa ha dichiarato, parafrasando forse inconsapevolmente le parole del patron di Le Figaro, Hippolyte de Villemessant (“Per i miei lettori è più importante l’incendio di in solaio nel Quartiere Latino che una rivoluzione a Madrid”), ha detto: “La morte di uno scoiattolo davanti casa può essere più pertinente per i tuoi interessi di quella di una persona in Africa”. Naturale a questo punto chiedersi cosa esattamente “è più pertinente” per “gli interessi” immediati e futuri del ceo di Facebook.

Il primo data center di Facebook fuori dagli Stati Uniti è stato impiantato a Luleå, in Svezia. Un anonimo enorme capannone grigio che racchiude in sé un’immensa memoria connessa. È prevista l’apertura prossima di strutture simili a Clonee in Irlanda e a Odense in Danimarca. I responsabili della struttura svedese più volte hanno ribadito al giornalista Diego Barbera, giunto in loco per un servizio, che «i dispositivi vengono trasportati in modo riservato e sicuro» affinché «sia impossibile accedere a qualsivoglia dato». Tutte «le informazioni sono conservate, e i vecchi supporti sono completamente distrutti». Massima protezione e cautela quindi nella raccolta dei dati che assolutamente non devono lasciare la struttura, né essere trafugati. Ma allora a cosa serve questo immenso archivio di dati e informazioni condivise dagli utenti del social network Facebook?

In un servizio di Stefania Rimini per la trasmissione Report, girato nell’ormai lontano 2011, illuminante già nel titolo (“Il prodotto sei tu”) ci si chiedeva come mai una società fondata dall’allora poco più che ventenne Marc Zuckerberg che, in apparenza, non comprava e non vendeva nulla, assolutamente gratuita, facesse tanto gola a investitori internazionali quali «la banca Goldman Sachs ma anche la Microsoft, il miliardario russo Yuri Milner e il magnate di Hong Kong Li Ka Shing». Una società all’epoca non ancora quotata in borsa che ha subito una crescita vorticosa ed esponenziale, nel numero degli iscritti come nel valore di mercato nella quale sembra «tutto bello tutto gratis ma se ti va di leggere i termini contrattuali che quasi nessuno legge, scopri che sì, non stai pagando per il prodotto… perché il prodotto sei tu».

Profili che ogni utente compila volontariamente al momento dell’iscrizione, con dati personali anche sensibili, consegnati autonomamente ma con quanta reale coscienza dell’uso che ne verrà fatto? Schede zeppe di informazioni personali, di gusti e preferenze, livello culturale e titoli di studio, professione, stato civile, sesso e orientamento sessuale, orientamento politico e religioso… che rischiano però di diventare dati troppo statici e obsoleti se non li si rinvigorisce con aggiornamenti continui. Nuovi like, nuove foto, nuovi commenti… espressioni a loro volta delle singole personalità che navigano in questo mare che il suo proprietario dichiara di voler far diventare sempre più un porto sicuro. Stare bene quando si accede al social, sentirsi in famiglia, condividere con gli affetti, con gli amici, con i conoscenti… tutto per far sentire al meglio l’utente, libero di manifestare e condividere il suo essere. A pieno beneficio di chi?

Non è naturalmente un problema precipuo di Facebook ma generale della Rete e dei social. Semplicemente è la costante premura del suo fondatore a creare e fortificare questa sorta di filter bubble a destare qualche sospetto di troppo.

Sempre nel 2011 esce per Il Saggiatore il libro di Eli Pariser Il filtro. Quello che internet ci nasconde (“The Filter Bubble. What The Internet Is Hiding From You”). Nel libro Pariser sottolinea l’impiego dei filtri per creare la bolla nella quale ognuno poi naviga in base alla “rilevanza” che è in pratica l’unico vero criterio seguito. Una bolla creata in base alle pagine che visitiamo, ai link che cerchiamo, agli interessi e via discorrendo. Quello verso cui non mostriamo interesse semplicemente scompare… dalla nostra filter bubble. Se due persone compiono la medesima indagine su un motore di ricerca, per esempio Google, i risultati saranno molto dissimili tra loro. Ciò è conseguenza della «personalizzazione del web», creata dagli indicatori impiegati per stabilire chi siamo e cosa potrebbe piacerci in base proprio agli interessi che abbiamo mostrato e che sono costantemente monitorati.

I nostri interessi devono essere mostrati e costantemente aggiornati a beneficio di chi li cataloga, li archivia, li studia e poi, magari, li utilizza come merce di scambio con chi questi dati li usa per creare prodotti ad hoc, studiati e realizzati sulle esigenze e sugli interessi dichiarati, proposti poi direttamente a chi ha manifestato il desiderio di possederli tramite pubblicità, newsletter, spot, link… Il tutto, naturalmente, in forma anonima e sicura per l’utente. Certo.

Il mondo cambia, il commercio anche, la globalizzazione avanza, la Rete è fondamentale e anche utile. Nessuna obiezione. Rimane però la curiosità di sapere con quanta coscienza l’utente compie le sue scelte, definisce i suoi interessi, manifesta e soddisfa i propri bisogni.

Per Pariser «la democrazia dipende dalla capacità dei cittadini di confrontarsi con punti di vista diversi. Quando internet ci offre solo informazioni che riflettono le nostre opinioni limita questo confronto».

A questo punto viene naturale chiedersi quanto potere abbiano effettivamente Google e Facebook, per citarne alcuni, nella creazione della di ognuno filter bubble e quanto invece sia dovuto alla incoscienza o proprio alla volontà dell’utente di dedicare il suo tempo e le sue energie solo per ciò che gli interessa e gli piace e annullare i problemi, le opinioni dissimili, gli argomenti per lui ostici. In base a queste considerazioni viene da affermare che la vera filter bubble la creiamo noi stessi, dentro e fuori la Rete e i social.

Sul portale di wearesocial.com si può leggere una dettagliata descrizione di cosa sia in realtà il social thinking, ovvero l’approccio alla «creatività per risolvere problemi di business e brand». La base di partenza sono i social insight – «comprensione del comportamento sociale delle persone e, di conseguenza prendere in considerazione i canali e le piattaforme per loro rilevanti» – permettendo così lo sviluppo di «idee creative che costruiscano valore per i brand e per le persone». Mentre gli insight tradizionali permettono di comprendere i comportamenti delle persone concentrandosi solo su motivazioni individuali, gli insight social «mettono questa comprensione nel contesto delle nostre relazioni interpersonali, delle community e della società fornendo evidenze spesso nascoste, inaspettate o inespresse».

Le social idea sono idee «powered by people». Sono idee con un altissimo potenziale e di grande valore, in altre parole sono preziose, esattamente come il tempo passato sui social a raccontarle, perché «sono in grado di creare o rafforzare relazioni e community, unire le persone, attivare conversazioni e stimolare all’azione». Addirittura possono o potrebbero «influenzare il comportamento delle persone e avere un impatto culturale». Molto più spesso però sono studiate per capire come «creino valore di business».

Il numero delle persone in Italia Europa e nel mondo connesse a internet è in costante aumento, lo stesso per il tempo trascorso sui vari social. In crescita anche la connessione tramite smartphone, in calo quella da pc. Social e video sono le ‘mete’ preferite dalla gran parte degli utenti connessi in Italia. Oltre la metà della popolazione online utilizza applicazioni di messaging e chat dai dispositivi mobile. Perché?

I motivi addotti per spiegare il fenomeno ormai di massa dell’adesione a social e chat sono numerosi e spaziano dalla paura della solitudine che attanaglierebbe tutti fuori dal web alla possibilità di trovare lì campo libero allo sfogo delle proprie frustrazioni, dell’aggressività altrimenti repressa e via dicendo. Ma la verità è che online, sui social, nelle chat, nei gruppi… non troviamo altro, troviamo esattamente ciò che incontriamo per strada, al bar, allo stadio, nei parchi e lungo le vie. La differenza forse è che nella auto-celebrazione di se stessi che spesso si fa sui social ci si illude di trovare un pubblico copioso interessato alle foto, ai pensieri, ai commenti, alle riflessioni, alle offese, agli sfoghi, ai like… il pubblico in effetti c’è ed è anche molto attento a ogni interazione, ma non è quello che si pensa.

Albine ha reso pubblico il Val-You Calculator, un ‘divertente’ test che consente a ognuno di calcolare quanto vale il suo profilo social per Facebook. Farlo equivale a ritrovarsi dinanzi a un risultato che dà una cifra irrisoria, soprattutto se non si è molto attivi sui social. Ma, a ben pensarci, stando alla stima di giugno 2017, Facebook ha raggiunto i 2miliardi di utenti. Ed ecco che una cifra irrisoria moltiplicata per 2miliardi diventa un colosso quotato in borsa, finanziato da investitori globali e con un potere sociale, culturale e commerciale enorme. Enorme.


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G8, scuola Diaz e Bolzaneto: Il tempo trasforma la colpa in merito?

13 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Bolzaneto, Diaz, G8, Genova, Italia, italiani, paura, violenza

Nel novembre del 2015 nuove condanne furono inflitte agli agenti di polizia e funzionari che non impedirono le violenze alla scuola Diaz nel luglio 2001, allorquando si svolse il G8 a Genova. Il risarcimento richiesto ammontava a 350mila euro ma il giudice della Corte dei Conti lo ha ridimensionato accogliendo la tesi secondo cui non essendo stati identificati tutti i responsabili del pestaggio non si poteva accollare l’intero importo esclusivamente agli indagati. Il Tribunale di Genova ha così condannato i responsabili al pagamento di 110mila euro, a titolo di risarcimento morale e materiale per le violenze subite dal giornalista Mark William Covell.

«Arrivato al primo piano dell’istituto, ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese, stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: “basta basta” e cacciai via i poliziotti che picchiavano.»

A raccontarlo ai pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona è il vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier, uno dei 28 poliziotti imputati per la vicenda, nella nuova versione illustrata agli inquirenti nel 2007, molto diversa da quella fornita inizialmente.

«Durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza»

Uno spirito di appartenenza che in altri contesti non si fatica a indicare come omertà. Non si può a questo punto non porsi la domanda che in tanti urlano da quasi venti anni: cosa è successo veramente alla scuola Diaz, alla caserma di Bolzaneto e durante i giorni del G8 di Genova?

“Sembrava una macelleria messicana”, dice Fournier. Macelleria messicana è una situazione in cui si verificano atti di estrema violenza e crudeltà. Perché a Genova si sono verificati?

Il G8 è un annuale incontro tra i capi di stato e di governo delle maggiori democrazie mondiali. Il summit del 2001 si è tenuto nella città di Genova tra il 20 e il 22 luglio. I punti discussi all’ordine del giorno sono molteplici e spaziano dal commercio internazionale alla fame nel mondo, dai problemi legati all’ambiente alle innovazioni tecnologiche, dai cambiamenti climatici alle malattie, dalla finanza alla pace nel mondo. Gli incontri tra i grandi della Terra sono blindati, come i luoghi in cui si svolgono e ciò che viene fatto trapelare sono le dichiarazioni ufficiali dei diretti interessati, o chi per essi, in conferenza stampa e l’idea che il tutto possa quasi essere una costosissima reunion di pranzi ed eventi che forse potrebbe anche essere evitata visto che se i partecipanti sono concordi sul da farsi potrebbero comunicarselo in mille altri modi e se non lo sono non è detto che lo diventino proprio in quei giorni.

Le iniziative contro il G8 sembrano essere tutte motivate dalla convinzione che un altro mondo è possibile. Un mondo votato verso il commercio equo e solidale, la finanza etica, l’annullamento del debito dei paesi poveri, le produzioni biologiche, pregno di azioni concrete contro le guerre. Con limiti e restrizioni al commercio delle armi. Un mondo con uno sviluppato senso critico, sociale e solidale. Un mondo pulito. Le numerose sigle e associazioni che protestavano contro il G8 a Genova si erano riunite in un comitato chiamato Genova Social Forum, il cui portavoce fu nominato Vittorio Agnoletto, medico milanese fondatore della Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (LILA).

In un’intervista rilasciata a oltremedianews, Agnoletto ha dichiarato che, a parer suo, l’aspetto più scioccante sul piano politico è stato l’assalto alla scuola Diaz perché «quell’evento ha reso evidente che, da parte delle istituzioni dello Stato e dei suoi rappresentanti, non c’era assolutamente più nessun rispetto della legge, delle regole e della legalità e che i rappresentanti dello Stato stavano agendo unicamente in base alla logica del più forte e stavano manipolando completamente la realtà, costruendo, come si è potuto vedere successivamente, una versione del tutto falsa di quello che stava accadendo».

Ma perché la polizia irrompe nella scuola Diaz? Ufficialmente è alla ricerca dei black bloc, i manifestanti del blocco nero indicati come i responsabili dei disordini durante le manifestazioni e degli atti di vandalismo alla città. Ma questi black bloc alla Diaz non c’erano.

Agnoletto, nel corso dell’intervista, ci tiene a precisare però che il fatto più grave accaduto a Genova durante il G8 è stato l’uccisione di Carlo Giuliani: «Una vita umana che non potrà mai essere restituita è un valore incomparabile rispetto a qualunque altro evento».

Carlo Giuliani, giovane manifestante no-global muore in piazza Alimonda per il proiettile sparato dall’arma di ordinanza del carabiniere Mario Placanica, indagato per omicidio e prosciolto per legittima difesa e uso legittimo delle armi. Giuliani minacciava di colpire l’auto dentro cui stazionavano Placanica e colleghi con un estintore. Placanica gli ha sparato in testa. In tanti si saranno chiesti in tutti questi anni quale effetto avrebbe sortito un colpo sparato in aria contro un gruppo di manifestanti che, nella concitazione del momento, provavano ad assalire e assaltare i nemici di quel momento con armi di fortuna. Ma c’è anche un’altra domanda da porsi: perché la polizia, il cui compito sarebbe quello di proteggere i cittadini, aveva incarnato fin da subito le sembianze del ‘nemico‘, ovvero lo Stato e i suoi rappresentanti che se ne stavano blindati nella zona rossa? La domanda è ovviamente retorica e la risposta è già in essa contenuta.

Agli occhi dei manifestanti, come per i membri del blocco nero e degli ultras, i celerini, ovvero i poliziotti della squadra mobile, la cosiddetta celere, sono l’incarnazione dello Stato e dei suoi rappresentanti, o meglio ne sono i servi, diventando di fatto il nemico da ‘combattere’. Quello vero, diciamo così, è inarrivabile, barricato, e così l’interesse si concentra sul suo surrogato oppure, come nel caso degli ultras, sui ‘nemici’ della tifoseria avversaria. Ma questi poliziotti, i celerini, come vedono i loro ‘nemici’ sul campo e come i rappresentanti dello Stato?

I poliziotti del reparto mobile sono addestrati per garantire l’ordine e devono restare impassibili agli sputi, agli insulti, alle minacce, al lancio di oggetti… almeno fino a quando il loro comandante non dà il via alla carica, ovvero alla “occupazione del territorio” e allora partono i lacrimogeni e, quando non bastano, vengono sfoderati gli sfollagente, usati fino a quando il funzionario non dice “basta!”. Vengono offensivamente indicati come servi. Sono in realtà servitori dello Stato, il medesimo che, attraverso altri funzionari e altri servitori, manda, per fare un esempio, indirizzate direttamente a loro le lettere di sfratto, coatta esecuzione della volontà statale che tante volte hanno avuto il compito di supportare e coordinare. Sono servitori addestrati a mostrare il muso duro verso protestanti, manifestanti, sfrattati e tifosi ma che devono remissivamente sottostare agli ordini dei diretti superiori, chiunque essi siano e qualsiasi decisione prendano. Costretti a difendersi in aula quando perdono le staffe e a vedere, inermi, i funzionari giudiziariamente illesi per decisioni sbagliate che hanno portato, magari, conseguenze disastrose. La domanda da porsi non è relativa alla presenza o meno di rabbia e frustrazione, ma semplicemente quando e verso chi verrà incanalata.

L‘Italia, per i fatti accaduti alla scuola Diaz di Genova e alla caserma di Bolzaneto è stata condannata prima perché si trattava di tortura e poi perché ritardava l’adeguamento delle leggi. E ciò è di una tale gravità da far rabbrividire. Non si sta parlando di raptus, di errore strategico, di impulsività… no, si parla di tortura. Qualsiasi forma di coercizione fisica o mentale non inferta allo scopo di ottenere una confessione o informazioni va intesa come violenza, sevizia, crudeltà fine a se stessa dettata solo dalla brutalità. Azioni che, per essere poste in essere, necessitano di un addestramento, di sangue freddo e anche di un certo macabro auto-controllo derivante da una formazione militare o paramilitare oppure da devianze psichiatriche.

Vincenzo Canterini, all’epoca dei fatti comandante del Primo reparto mobile romano, nel quale era inquadrato il VII Nucleo Sperimentale antisommossa guidato da Michelangelo Fournier che irruppe nella scuola Diaz, nel libro Diaz, scritto con Simone Di Meo e Marco Chiocci (Imprimatur, 2012), racconta la sua verità sulla sanguinosa notte di Genova.

«La Diaz fu una rappresaglia scientifica alla figuraccia mondiale per le prese in giro dei black bloc. Un tentativo, maldestro, di rifarsi un’immagine e una verginità giocando sporco, picchiando a freddo, sbattendo a Bolzaneto ospiti indesiderati assolutamente innocenti.»

In un’intervista rilasciata per altraeconomia.it, Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano nazionale e cofondatore del Comitato Verità e Giustizia per Genova, testimone e vittima dei fatti della Diaz, ribatte, punto per punto, le dichiarazioni di Franco Gabrielli, oggi capo della Polizia, all’epoca dirigente della Digos di Roma. Partendo proprio dalle scuse che non sono mai arrivate… «come le ragioni chiare per le quali si vorrebbe chiedere scusa: Per i pestaggi alla Diaz? Per i falsi realizzati dopo l’irruzione? Per la violazione di numerosi articoli del codice penale e della Costituzione? Per averne impunemente ostacolato i processi, come riconosciuto anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo? Per le mancate rimozioni e sanzioni disciplinari dei responsabili delle violenze?»

Nel luglio del 2015 sono diventate definitive le condanne ai 25 poliziotti per l’irruzione nella scuola Diaz al termine del G8 di Genova del luglio 2001. Tutti condannati in Cassazione per falso aggravato in relazione ai verbali di perquisizione e arresto a carico dei manifestanti. L’unica imputazione sopravvissuta alla prescrizione dopo i trascorsi 11 anni. Pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni anche per alcuni degli alti gradi inflitta nel 2012:

  • Giovanni Luperi (capo del Dipartimento analisi dell’Aisi).

  • Franco Gratteri (capo della Direzione centrale anticrimine).

  • Gilberto Caldarozzi (capo del Servizio centrale operativo).

Tutti condannati a risarcire le parti civili ma nessuno che abbia mai veramente rischiato di finire in carcere, complice anche lo sconto di tre anni all’indulto approvato nel 2006. Diverse le prescrizioni che sono cosa ben diversa da un’assoluzione.

A luglio 2017 per chi non era potuto andare in pensione si prospettava la concreta possibilità di rientrare in servizio.

L’11 settembre 2017 il ministro dell’Interno, Marco Minniti, nomina vice direttore tecnico operativo della Direzione investigativa antimafia Gilberto Caldarozzi. Pietro Troiani, il poliziotto accusato di aver introdotto nella scuola Diaz due bottiglie incendiarie tipo Molotov, già vicequestore avrebbe ricevuto anche l’incarico di dirigente del Centro operativo autostradale di Roma con competenza su tutto il Lazio.

Michelangelo Fournier prontamente ha tenuto a replicare alle affermazioni di Marco Travaglio allorquando il direttore de Il Fatto quotidiano avrebbe affermato che Fournier «dopo la prima condanna a 4 anni e 2 mesi ascese al vertice della Direzione Centrale Antidroga». La condanna di Fournier era solo di 2 anni e non di 4 ma, per il resto, Travaglio resta sulle sue posizioni specificando che «fare carriera non significa necessariamente ottenere promozioni e premi: per chi partecipò all’assalto alla Diaz, anche se alla fine sembrò pentirsene, già il fatto di seguitare a ricoprire ruoli di responsabilità nella Polizia di Stato dopo quello che era accaduto, e addirittura dopo essere stato condannato per lesioni personali continuate, mi pare sufficiente per dire che ha fatto carriera».

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, sempre in merito alle promozioni, in particolare quella di Caldarozzi, ipotizza uno sviluppo differente se in Italia ci fosse stata per tempo e da tempo un’adeguata legge sulla tortura. Mentre Enrica Bartesaghi, già presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova istituito a sostegno «delle vittime della repressione delle forze dell’ordine nell’esercizio della manifestazione del pensiero», ormai sciolto e madre di Sara, tra le vittime della Diaz, scrive parole che rappresentano invece esattamente lo scenario che è stato.

«In questi lunghissimi anni ho assistito a numerose promozioni indecenti di buona parte dei condannati per le violenze e le torture alla Diaz e a Bolzaneto, da parte di tutti i governi che si sono succeduti. Non c’è mai stata alcuna sospensione, nessun allontanamento dei colpevoli, nessuna legge o riforma volta a prevenire e condannare quello che è successo a Genova»

I manifestanti avevano il diritto di protestare? Di sfilare in corteo per dimostrare la loro opinione, contraria, alle decisioni dei grandi della Terra? Avevano il diritto di alloggiare in quella scuola trasformata per l’occasione in dormitorio? I celerini avevano il diritto di manganellare a destra e a manca fino all’alt del funzionario incaricato di dare il comando? I poliziotti hanno il diritto di fabbricare prove mancanti? Di dichiarare il falso? Di trascriverlo nei verbali? I funzionari hanno il diritto di impartire determinati ordini incuranti delle conseguenze? Se viene dimostrato l’errore nella catena di comando quanto è importante che corrisponda un’adeguata punizione in un paese che si dichiara democratico? Se il vertice non viene punito perché dovrebbe esserlo chi ha solamente eseguito degli ordini? Se il vertice non era a conoscenza perché questi ‘picchiatori’ selvaggi e ‘torturatori’ non sono stati fermati?

Al G8 i manifestanti riunitisi come Genova Social Forum volevano partecipare a cortei e manifestazioni lungo le strade della città che ospitava i grandi della Terra proprio in quei giorni, presumibilmente, perché volevano approfittare dell’interesse mediatico elevato per l’occasione. La Costituzione italiana è a favore della libera manifestazione delle proprie idee. Se i Capi di Stato e di Governo devono riunirsi in sontuose location per prendere decisioni che poi, inevitabilmente, ricadranno sui popoli, i cittadini che vanno a comporre quelle popolazioni hanno e devono avere a loro volta il diritto di di riunirsi e manifestare le proprie personali opinioni. Il dispiegamento di forze dell’ordine impiegato per proteggere le celebrities dovrebbe essere dispiegato anche per proteggere la popolazione, i cittadini, siano essi manifestanti oppure no.

I poliziotti vengono chiamati in causa per motivi diversi. Viene detto loro di entrare in azione per arginare la violenza. Devono essere pronti anche con il minimo preavviso e, quasi sempre, non hanno idea di cosa li aspetta davvero. Tra gli interventi più frequenti richiesti agli agenti della mobile è il servizio d’ordine allo stadio. Le violenze dentro e appena fuori gli stadi sono innumerevoli, spesso gravissime e si riallacciano a dinamiche psicologiche e sociali che poco o nulla hanno a che fare con lo sport e la sportività. Piuttosto legate alla rabbia repressa, alla frustrazione, all’appartenenza a un gruppo e la sottomissione alle sue regole. Violenza estremista e provocazione, come quella dei black bloc, che inevitabilmente finisce con il coinvolgere persone che nulla hanno a che fare con tutto ciò. Momenti in cui il tutto appare ancora più surreale, paradossale, incredibile al punto da lasciare increduli, basiti, scioccati tutti… in un primo momento, poi l’indifferenza ritorna a farla da padrona. Ma non per le vittime, non per i carnefici, non per coloro che nuovamente in quel delirio vengono chiamati a ‘combattere’.

«Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono». (Bertolt Brecht)

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Italia: Tortura, G8, Diaz, Bolzaneto. La condanna della Corte europea e l’iter infinito di una legge che tarda ad arrivare

“Sbirritudine” di Giorgio Glaviano (Rizzoli, 2015)

Disclosure: Copyright prima immagine galleria per La storia della tortura www.focus.it

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