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Irma Loredana Galgano

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Paolo Jedlowski, Romano Màdera, Racconti di racconti. Una conversazione

25 venerdì Ott 2024

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Mimesis, PaoloJedlowski, Raccontidiracconti, recensione, RomanoMàdera, saggio

Con il termine metadimensione si intende che alcuni testi letterari problematizzano la relazione tra il processo narrativo e la sua autoriflessione interna o la sua interpretazione dialogica esterna. Attraverso l’esame di queste relazioni, si coglie l’ampiezza delle loro modificazioni delle modalità formali, dell’enfasi discorsiva, delle finalità semantiche e dei giochi intertestuali. L’uso del prefisso meta davanti a narrazione dipende dal presupposto che, in alcuni dei suoi discorsi, la letteratura ha sviluppato dei modi operativi per interrogare se stessa e di trattare la propria infinita semiosi, vale a dire il procedimento di costruzione del significato.1

Attraverso una serie di riflessioni e di esempi pratici, Jedlowski e Màdera esplorano le molteplici funzioni e implicazioni della metanarrazione nel tessuto stesso dell’esistenza umana. 

Se una meta-teoria è una teoria di teorie, i meta-racconti sono racconti di racconti. Se si accetta l’idea che un racconto sia un tipo di testo in cui qualcuno dice che è successo qualcosa, la metanarrativa è un insieme di testi in cui si dice che quello che è successo è un racconto.2 La forma base della metanarrativa è rappresentata dai casi in cui un racconto ne include un altro, incastonandolo. Le incastonature rendono il racconto incorniciante una sorta di contesto dell’altro. Il che riqualifica il senso che questo avrebbe senza l’incastonatura. A volte lo modifica proprio. Ma l’incastonatura da sola non basta a dire il significato della metanarrativa che è una narrativa che riflette su sé stessa, espone cioè la natura stessa del narrare e porta alla presa d’atto della natura situata, artificiale, di ogni racconto.3

Un esempio esplicito è la scrittura di Italo Svevo, nella fattispecie la pagina firmata dall’analista di Zeno che incastona il racconto di quest’ultimo in La coscienza di Zeno: invece che una neutra esposizione dei fatti, questo diventa la ricostruzione che il soggetto stesso ne fa. La coscienza di Zeno include due racconti: quello dell’analista e quello di Zeno. Ma il primo, incastonando il secondo, dà all’insieme un senso particolare: il libro dice questa è la storia che Zeno si racconta e non questa è la storia di Zeno.

È lo stesso effetto prodotto dal quadro Questa non è una pipa di Magritte, dove al disegno di una pipa è affiancato il disegno di una scritta che dice questa non è una pipa: infatti è un disegno. 

Ne La coscienza di Zeno la psicoanalisi diventa materiale per una finzione e ogni lettura freudiana non potrà che inserirsi nell’organismo, nelle fibre stesse di quella finzione. A Svevo la psicoanalisi è servita come implicita motivazione realistica, come alibi realistico o salvacondotto per manipolare la tecnica narrativa e per infrangere liberamente le “tradizioni”: a volte semplice spunto o pretesto, a volte diretta ispiratrice. Quanto della teoria Svevo conoscesse di prima mano perde importanza di fronte alla sua capacità di sceneggiatore, all’astuzia con cui riesce a ignorare o a dimenticare la psicoanalisi per rifonderla nel suo romanzo.4

La schisi tra eroe e narratore che abita l’io enunciante, contribuisce alla sfasatura tra l’ordine degli avvenimenti nella storia e quello del discorso narrativo, così come all’alternarsi delle variazioni di velocità, alla moltiplicazione dei punti di narrazione e all’instabilità dei riferimenti cronologici enunciati nello svolgimento del dettato. A loro volta, questi attentati alla salute del tempo partecipano alla costruzione del personaggio attraverso le formazioni dell’inconscio praticabili dal critico (sogni, somatizzazioni, lapsus) che confermano l’immagine di uno Svevo al lavoro con i mezzi che il suo progetto e la sua cultura gli mettevano fra le mani. Ne risulta, costante, un’impossibilità per l’io di domare i suoi enunciati, di farli coincidere con la sua volontà. A livello dell’enunciazione, essi si smarriscono in un’indecidibilità che mescola i colori della verità e della menzogna.5 Il fondo del romanzo è bucato e il vuoto si riproduce continuamente. Appena cerchiamo di inchiodare la confessione di Zeno a una verità ci accorgiamo dei sacrifici e delle riduzioni che sono stati necessari per ottenerla e che la mandano in frantumi. La trappola è tesa al lettore ma anche alla psicoanalisi, se appena tenta di costruirsi un mezzo per selezionare le menzogne e metterle in disparte: o per riprenderle, rielaborarle, piegarle a un canone di verità che può essere fissato solo fuori dal testo.6

La metanarrativa produce una sorta di moltiplicazione del piacere del racconto. I racconti, di norma, sono discorsi che ci avvincono e la  metanarrativa ci fa, per così dire, assistere a questo «avvincimento», ci fa separare dal testo e insieme ci fa restare nei suoi pressi, ci fa restare presso il piacere che proviamo. Questo godimento implica infatti la presa d’atto che un racconto è artificio. Rispetto alla realtà a cui dice di rifarsi è un’approssimazione. Vi è inoltre una tensione necessaria fra racconto e mondo extra-testuale. Si potrebbe dire che la vita trascende il testo (è più grande di lui e lo comprende), e contemporaneamente il testo trascende la vita (perché la inserisce in un mondo di segni che permettono di andare oltre alla vita che si dà, la portano a coscienza).7

Il mondo narrato è una realtà finzionale. Anche quando raccontiamo di qualcosa che è avvenuto a noi stessi è comunque nell’immaginazione che ci collochiamo. Ciò che abbiamo fatto non è presente ora, mentre stiamo narrando. I mondi narrati – tutti, non solo quelli fantastici – sono sempre eterocosmi, cioè cosmi che non coincidono con quello attuale. Questi mondi sono il risultato di operazioni di “mimesi”. Ogni narratore ha qualcosa di un mimo: evoca o mette in scena, grazie ai segni che ha a disposizione, azioni luoghi persone. Si trasforma, o trasforma le cose: mima una realtà che altrimenti non c’è. E il destinatario risponde con almeno l’accenno di una mimica analoga. Nessun racconto, neanche il più realistico cui possiamo pensare, è esattamente una copia: come una statua, un quadro o qualunque altro tipo di rappresentazione, è un oggetto a sé stante, differente da ciò a cui rimanda. Emerge dalla vita e la arricchisce di qualcosa che prima non c’era. I racconti costituiscono un di più della vita. Sono dispositivi transizionali: ci permettono di transitare fra il mondo empirico nel quale stiamo attualmente e uno o più altri mondi possibili.8

Arrivare alla consapevolezza metanarrativa è il movimento di trascendimento interno dello stesso materiale autobiografico e analitico. Liberarsi del primo livello dell’autobiografia ingenua significa tentare-riuscire a diventare oggetto (trasformabile) di sé stessi e quindi il potersi guardare con sguardo più complesso e consapevole. Insomma fuori dall’autoreferenzialità. 

La metanarrazione esiste da quando esiste il racconto, ma ultimamente è particolarmente in voga, sembra simbiotica con il pensiero o quanto meno con l’estetica del postmoderno. Per il postmodernismo la realtà si scompone in prospettive plurali e incomponibili. A svanire sembra non soltanto l’ordine della realtà, ma la realtà in sé stessa: ai postmodernisti pare che sia ormai impossibile distinguere fra realtà e simulazione. Quanto meno, pare di vivere in un mondo in cui la realtà è costantemente oggetto di processi comunicativi così pervasivi che diventa evidente che nulla può essere identificato in sé ma solo attraverso i modi e le forme in cui è comunicato. Per il pensiero postmoderno il mondo è oggetto di infinite interpretazioni tutte ugualmente plausibili. Qui si nasconde l’equivoco più grosso in cui a volte incorre il postmodernismo: le storie e le interpretazioni non hanno infatti tutte lo stesso valore.9

Ogni testo pone certi limiti alle interpretazioni possibili, nella misura in cui contiene certi elementi e non altri.10 Lo stesso vale per il mondo sociale e materiale: si può interpretarlo e raccontarlo in molti modi, e questi modi corrisponderanno a diversi punti di vista, ma non si può reinventarlo a piacimento. Pensiero questo che lascia intravedere un’idea di realtà piuttosto angusta, o comunque tarata su culture che poggiavano su un senso comune molto forte e ritenuto superiore alle altre culture. Atteggiamento culturale necessario come collante del gruppo in epoche nelle quali lo stare insieme condividendo una cultura che detta i comportamenti era indispensabile perché le tecniche disponibili poggiavano sulla loro incorporazione in soggetti umani (memoria, abilità, iniziazione).11 La storia della modernità ha travolto questi mondi, la coscienza antropologia e in specie l’antropologia del rimorso hanno reso inaccettabile questo modo di sentire, pensare, essere. La realtà è già sempre, per noi moderni, molto più che per le epoche precedenti, interpretata o possibile di diverse interpretazioni interne ed esterne alla cultura di appartenenza. 

A partire dall’XVIII secolo si affermano nel pensiero occidentale quelle che nel corso del Novecento saranno definite “grandi narrazioni”. Illuminismo, idealismo, marxismo, positivismo sono cornici teoriche che, pur nella loro diversità, condividono alcuni tratti peculiari: l’ottimismo verso il futuro, la convinzione che la storia proceda in modo lineare e per progressivi miglioramenti in ambito culturale sociale scientifico, l’idea che esista per la società uno scopo a cui tendere. Un colpo netto e generalizzato alle narrazioni e auto-rappresentazioni che il pensiero occidentale ha elaborato nel corso dei secolo viene inferto da Nietzsche. Suo scopo è scardinare l’interpretazione razionalista attraverso cui l’uomo europeo ha rappresentato sé stesso.12 I sistemi filosofici della modernità, così come le ideologie novecentesche, hanno avuto sia l’obiettivo di spiegare il mondo sia di legittimare un certo modo di interpretare la realtà. Di fronte alla sempre maggiore complessità sociale, allo sgretolamento dei legami comunitari, i grandi sistemi e le grandi narrazioni non funzionano più, si sono dimostrati incapaci di dare un senso alla realtà. La modernità, ossessionata dall’unità, ha lasciato il posto al pluralismo radicale della postmodernità.13

Comprendere la trasformazione della letteratura verificatisi specialmente negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, richiede che si tenga conto della metadimensionalità dei testi letterari. La metanarrazione è una problematizzazione polivalente della prospettiva critica riflessiva analitica e ludica di ciò che viene narrato, riflesso su sé stesso.14 In Mercier e Camier l’autore gioca con il narrativo inserendo dei riassunti che seguono ciascun capitolo, riaffermandone la narrazione. Problematizzando la relazione riflessiva tra il discorso affermativo della narrazione di ogni capitolo e la sua parafrasi quasi tautologica condotta nei riassunti, l’autore crea una distanza ironica. Così, Beckett sembra porre il problema di come scrivere sulla scrittura allo scopo di comprendere che cosa significhi il procedimento narrativo.15 Il gioco beckettiano del riassunto tautologico dell’identico concentra l’attenzione del lettore sulla possibilità di sostituire la narrazione con il sommario oppure impone alla narrazione stessa una trasformazione deliberatamente riduttiva. Il commento indirizzato in senso tautologico è la dimostrazione beckettiana dello stallo del discorso letterario. La metanarrazione rappresenta in tal caso uno strumento di autosvelamento della finzione.16

La metanarrativa, come la meta-interpretazione, può apparire a volte l’invito a qualcosa di infinito. Si può raccontare il racconto del racconto, poi interpretare l’interpretazione precedente. Il problema, con il meta, è quando smettere. Quando arrestare cioè la successione di interpretazioni, quando arrestarsi e dire: questo è il racconto.17

Il libro

Paolo Jedlowski, Romano Màdera, Racconti di racconti. Una conversazione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024.


1W. Krysinski, Borges, Calvino, Eco: filosofie della Metanarrazione, in Signótica, vol. 17, n°1, 2005.

2P. Jedlowski, Storie comuni, Mesogea, Messina, 2022.

3P. Jedlowski, Meta-narrare, in Racconti di racconti.

4M. Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Einaudi, Torino, 1975.

5A. Russo, Il fondo bucato. Le ambiguità del paratesto ne «La coscienza di Zeno», in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del Congresso dell’Adi – Associazione degli Italianisti , Adi Editore, Roma, 2014.

6M. Lavagetto, op.cit.

7P. Jedlowski, Meta-narrare, in Racconti di racconti.

8P. Jedlowski, Il piacere del racconto, in Imparare dalla lettura, S. Giusti e F. Batini (a cura di), Loescher Editore, Torino, 2013.

9P. Jedlowski, Intorno alla realtà (senza strafare), in Racconti di racconti.

10U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990.

11R. Màdera, Intorno alla realtà (senza strafare), in Racconti di racconti.

12F. Nietzsche, La nascita della tragedia, 1872.

13B. Collina, La crisi della filosofia come narrazione e autorappresentazione, Zanichelli, 2020.

14W. Krysinski, op.cit.

15S. Beckett, Mercier e Camier, 1970.

16W. Krysinski, op.cit.

17P. Jedlowski, Dentro e fuori dal testo, in Racconti di racconti.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Mimesis Edizioni per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Paolo Jedlowski, Massimo Cerulo, Spaesati. Partire, tornare tra Nord e Sud Italia

23 giovedì Nov 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IlMulino, MassimoCerulo, PaoloJedlowski, recensione, saggio, Spaesati

Cosa significa lasciare il luogo in cui siamo cresciuti? Chi diventiamo? Com’è spostarsi e vivere regolarmente fra più luoghi, paesi, persone? Esistono identità senza dimora?

Partendo da questi interrogativi e dalle proprie esperienze gli autori compiono un viaggio all’interno dei loro spostamenti continui attraverso l’Italia, che li hanno condotti dal luogo di nascita a quello di lavoro, e viceversa, per anni, decenni. Esperienze che hanno maturato in loro certezze diverse da quelle che avevano originariamente. Servite ad abbattere stereotipi e formare coscienze. A livellare aspetti del nostro paese solo in apparenza diversi e, in un certo qual modo, ad unire le differenti zone. Protagoniste dell’annosa e farraginosa contrapposizione tra Nord e Sud Italia.

Ma il libro di Jedlowski e Cerulo non parla, se non marginalmente, della questione meridionale. È un libro sul viaggiare. Sulle vite mobili di coloro che si spostano frequentemente per lavoro, affetti, famiglia. Non pendolari quotidiani ma viaggiatori regolari. Un libro che parla dell’attaccamento alla propria terra, qualunque essa sia, e al malessere dell’allontanamento. 

Lévi-Strauss ha più volte dimostrato l’importanza “vitale” per un gruppo etnico del proprio spazio culturalmente concepito e interiorizzato, del proprio landscape, punto di orientamento e piano capace di sostenere il sapere, le relazioni e la memoria storica di una comunità.1

Il legame comunità-villaggio è rapporto esistenziale, il quale mette in gioco fattori emotivi e affettivi: lo sradicamento da esso comporta un malessere, un “male del ritorno”, un’assenza di luogo che De Martino indica come “angoscia territoriale”.2

Il “male del ritorno” colpisce gli individui costretti a lasciare il proprio luogo di nascita, il proprio spazio del vissuto facendo così l’esperienza di una presenza che non si mantiene davanti al mondo, davanti alla storia.3

Il nucleo fondante della riflessione demartiniana è rappresentato dal concetto di “crisi della presenza”, vale a dire quel rischio di dissoluzione dell’equilibrio esistenziale a cui si è legati e che, culturalmente, può trovare un orizzonte di risoluzione in un insieme di tecniche volte a riscattare l’uomo dalla crisi, per riaffermare il proprio “esserci al mondo”.4

La “crisi” che hanno affrontato Jedlowski e Cerulo non è solo e non è tanto personale quanto generale, connessa con il periodo storico, iniziato nella seconda metà del Novecento e che ancora continua, che ha prodotto questi lavoratori in viaggio continuo, soprattutto ma non solo professori e ricercatori universitari, in perenne spostamento fra i vari atenei, nelle diverse città, nelle differenti zone del Paese. Anche oltre confine. 

Il legame con il luogo natio non cessa ma l’incontro con il nuovo spesso diventa occasione di “rinascita”, se non altro scoperta di un altro modo di essere. E allora il ritorno può avere un impatto ancor più forte, dal punto di vista emotivo. Perché si è diventati altro rispetto a prima. E si guarda al proprio mondo con occhi diversi, nuovi. Come accaduto per Cerulo. 

Uno dei motivi più ricorrenti che spinge le persone a spostarsi è il desiderio di migliorare la propria posizione lavorativa, in modo da avere l’opportunità di costruirsi un futuro migliore. Alla base degli spostamenti degli autori vi è anche questo. Studio e lavoro sono stati i principali propulsori. Il futuro l’obiettivo.

Il futuro oggi assume nuova dimensione e diverse forme. Suscita molte paure ma, visto che l’uomo, come creatura simbolica, non può vivere senza una certa coscienza degli altri e dell’avvenire, suscita anche attese ricorrenti, speranze e utopie. Se è vero che sempre meno abbiamo a disposizione proiezioni socio-politiche di ampio respiro cui riferirci, probabilmente proprio per questo l’assenza di rappresentazioni del futuro precostituite ci offre un’effettiva possibilità di concepire dei cambiamenti alimentati dall’esperienza storica concreta. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a convertirci a una sorta di esistenzialismo politico e pratico.5

E così che Jedlowski, vincendo tutti i tentennamenti magari anche un po’ viziati dal pregiudizio, decide di lasciare il suo Nord e raggiungere l’estremo Sud, accettare un lavoro all’Università della Calabria e scoprire di essere riuscito a dare di più ai suoi figli, in termini di qualità della vita, rispetto alla scelta opposta che lo avrebbe visto rimanere a Milano. Non che non ci siano problemi o difficoltà ma vedere i suoi figli giocare liberi nell’orto botanico dell’Università con entrambi i genitori a pochi metri di distanza, sempre tutti insieme è per certo qualcosa che li ha aiutati ad avere un’infanzia serena. 

L’ambiente in cui si vive costantemente sottopone le persone all’influenza di diversi stimoli e sensazioni, in grado di produrre effetti differenti sul modo di agire e, di riflesso, sul modo di essere. Dal momento che noi siamo esseri incarnati e che il nostro abitare il mondo è innanzitutto un abitare il corpo, è fondamentale reimparare a esserci con il corpo. Attraverso l’attività sensoriale che lo tiene intimamente intrecciato al mondo, il corpo vivente è fonte della forza vitale dalla quale la vita cognitiva trae il suo nutrimento. Quando la vita fluisce attraverso il corpo sta in una relazione eco-sistemica equilibrata con l’ambiente circostante, si traduce in un arricchimento della vita della mente.6

A coloro i quali gli chiedevano come fosse vivere al Sud, Jedlowski ha sempre risposto con una precisazione: dove intendi esattamente? Il Sud non è un marasma indistinto, ma un collage di realtà, luoghi, tradizioni, culture. Ambienti che regalano gioia o dissapori in chi li vede, anche per il modo stesso in cui vengono osservati e percepiti. 

Cerulo sottolinea come, vivendo al Nord, si costruisce una identità sociale e professionale che rischia di essere confusa o addirittura venire meno quando si ritorna al Sud. Qui, infatti, si riscoprono i ruoli di figlio, fratello, nipote. Ci si ritrova esposti al rischio di una disgregazione delle altre identità costruite viaggiando e vivendo in altri luoghi. 

Sia la pratica del restare sia la riflessione su quelli che restano potrebbero apparire l’antitesi del viaggiare, del mettersi in discussione, della disponibilità alla scoperta, all’incontro. È davvero possibile separare l’esperienza del viaggiare da quella del restare e davvero il restare significa arroccarsi in un fortino chiuso o esiste anche una maniera spaesante di restare?

L’emigrazione è da sempre una strategia evolutiva fondamentale, sia sotto il profilo biologico che culturale. Non bisogna però pensare all’uomo migrante sempre consapevole del luogo in cui sta andando e di quello che accadrà.

Con l’emigrazione, gli abitanti del paese uno e quelli del paese due diventano altri altri rispetto a prima. Il paese due si trasforma in luogo reale e mitico a cui sono rivolti sogni, desideri, speranze, paure, pensieri di coloro che non sono partiti. La nostalgia assume contorni rigenerativi. Gli emigrati che sembrano guardare al passato, in realtà creano un nuovo mondo. A partire non sono soltanto gli emigrati, ma anche quelli che restano. Non si resta, non si parte e non si torna mai del tutto. Proprio la lontananza e l’erranza di chi è rimasto possono favorire oggi un nuovo modo, critico, problematico, di intendere la relazione tra sé e il mondo. Per mille ragioni anche il restare – di chi ha viaggiato o di chi torna – condivide la fatica, la tensione, la nostalgia dell’errare.7

La particolarità del libro di Jedlowski e Cerulo non risiede tanto nel fatto che si tratta di un’indagine, una ricerca che indaga i territori, gli spostamenti, le implicazioni locali e nazionali attraverso il racconto del proprio vissuto. Quanto nel modo in cui essi affrontano l’indagine stessa e la sua narrazione. A una lettura poco attenta potrebbe sembrare un libro “semplice” o un “semplice” libro che racconta due storie. In realtà, in Spaesati non vi è nulla di così semplice. Si tratta di un libro che nasconde un mondo di conoscenze e di esperienze che aspettano solo di essere svelate, di essere lette. 

Il libro

Paolo Jedlowski, Massimo Cerulo, Spaesati. Partire, tornare tra Nord e Sud Italia, Il Mulino, Bologna, 2023


1Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano, 2015. 

2Gianluca Ceccarini, Antropologia del paesaggio: il landscape come processo culturale, Diritti Mediazione e Psiche – Rivista di Scienze Sociali, n° 9 anno 2014.

3Ernesto De Martino, Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito Achilpa delle origini, Dedalo Libri, Bari, 1951.

4Alessandro D’Amato, La domesticità demartiniana. Un caso di “resistenza” culturale, Dialoghi Mediterranei – Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, 1 maggio 2019.

5Marc Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.

6M. Antonietti, F. Bertolino, M. Guerra, M. Schennetti (a cura di), Educazione e natura. Fondamenti, prospettive, possibilità, Franco Angeli, Milano, 2022.

7Vito Teti, La restanza, Scienze del Territorio, n° 7, Firenze University Press, 2019.

Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni del Mulino per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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