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È ora di dire basta alla «antimafia della retorica e delle cerimonie». Non è sufficiente scandalizzarsi, indignarsi e commuoversi, «occorre muoversi». La mentalità mafiosa «conquista molte menti. Ma spesso non lo si confessa neppure a noi stessi». È presente in ognuno, ed è «quella parte della coscienza di ciascuno che è tentata di imboccare una scorciatoia, accettare una lusinga facile, un compromesso, una raccomandazione o un lavoro in nero». La forma mentis del “mi conviene” che ha consentito alle organizzazioni mafiose di estendersi oltre le loro zone di origine, fino a quelle località ritenute estranee a tutto ciò che invece è penetrato nel loro substrato modificando intere economie e società. Anche se in tanti ancora lo negano.

Guardare la mafia negli occhi di Elia Minari, uscito in prima edizione a settembre 2017 con Rizzoli, è il libro che racconta «le inchieste di un ragazzo che svelano i segreti della ‘ndrangheta al Nord» e quelli dei «professionisti plurilaureati, poliziotti, medici, figure istituzionali, giornalisti, preti, impiegati, imprenditori, uomini d’affari, commercialisti, amministratori pubblici» che della criminalità organizzata si servono per soddisfare la loro bramosia di successo, potere e denaro. Perché, è inutile negarlo, «la forza delle mafie è fuori dalle mafie». Come sottolinea il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti che ha curato la prefazione al libro di Minari.

Per contrastare la criminalità organizzata, che sia Cosa Nostra, camorra, ‘ndrangheta o altro ancora, è necessario «diminuire la domanda di mafia». Gioco d’azzardo, sostanze stupefacenti, prostituzione, prodotti contraffatti o sottocosto, «sono tutti mercati in crescita che alimentano una mafia del capitale». Al pari dei «molti imprenditori del Nord» che ogni giorno richiedono «i servizi delle mafie»: smaltimento rifiuti, false fatturazioni, manodopera sottocosto, recupero crediti, «aggiudicazione degli appalti pubblici, soldi freschi per prestiti facilitati»… Per contrastare la criminalità organizzata bisogna innanzitutto scalfire la “mentalità mafiosa” partendo da «ciascuno di noi, senza delegare gli altri, senza aspettare che arrivino leggi migliori». Perché di certo «non diventeremo onesti per decreto legge».

Il libro di Elia Minari, al pari delle inchieste da lui portate avanti con l’ausilio della “squadra” dell’associazione Cortocircuito da lui stesso fondata, è «una beffa per chi ritiene che ciò che può fare ogni singolo cittadino non conti nulla e per chi si adagia in una comoda rassegnazione», come evidenzia Marco Imperato, magistrato, curatore della postfazione a Guardare la mafia negli occhi. Parole forti, potenti e necessarie perché, per quanto sia lodevole, l’operato di Minari non deve essere descritto come “eroico”. Elia Minari non deve diventare un “eroe” non perché non lo meriti, semplicemente il suo esempio deve essere un monito per altre coscienze, un input per il cambiamento civico di ognuno, e non un mezzo per lavarsi la coscienza pensando che tanto ci sono altri designati a cambiare e migliorare la società.

Ciò naturalmente non significa che non debba essere riconosciuta la scelta coraggiosa di Elia Minari e dei suoi colleghi di Cortocircuito. Tutt’altro. Diviene sempre più necessario e importante fare fronte comune contro «le campagne mediatiche che assicurano visibilità ai mafiosi» e, al contempo, ostacolare «la macchina del fango che è pronta a colpire chi denuncia la criminalità organizzata del Nord-Italia» e non solo, purtroppo. Le persone, i cittadini preferiscono fingere di non vedere ciò che accade intorno a loro, anche perché «non sempre si tratta di comportamenti sanzionabili dal punto di vista penale. Per questo motivo sono atteggiamenti ancora più insidiosi», tuttavia non si può davvero credere che la mafia al Nord, come al Centro, non esiste solo perché non si incontrano per strada soggetti che imbracciano la lupara o indossano un gessato. Questo neanche al Sud lo vedi più ormai. Rimanere ancorati a vecchi stereotipi e luoghi comuni è semplicemente un modo per giustificare il diniego del radicamento, palese e conclamato, della criminalità organizzata in tutto il territorio nazionale e anche oltre.

 

Elia Minari negli anni ha accumulato conoscenza ed esperienza eppure il suo approccio al problema che cerca di analizzare e contrastare è rimasto genuino, semplice, come il modo stesso di raccontarlo. Una chiarezza e una semplicità che è propria di chi dice, unicamente, la verità. Se un “semplice” liceale spulciando su internet, in cerca di informazioni per scrivere il suo articolo per il giornalino della scuola, trova dati e nomi che legano imprenditori locali e malavita, da documenti pubblici accessibili online su siti di istituzioni e Prefettura, viene da chiedersi come mai a nessun “professionista” del settore, locale e non, sia mai venuto in mente di farlo. O peggio, se lo ha fatto perché poi quelle informazioni non sono state diffuse.

Notizie che andrebbero diffuse e che invece passano in sordina. «Quasi nessun telegiornale nazionale ne parla» del «maxi-processo» che si sta svolgendo dal 2016 «nell’aula bunker al centro della Pianura Padana», costruita apposta «nel vasto cortile del tribunale di Reggio Emilia».

Convocare i giornalisti, per parlare a un tavolo con i microfoni accesi, «non è più un’esclusiva di politici e vip: anche i mafiosi scalpitano per avere il proprio spazio mediatico». Chi sono i giornalisti che rispondono al loro appello? Perché lo fanno? Perché scelgono di riportare “fedelmente” la loro versione dei fatti? Diventiamo così «vittime inconsapevoli di un depistaggio culturale», frutto della “campagna mediatica” dei clan. Secondo i magistrati, in alcune aree del Nord Italia, c’è stato un «condizionamento dei cittadini e delle loro menti». Parole che pesano, «parole di piombo».

Se il sindaco di Brescello, il paesino noto per i film di Don Camillo e Peppone, afferma pubblicamente che «i cittadini devono avere la possibilità di leggere al bar la Gazzetta dello Sport senza essere disturbati da un giornalista che fa domande sulla mafie» è evidente che il condizionamento mediatico non avviene solo da parte dei mafiosi dichiarati e se i cittadini appoggiano le sue dichiarazioni diventa palese il grande problema civico e sociale cui non si può assolutamente assistere inermi. Tutto ciò è quantomeno sbalorditivo. Come se il vero diritto per i cittadini fosse leggere le notizie sportive e non vivere nella legalità.

Elia Minari in Guardare la mafia negli occhi riporta una interessante descrizione di fatti, dati e testimonianze della situazione reale di vaste aree indicate come lontane ed estranee alla realtà malavitosa del Sud Italia ma che poi tali non sono. Un resoconto altrettanto interessante delle scelte e dei progetti portati avanti da politici e amministratori locali diventati in seguito “nazionali”. Chiamati quindi a governare l’intero Paese dopo aver compiuto determinate scelte in ambito locale.

Quando preti, amministratori locali e cittadini lamentano il “calo d’immagine” del territorio e il “danno al turismo” come conseguenza delle inchieste, delle denunce e dei processi contro il malaffare comprovato allora davvero non si può negare la presenza mafiosa ma neanche l’esistenza di una propaganda mediatica e sociale che ha come «obiettivo principale screditare gli organi dello Stato», in secondo luogo «creare le condizioni per un atteggiamento più morbido nei confronti di questi “giovani imprenditori edili”» che amano definirsi «vittime delle leggi».

Invita il resoconto di Elia Minari alla riflessione sulla provincia italiana, quella distante dai grandi agglomerati urbani, dove non si trova nulla di ciò che c’è nelle grandi città compreso un presidio delle forze dell’ordine. Ed è proprio qui, nella “tranquilla” provincia che la mafia insinua il suo potere tentacolare presentandosi come “degno” sostituto di uno Stato quantomeno distante quando non proprio assente. Molto educativa anche la storia del nonno di Elia, Lino Minari. L’unica vera “favola” che meriterebbe di essere raccontata a bambini e bambine, ragazzi e ragazze, uomini e donne… di qualunque età. Per contrastare la criminalità mafiosa «non è necessaria la scorta, è sufficiente essere cittadini» e maturare un grande senso civico e civile.

Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa della Rizzoli e l’Associazione Cortocircuito per l’interesse, il materiale e la disponibilità

Disclosure: Fonte tema libro, biografia autore, info sul testo www.rizzoli.eu

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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