• Bio
  • Contatti
  • Curriculum

Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

Archivi tag: romanzo

Teodoro Lorenzo, Rimpalli

24 venerdì Ott 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

recensione, Rimpalli, romanzo, TeodoroLorenzo, VoglinoEditrice


Fin dall’infanzia la passione di Teodoro Lorenzo è stato il pallone che egli bambino rincorreva nel cortile di casa. Passione che poi si è trasformata in amore per il gioco del calcio. Un amore che per un breve periodo è diventata anche una professione. Il suo ritiro dal mondo del calcio risale al 1988 ma egli sembra non aver mai tradito la sua grande passione né accantonato il suo amore. Per il pallone, per il calcio e per tutto ciò che sta intorno. Anche se nel libro afferma il contrario, dichiarandosi innamorato del “giocare al pallone” e non del “gioco del calcio”.

Come sottolineava il sociologo tedesco Kurt Weiss, nella percezione del tempo dei tifosi il presente ha un ruolo marginale1. Il legame identitario che anima una comunità di tifosi li porta infatti a privilegiare il passato, esaltando le gesta che sono parte della memoria collettiva della fandom2.

Anche l’autore sembra mantenere questo mood laddove ricorda, per quasi l’intero libro, i tempi andati. 

Il libro si apre al lettore con un adagio che è la sintesi perfetta dell’intero libro: Nel corso del tempo i paesaggi cambiano; di quel che era restano soltanto cartoline ricordo. Esattamente ciò che risulta essere il libro di Teodoro Lorenzo al letto: una cartolina del tempo andato.

La struttura del libro è un po’ particolare. L’autore imposta i capitoli come fossero pagine del suo diario, iniziando sempre con indicazioni spazio-temporali e descrizioni che introducono l’argomento. Di quello che dovrebbe essere l’argomento. Perché, durante la narrazione, egli si lascia spesso andare a divagazioni che toccano le più svariate argomentazioni e che lasciano, in alcuni momenti, il lettore sconcertato, incerto sulla reale e ben comprensione dello scritto. Del contenuto come anche del messaggio che l’autore voleva comunicare. A tratti, le divagazioni presenti nel testo sembrano più delle arringhe da tribunale che narrazioni di parti biografiche.

In alcuni tra i più recenti scritti di Gianni Celati (Avventure in Africa, Cinema naturale, Fata morgana), la scrittura seguiva in modo singolare e autonomo il carattere, la fisionomia dello spazio rappresentato, e si faceva pertanto il più possibile senza ondulazioni. Ed era su quella piattezza che prendevano corpo quelle apparenze disperse negli spazi vuoti che il narratore cercava di ricucire: apparenze che cambiano a ogni apertura d’occhi, disorientamenti infiniti che richiedono sempre nuovi racconti, sospesi tra il fascino di un meraviglioso quotidiano da riscoprire tramite dettagli a prima vista insignificanti e terra desolata ostile e inappartenente come un pianeta lontano3. Teodoro Lorenzo sembra inseguire lo stesso ideale di scrittura. 

Nel corso dei secoli la letteratura che ha ruotato intorno al tema dello sport e che a esso si è ispirata o come fonte di poesia o per ricavarne indicazioni morali si è trasformata, non sempre seguendo modelli uniformi. Essa ha piuttosto seguito i cambiamenti che hanno coinvolto non solo le varie attività atletiche ma anche i sistemi e i modi della comunicazione, secondando le mode e le culture delle epoche e delle civiltà diverse. Nella tradizione italiana, una testimonianza esemplare agli inizi dell’Ottocento ha impegnato uno dei giganti della nostra poesia: Giacomo Leopardi. Sul rapporto tra vigore del corpo e forza dell’animo lo Zibaldone è ricco di annotazioni. Nel mondo antico c’era una corrispondenza diretta tra possanza corporea e possanza spirituale, immaginativa, eroica, la quale è stata via via cancellata col progresso della ragione e con l’indebolimento dei corpi, disabituati a coltivare il vigore e l’agonismo4.

L’autore compie un’accurata critica del gioco del calcio oggi che, a suo dire, è diventato un altro sport. Una sorta di rugby giocato con i piedi. Manifesta apertamente la sua ostilità verso l’idea che il calcio sia un gioco collettivo a discapito del talento individuale. Per vincere, nella sua ottica, una squadra ha bisogno di giocatori forti, necessita di campioni. Non è il collettivo o la tattica a far vincere le partite: sono i giocatori. 

Nella fisicità naturale del corpo umano i piedi, destinati all’equilibrio e al movimento, sono governati da una quantità di neuroni minore a quella degli apparati prensili e dell’articolazione. Ciò ha un’importante conseguenza: è difficile riuscire a padroneggiare un oggetto con un organo così sfavorito. Eppure è proprio la capacità di utilizzare i piedi per costruire la trama ripetuta delle azioni di gioco che viene esibita, con maggiore o minore destrezza, ogni volta che due squadre di calciatori si affrontano su un campo di calcio, sia esso un grande stadio che raccoglie migliaia di spettatori o un anonimo campetto di periferia. Il calcio non è un gioco naturale, ma, al contrario, un gioco tecnico difficile ed è proprio questa caratteristica che gli conferisce il fascino dell’imprevedibilità, spesso accompagnata dalla bellezza estetica con cui si manifesta. 

Nonostante le variazioni locali e nazionali, gli antecedenti popolari del calcio moderno – sia in Francia sia in Inghilterra (soule e hurling over country) – avevano in comune almeno una caratteristica: erano tutte lotte fatte per gioco, ma con una tolleranza consuetudinaria per il livello di violenza fisica notevolmente superiore a quella consentita di norma nel calcio moderno. 

In Italia, qualche secolo più tardi, il gioco del calcio raggiunge il suo momento di massimo fulgore a Firenze, sotto la signoria dei Medici. Gli incontri di calcio fiorentino si disputavano soprattutto in occasione di matrimoni principeschi e visite illustri avendo per teatro la piazza di Santa Croce o Santa Maria Novella, quando non venivano giocati in un grande prato, posto subito fuori le mura della città. Inizialmente riservato esclusivamente ai nobili, in seguito vi prendevano parte i giovani di tutte le contrade cittadine ed era un’attività nella quale tutti si sentivano coinvolti. Non vi era una separazione chiaramente definita tra il ruolo dei giocatori e quello degli spettatori. Ciò si riscontra a partire dall’epoca rinascimentale. 

Se è storicamente vero che le regole del calcio sono nate nelle Public Schools inglesi, la diffusione di questo gioco come fenomeno sociale su scala internazionale ha seguito percorsi differenti a seconda delle nazioni in cui, nel corso del primo Novecento, esso ha messo profonde radici. Un processo che ha portato il calcio a divenire, in un arco di tempo abbastanza breve, the people’s game. Un gioco di tutti sia perché praticato, a livello professionistico e amatoriale, da giocatori di ogni classe sociale, sia perché il pubblico che assisteva alle partite era in genere socialmente molto composito. 

Il calcio, inteso come attività sportiva di tipo agonistico praticata da un gran numero di giovani e meno giovani, è un aspetto tutto sommato secondario del calcio moderno, che è essenzialmente “calcio spettacolo”, una forma composita di attività agonistica e intrattenimento ludico nella quale il pubblico non è formato esclusivamente da semplici spettatori che assistono a una competizione/rappresentazione. Oggi il pubblico è divenuto esso stesso parte integrante di un evento sportivo, che manifesta la propria presenza partecipata con esibizioni scenografiche di vario tipo5.

Per quanto concerne i giocatori, se è vero che nelle gerarchie sociali alcuni si collocano ai gradini più alti della scala di ricchezza e popolarità, il loro prestigio e il loro potere sociale restano nel complesso modesti. Essi appartengono a quella che Alberoni ha definito, parlando del divismo, “l’élite senza potere”6.

In alcuni passaggi del libro anche l’autore sembra sentirsi una “élite senza potere”, soprattutto laddove ritiene che alle sue idee e opinioni non venga dato il giusto risalto e critica, e narra degli immeritati, a suo dire, avanzamenti di carriera di altri giocatori o allenatori. E la sua sembra diventare a tutti gli affetti una “voce senza potere”. 

Sicuramente uno dei motivi che può averlo spinto a scrivere il libro è proprio la divulgazione del suo pensiero e delle sue personali opinioni. 

L’autore dedica il libro a: Comandante Mark, Pietro Anastasi, Primo levi e se stesso. 

Si tratta di una dedica quantomeno singolare, diretta a persone in vita e non, reali e no. 

Il Comandante Mark è un personaggio immaginario, protagonista dell’omonima serie a fumetti western ideata nel 1966 dal gruppo di autori noto come EsseGesse (Pietro Sartoris, Dario Guzzon e Giovanni Sinchetto). Rimasto orfano e cresciuto in un villaggio pellerossa, Mark aderirà alla causa dei patrioti americani contro le Giubbe Rosse e, intorno a lui, si crea un gruppo di coloni denominati i Lupi dell’Ontario. Le avventure raccontate sono tipiche delle produzioni western.

Il genere western è il frutto dell’immaginazione di scrittori pulp, illustratori, pittori, fumettisti, politici e intellettuali. Non corrisponde alla realtà storica. La fortuna del genere è dovuta anche alle contraddizioni e ambivalenze che si possono trovare al suo interno, le quali permettono al western di adattarsi alle esigenze dei vari momenti culturali senza venire mai meno a una certa coerenza a una certa coerenza stilistica – fatto che dimostra quanto il western sia un genere molto meno statico e formulaico di quanto certa critica abbia voluto riconoscere7.

Come per il genere western anche la narrazione intorno al gioco del calcio è lontana dalla realtà?

Se da un lato la trasformazione di un gioco popolare inglese polimorfo in Association Football o soccer ebbe il carattere di un lungo sviluppo in direzione di una maggiore regolazione e uniformità8, dall’altro il calcio, come fenomeno storico-sociale, si è intrecciato dicaronicamente in maniera dialettica con diversi e complessi aspetti; certamente con il processo di progressiva industrializzazione e di crescita economica, come pure la transizione demografica, con l’urbanizzazione e con la modernizzazione politica. 

L’agilità, la vigoria e le plastiche figure dei calciatori se richiamano, già nell’età giolittiana, l’attenzione di molti pittori – da Boccioni a Campigli a Montanari e, più tardi, Carrà sino a Guttuso e Schifano, tra gli altri – diventano pure argomento di racconti e narrazioni entusiastiche per il dinamismo del gioco e per quei gol talvolta inaspettati che gonfiano la rete. 

Dall’entusiasmo al fanatismo il passo fu breve per Marinetti e i suoi accoliti futuristi. Lo sport era per loro un credo, un mito, ne facevano anch’essi una Musa ispiratrice9. Certamente il dannunzianesimo e il futurismo rispondevano ideologicamente al disegno fascista di mutazione antropologica della gioventù italiana. 

L’interesse verso il gioco del calcio è proseguito anche nel secondo dopoguerra. Iperbole, alliterazioni, figure retoriche e metafore dal giornalismo sportivo trasmigrano nelle pagine della letteratura, ma anche nelle riflessioni filosofiche10 e psicoanalitiche11, configurando una riflessione culturale e un ampio dibattito non solo sul gioco ma anche sugli aspetti tecnici del calcio. Gli scrittori associano il gioco del calcio con un flash rivolto alle spalle: alla propria infanzia e alla propria adolescenza. 

Il tema calcistico si dipana in molti articoli di Pasolini per quotidiani e periodici. Con sicura consapevolezza, egli afferma: Non sono né Roland Barthes né Greimas, ma da dilettante, se volessi, potrei scrivere un saggio sulla ‘lingua del calcio’12. Dunque il calcio è, tra le diverse tipologie, una lingua, ossia un sistema di segni, così come sistemi di segni non verbali sono propri della pittura, del cinema e della moda. 

Una ragione per cui il calcio è considerato il “re” dei giochi potrebbe essere che, per praticarlo, lo si può fare con chiunque, in qualunque modo e ovunque. Si caratterizza, ieri come oggi, per il collettivo, la squadra, la cui organizzazione di gioco si può considerare un paradigma che aiuta a capire concretamente le implicazioni filosofiche a esso sottese. Se la squadra è la totalità, i giocatori sono le parti. 

Riprendendo la definizione di Stato di Hegel, Matassi sovrappone i due concetti: Lo Stato rispetto alle sue componenti è il primo principio perché la famiglia e la società civile (le parti) realizzano il proprio fine solo se si commisurano allo Stato (la totalità)13.

Il gioco del calcio che, in questo senso, assume, o dovrebbe assumere, una forte valenza formativa nei giovani: educarli al rispetto delle regole, alla socializzazione, all’amicizia, al senso di appartenenza e alla sensibilizzazione interculturale.

Ma questo sport va in questa direzione, o contravviene ai principi etico-formativi appena accennati?14

Il presente sembra carico di dubbi, interrogativi e di premesse in parte negative; i principi etici fanno e faranno sempre i conti con il sistema di interessi economici delle oligarchie finanziarie; le squadre di calcio costituiscono un volano pubblicitario strategico proprio per la loro importanza mediatica. Appartiene ormai al passato il mecenatismo calcistico, quando i soci ne facevano una questione di prestigio sociale, oggi tutti parlano di soldi. Ma non si tratta nemmeno più di soldi, bensì di qualcosa di virtuale, che somiglia alle vendita all’asta di Sotheby’s, l’impressione è che le cose non abbiano più prezzo. Siamo entrati nel mondo della magia15.

L’autore sembra giungere alle medesime conclusioni e alle stesse critiche, giudicando severamente il calcio e il sistema in generale da cui si discosta e dissocia affermando di preferire di gran lunga il “gioco del pallone” a quello del “calcio” proprio per la sua estraneità a giochi di potere e interesse. Rievoca la spensieratezza del praticare questo sport in gioventù e in libertà, in un tempo che fu e che fa diventare il libro intero una “cartolina ricordo” del suo personale paesaggio cambiato. 

Il libro

Teodoro Lorenzo, Rimpalli, Voglino Editrice, 2025.


1K. Weis, Tifosi di calcio nella Repubblica Federale Tedesca: violenze e provvedimenti, in A. Roversi (a cura di), Calcio e violenza in Europa, Inghilterra, Germania, Italia, Olanda, Belgio e Danimarca, Il Mulino, 1990.

2J. Bassi e E. Belloni, Più che un club. Tifoserie e identità storiche, in Diacronie. Studi di Storia contemporanea, n. 42, 2 | 2020.

3G. Almansi, Il letamaio di Babele, in Idem, La ragion comica, Feltrinelli, 1986.

4N. Soglia, Letteratura sportiva come genere? A un vincitore nel pallone, il rischio per vincere la noia, in Sinestesieonline – Supplemento della Rivista «Sinestesie», a. XI, n. 36, 2022.

5A. Cavalli, A. Roversi, Calcio: un fenomeno non solo sportivo, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002.

6F. Alberoni, L’élite senza potere, Vita e Pensiero, 1962.

7E. Bordin, L’invenzione del west(ern). Fortuna di un genere nella cultura del Novecento, in Iperstoria – Testi Letterature Linguaggi, 12 novembre 2012.

8N. Elias, La genesi dello sport come problema sociologico, in N. Elias Eric Dunning, Sport e aggressività, Il Mulino, 1989.

9S. Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion, 2017.

10Si vedano: B. Welte, Filosofia del calcio, Morcelliana, 2021; S. Critchley, A cosa pensiamo quando pensiamo al calcio, Einaudi, 2021; E. Matassi, La filosofia del calcio. In dialogo con Lucrezia Ercoli, Mimesis, 2023.

11U. Amato, La psicoanalisi del calcio. In dialogo con Sabrina Semprini, Tabula Fati, 2015.

12P.P. Pasolini, Il calcio «è» un linguaggio con i suoi poeti e prosatori, su Il Giorno, 3 gennaio 1971.

13E. Matassi, La filosofia del calcio. In dialogo con Lucrezia Ercoli, Mimesis, 2013.

14F. Bacchetti, Tra le pagine di scrittori e giornalisti-scrittori: una svolta stilistica, linguistica e interpretativa del calcio, in Studi sulla formazione, 26, 2023.

15V. Dimitrijević, La vita è un pallone rotondo, Adelphi, 2000.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Tiziano Fratus, Una foresta ricamata. Parole scucite tra selve e silenzi

06 lunedì Ott 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

Mimesis, poesia, recensione, romanzo, TizianoFratus, Unaforestaricamata

Arriva sempre un momento nella vita nel quale ci si sente quasi obbligati a fare i conti con ciò che è successo, con i desideri realizzati e quelli disattesi, con le emozioni provate e il dolore subito, le delusioni e le aspettative che ancora animano anche gli animi più provati. Un bilancio emotivo ed esistenziale che Fratus sembra aver messo per iscritto in Una foresta ricamata e voluto condividere con i suoi imponderabili lettori.

È proprio all’imponderabile lettore che l’autore si rivolge fin dal proemio della sua opera, un lettore, un soggetto, una persona che a tratti sembra essere o diventare la coscienza stessa di Fratus, emersa dagli abissi del suo essere per ricordargli del tempo passato e dell’uomo che è diventato.

Ricorda l’autore i tempo andati e si rivede fanciullo in giardino a scoprire il mondo che lo circonda e gli animali che lo popolano. Oppure su uno scoglio a scrutare l’orizzonte e l’infinito. Da quei momenti all’oggi, Fratus sente che è sfumata una vita. Non si dichiara apertamente deluso. Afferma di aver, nonostante tutto, realizzato i suoi sogni. Eppure traspare, dalle sue parole, una sorta di malinconia, afferente più alle perdite subite che agli obiettivi mancati. Vuoti, mancanze che l’autore sembra aver voluto sempre riempire con solitudine e silenzio. Il bosco con i suoi alberi e i suoi “rumori” hanno aiutato Fratus a non sentirsi solo o abbandonato. Parte di quella stessa natura che lo ha da sempre attratto e mai deluso. 

Descrivere svevianamente una vita, partendo dal limen della gioventù e possibilmente sbordando in un accrescimento non tanto materiale quanto psichico, tutto cucito di motivi interiori, ha in sé un’innegabile attrattiva1. E Tiziano Fratus sembra essersi lasciato attrarre dal racconto, in chiave quasi confessionale, del suo essere interiore oltre che della sua esistenza pubblica e privata. 

Stefano Agosti ha definito la scrittura di Flaubert una «poesia della prosa»2. Anche la scrittura di Fratus sembra una poesia della prosa che racconta la natura, nella doppia accezione: botanica e umana. Indaga l’autore il mondo che lo circonda. Esplora il territorio e l’ambiente. E, a ogni sentiero di bosco percorso, sembra ritrovare una parte di sé, del suo essere nascosto. 

La scrittura di Flaubert è servita, invece, a Lalla Romano per realizzare che «la prosa può essere altrettanto rigorosa della poesia, che prosa e poesia anzi sono la stessa cosa»3. Si ritrova, nella prosa di Fratus, quel legame interno tra le parole tipico della poesia. Parimenti, si ritrova nella sua poesia quell’attenzione alla descrizione più che al dettaglio tipica della prosa. 

L’autore sembra guardare anche al Futurismo, laddove ripudia la struttura classica della frase o del verso e lascia che le sue parole si abbarbichino intorno a una struttura centrale, portante e rassicurante come un albero, che assume svariate forme e dimensioni. Più che un avvicinarsi a i temi del Futurismo però, l’opera di Fratus sembra volerne ricalcare la ribellione. Fare propria la volontà di libertà e di liberazione. Dagli schemi certo ma, soprattutto, dal male, dal dolore, dall’inciviltà del viver “civile”. Con lo sguardo sempre rivolto alla Natura amica. Un cammino, quello percorso da Fratus nella vita e nella scrittura, che lo porta dal Futurismo a Naturalismo e Verismo, e viceversa. 

Seguendo le riflessioni di Hyppolite Taine, il narratore non viene più visto come un inventore ma un osservatore che analizza una tranche de vie sottolineando i rapporti di causa-effetto che determinano i rapporti umani. 

Nell’opera di Fratus i rapporti posti sotto la lente d’ingrandimento sono soprattutto quelli dell’uomo con la natura. E i rapporti di causa-effetto sono perlopiù le conseguenze dell’agire umano: «chiedo scusa al filo d’erba e chiedo scusa all’usignolo che batte le ali in gabbia e chiedo scusa al ruscello di cui ho deviato il corso e chiedo scusa al mare che ho inquinato».

Il rapporto uomo-natura è stato declinato in maniera diversa nelle differenti culture ma, nel corso del tempo vi è stata una progressiva accentuazione della visione antropocentrica. 

Per noi europei la condizione generica è sempre stata l’animalità: tutti sono animali, solo che alcuni (esseri, speci) sono più animali di altri. Noi umani siamo i meno animali di tutti. Nelle mitologie indigene, al contrario, sono tutti umani, solo che alcuni di questi umani lo sono meno di altri. Tutti gli animali hanno un’anima antropomorfa: il loro corpo, in realtà, è una specie di abbigliamento che nasconde una forma fondamentalmente umana (con un’anima)4.

Negli scritti di Fratus si ritrova, innata, questa filosofia. Egli sembra esserci arrivato mediante l’osservazione di ogni essere abitante il bosco, la cui esistenza ha incontrato quella dello stesso autore, cambiandola radicalmente. Gli occhi di Fratus sembrano diventare quelli di Pascoli, ed egli stesso veste i panni del fanciullino osservando il mondo che lo circonda con lo stupore e la naturalezza che solo l’essere in bilico tra infanzia e maturità può dare. 

Un equilibrio da cui l’autore sembra subito prendere le distanze, in uno slancio di ribellione che diventa volontà di diniego del passato e tensione verso il futuro.

«c’è questo mio silenzio e c’è il silenzio che abita i grandi alberi, e ci sono le vaste foreste, che sono grandi silenzi suddivisi e ordinati. e poi c’è la vastità dell’esistere, del pulsare, del nascere e del morire. E, alfine, c’è il pensiero, che non si adagia un attimo, che anche quando medito galoppa e invade e si incunea.»

Un pensiero, quello descritto da Fratus, che inneggia alla velocità, al dinamismo. In contrasto con il silenzio del bosco e della persona, statici, quasi fermi, passivi. Il pensiero in movimento si allinea di più con la vastità dell’esistere, del pulsare, del nascere e del morire. I versi di Fratus ricordano a tratti il manifesto futurista di Marinetti, lo scontro aperto con il latino, quel classico imbecille che ha testa, ventre, gambe e piedi piatti, ma non due ali per volare. Cerca, invece, Marinetti la velocità e il movimento5. Egli volveva chiudere i ponti con il passato, distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie. Fratus vuole chiudersi nel bosco. Il fruscio degli alberi e il cinguettio degli uccelli divengono allora l’elica turbinante di un aereo sopra Milano che ha ispirato il Manifesto tecnico della letteratura futurista, ed è questo nuovo “rumore” a ispirare Tiziano Fratus nella scrittura del suo personalissimo manifesto che egli immagina e descrive come un’opera d’arte, prima ancora che letteraria, e la suddivide in “quadri”. 

Anche Fratus, come Marinetti e i futuristi, abbandona e ripudia le vecchie regole grammaticali e di sintassi creandone di proprie, tessendo i suoi versi come un vero e proprio ricamo che parte da alberi e natura e si sviluppa intorno a essi. Una tela nutrita e curata dai sentimenti e dalle emozioni dello stesso autore. Dalla sua stessa esistenza che galoppa intorno al pensiero incessante di questo autore il quale, in questo modo, urla tutto il suo silenzio.

Il libro

Tiziano Fratus, Una foresta ricamata. Parole scucite tra selve e silenzi, Mimesis, 2025.


1A. Fraccacreta, Crescere sempre con il romanzo di formazione, su Maremosso. Il magazine dei lettori, 22 marzo 2023.

2S. Agosti, Tecniche della rappresentazione verbale in Flaubert, Milano, Il Saggiatore, 1981.

3L. Romano, Vi racconto una storia. Itinerari nella narrativa italiana contemporanea, in Scuola e Territorio, Rimini, 1985, p. 155.

4E. Viveiros De castro, Lo sguardo del giaguaro. Introduzione al prospettivismo amerindio, Milano, Meltemi, 2023.

5A. Cipolloni, Marinetti e il Futurismo: il Manifesto, in Maremosso. Il magazine dei lettori, 18 novembre 2022.


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Alessandro Conforti, La mula e gli altri. Faccende semiserie di provincia

26 venerdì Set 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

AlessandroConforti, IlRamoelaFogliaEdizioni, Lamulaeglialtri, recensione, romanzo

Sullo sfondo domestico di una provincia come tante si intrecciano le sorti di uomini e animali; li lega il filo attorcigliato del narrare, che nello scorrere ritorna, si smarrisce riprendendosi. Raccolta sì ma dispersa: dentro un oceano di libertà che diventa anche distanza incolmabile. Ed è proprio il racconto, imperfetta cucitura tra vicino e lontano, a farci credere ancora possibile comunicare noi.

Galline rivoltose, un investigatore da strapazzo e fiori di stramonio che fanno rinsavire. Una luna smozzicata da serpenti illumina il cielo di un pollaio e del mondo, ma sono la stessa cosa.

La base da cui Conforti sembra attingere a piene mani per le sue “storie semiserie” sono tutte le leggende popolari, narrazioni salvate dall’oblio per la maggiore grazie al racconto orale. Storie di uomini che vivevano a stretto contatto con la natura e con gli animali e da questi traevano lo spunto per insegnamenti e racconti. 

Parabole di vita quotidiana che l’autore riprende, rielabora, trasforma, immagina.

Raccontare storie è forse uno dei bisogni primari dell’uomo, sin dai tempi più antichi. Leggende, racconti, miti e superstizioni: sono tutti parte di un patrimonio culturale universale e rispondono alla necessità di creare e ricreare mondi magici come modo di spiegare e affrontare una realtà tangibile, nella quale la ragione domina sull’immaginazione. 

Il racconto è una narrazione organizzata nella quale una situazione iniziale volge a una situazione finale differente a seguito di varie peripezie. Esse possono ripetersi o variare e sono arricchite da elementi meravigliosi, oggetti magici, trasformazioni e poteri soprannaturali. La narrazione mette in scena una società fittizia, di uomini o animali, ma tutti sanno che, in realtà, dietro essa si nasconde una comunità reale.1

«Era un paese piccolo, la strada dalla città arrivava simile a una schioppettata e si faceva più sinuosa salendo verso gli appennini: eravamo lì stretti tra il fiume e le colline, con l’aria ancora buona e l’acqua da farci il bagno d’estate. Era quello, il nostro mare: e per tanto tempo ho immaginato che l’oceano non potesse essere più di quei sette, otto metri che dividevano una riva dall’altra del fiume.»

Conforti ha dato libero sfogo alla sua fantasia nell’immaginare le storie de La mula e gli altri, a immaginarne i luoghi e gli sviluppi. Storie che possono essere tanto immaginarie quanto reali, o meglio realistiche, svolgentesi in luoghi che, altrettanto, possono essere tanto immaginari quanto reali, o realistici. Uno qualsiasi dei tanti paesini che costeggiano la dorsale appenninica potrebbe essere lo scenario dal quale l’autore si è lasciato “incantare”. 

Il ritorno ai racconti popolari, alle antiche leggende, sembra essere servito a Conforti per fotografare l’umanità di oggi, sempre alla ricerca del cambiamento, della novità. Con il paradosso che questa “ricerca” viene condotta tramite un’esistenza apatica.

L’uomo moderno, come l’uomo di sempre, desidera conoscere sempre più a fondo il mondo che lo circonda, e proprio per questo si pone domande sempre più incisive e coraggiose su di sé, sul senso delle cose, sul loro significato, cominciando da ciò che rappresentano per lui, dal suo vissuto. 

L’aspirazione alla felicità rappresenta nella cultura contemporanea un vero e proprio diritto umano, su cui si modella l’impianto della coesione sociale. Là, dove il bene comune diventa itinerario di responsabilità, si crea una felicità condivisa, che richiede a tutti un diverso modo di conoscere la realtà, di leggerla dal di dentro, per interpretarla come specchio della condizione umana. 

È il mistero della nostra stessa umanità: cercare qualcosa che già abbiamo, voler sapere qualcosa che già sappiamo. “Qualcosa” che è dentro di noi, che ci appartiene intimamente, ma non pienamente, per cui alla sua piena realizzazione aspiriamo con tutte le nostre forze. È in questa dialettica tra ciò che abbiamo e ciò che ci manca, in riferimento allo stesso oggetto, vale a dire la nostra felicità, che diventa possibile la piena realizzazione della persona nella sua singolarità e la pienezza di senso della condizione umana.2

Altra tematica che Conforti affronta nel testo sono i tanti e irrisolti quesiti della storia. Misteri che sembrano destinati a rimanere irrisolti ma che forse troveranno soluzione proprio nell’irrazionalità del libro. L’irrazionale diviene così il nuovo volto del reale. Il caos del concreto. L’illogico del buonsenso. Il passato diacronico degli eventi l’unica alternativa possibile all’aridità del solo qui e ora. 

L’esplorazione che l’autore conduce sui temi del folklore degli antichi racconti porta inevitabilmente a un altro tema sempre centrale della letteratura: la fanciullezza. 

In Conforti, come già in Leopardi, la fanciullezza suscita una simpatia viva, profonda, una vera amabilità. Per la purezza di spirito, per la vicinanza alla natura e agli animali, per l’amore e l’interesse verso le cose semplici, piccole. Le myricaedel Pascoli. 

I mondi fantastici raccontati dalle storie della tradizione popolare, come quelli narrati da Conforti, sembrano il servertramite il quale la storia ha conservato il materiale per il genere fantasy e fantascientifico. Dalla fiaba al fantasy a farla da padrone sono la magia e gli animali fantastici. Nel testo di Conforti, nella notte dell’Epifania – ricorrenza ricca di valenze simboliche – gli animali possono parlare. 

La tendenza a una metamorfosi umanizzante del reale, che è naturale e congenita alla mente umana, è stata accresciuta e potenziata da una ormai millenaria tradizione di esposizione alle personificazioni nella letteratura e nell’iconografia. Essa viene poi oggi, nella nostra cultura contemporanea, sollecitata continuamente e in modo pervasivo da forme moderne di comunicazione di massa come i fumetti e i cartoon, in cui regnano animali totalmente umanizzati.3

Alessandro Conforti spesso fa un uso satirico e ironico della personificazione. Una modalità di utilizzo che ricorda molto la funzione svolta dalla personificazione nella stampa satirica in generale e quella risorgimentale in particolare.

Come il romanzo, il giornale è stato agente della trasformazione in senso nazionale degli immaginari pubblici otto-novecenteschi; rispetto al romanzo, tuttavia, il giornale implica peculiari modalità di lettura e composizione, fondate sulla giustapposizione di elementi eterogenei. La personificazione del giornale non è soltanto una particolare figura retorica del linguaggio satirico. È il nucleo centrale di una strategia mediale di narrazione; è una fondamentale modalità di auto-rappresentazione dei giornali satirico-politici, che coinvolge da vicino l’approccio del giornale nella costruzione simbolica del proprio ruolo e nei confronti del pubblico.4

Anche nel libro di Conforti, sotto lo strato ludico ricreativo, si riesce a leggere una scrittura se non proprio di denuncia, “educativa”, laddove vuol mostrare agli uomini e all’umanità pregi e difetti del nostro essere società estremamente civilizzata. 

Il libro

Alessandro Conforti, La mula e gli altri. Faccende semiserie di provincia, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2025.


1E. Scopelliti, I racconti popolari del Marocco, in Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019.

2P. Binetti, La cultura del cambiamento e dell’innovazione tra scienza e coscienza, in Counseling, volume 11, numero 3, ottobre 2018.

3G. Moretti e A. Bonandini (a cura di), La personificazione allegorica nella cultura antica fra letteratura, retorica e iconografia, Università degli Studi di Trento, 2012.

4S. Morachioli, Il volto del giornale. Usi e funzioni della personificazione nella stampa satirica risorgimentale, in MEFRIM, 130/1 – 2018.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Mario Sughi, Oscillazione

07 domenica Set 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

hoppípolla, MarioSughi, Oscillazione, recensione, romanzo

Oscillazione di Mario Sughi è un romanzo in tre atti, tre novelle brevi che sembrano seguire strade distinte, ma puntualmente si sovrappongono, si intrecciano, si richiamano, si rispondono. 

Il fragile equilibrio tra caso e destino, tra incontri fortuiti e scelte irreversibili, si dispiega in una narrazione circolare che lascia spazio al non detto, alle assenze, ai ricordi che affiorano e si dissolvono.

La scrittura in atti è, normalmente, tipica del teatro. Peculiarità di una sceneggiatura è proprio la suddivisione in atti. Quella in tre atti inoltre sembra essere ed essere stata la preferita perché consente meglio di fornire una struttura coesa e coinvolgente. Impostazione, confronto e risoluzione sono infatti i cardini di questo tipo di sceneggiatura.

Ma il libro di Sughi non è una sceneggiatura e i suoi “tre atti” non sono una suddivisione strutturale dell’opera. Le sue novelle brevi ricordano piuttosto una struttura simile, in versione ridotta, del Decameron per esempio. Sono storie a sé stanti eppure legate insieme da un sottile fil rouge. O meglio ancora, ricordano la configurazione tipica di alcune opere di Pirandello, strutturate inizialmente come novelle e poi, successivamente, trasformate in romanzo. Sughi ha cercato però di mantenerle separate, seppur facendole confluire in un’unico libro, giocando con il non detto, con i ricordi, con dei “vuoti” narrativi che il lettore è libero di riempire secondo volontà propria e personale. 

A legare la narrazione contribuiscono anche le illustrazioni di cui è pieno il libro. Rappresentazioni visive delle scenenarrate. 

La nascita del mercato del libro è coincisa con l’avvento dell’immagine riprodotta con mezzi meccanici e in particolare della stampa. Stampa che ha rappresentato il mutamento più profondo di tutto il periodo nel campo della comunicazione visiva, ampliando notevolmente la disponibilità di immagini.1 Produzione, lettura e circolazione delle opere letterarie sono anche un fatto visivo, leggere molto spesso vuol dire, e per larghe fasce della popolazione ha voluto dire talvolta soprattutto, guardare. E il discorso vale su ogni livello della produzione culturale.2

Illustrare una storia significa molto più che inserire immagini, perché vuol dire scegliere modelli, confrontare le fonti, e, soprattutto, comporre un nuovo corpo testuale, che diventa, anche rispetto alla sintassi dei capitoli, un organismo più dinamico, grazie agli effetti di campo e controcampo con cui si incontrano le illustrazioni finali e quelle iniziali dei capitoli.3

Il territorio della scrittura iconotestuale è ampio, complesso ed eterogeneo. Racchiude modalità molto diverse di relazione fra testi e fotografie presenti in un libro: i volumi illustrati, nei quali le immagini si sovrappongono e si accostano alle parole; i Photo-texts per i quali l’integrazione fra i due codici appare più stretta soprattutto nel caso in cui testi e fotografie sono espressioni diverse di un unico autore; i Photo-books, libri nati per lo più dalla collaborazione fra uno scrittore e un fotografo, in cui la dimensione più evidente della trama verbo-visiva è sostanzialmente dialogica e relazionale.4

Nel romanzo di Sughi le immagini, come nei Photo-texts, sono la rappresentazione della creatività dell’autore utilizzando due codici artistici differenti. Ciò che il lettore non riesce a ben comprendere e che rimane uno dei vuoti, presumibilmente voluti, lasciati dall’autore è se il testo narrativo sia stato scritto come supporto alle illustrazioni o viceversa. 

Le numerose illustrazioni presenti in Oscillazione sono immagini dal tratto semplice, con colorazioni che vanno dal pastello ai rossi intensi. In alcune immagini il colore scompare e rimane sono un tratto nero-grigio su sfondo bianco. Minimalista eppure molto intenso che cattura lo sguardo e l’attenzione dell’osservatore anche in misura maggiore delle immagini colorate. 

I colori fanno parte degli elementi attraverso i quali i sensi apprendono la realtà. Che l’uomo percepisca i colori attraverso l’occhio è indubbio; ma questi possiedono, esplicano e manifestano anche altre funzioni che non sono connesse soltanto all’ambito prettamente visivo e sensoriale, ma possono svolgere anche un ruolo “morale”, sensibile, estetico. Il “linguaggio” del colore si configura così come un linguaggio simbolico particolare, fatto anche di “suggestioni”, che non provengono dalla sola osservazione razionale. Per lungo tempo in Occidente ha prevalso una organizzazione ternaria dei colori, legata al bianco, al nero e al rosso. Per la cultura occidentale, quindi, i colori servono a designare gli orientamenti, i pianeti e gli elementi naturali, ma anche la dualità intrinseca dell’uomo che si esprime con il bianco e il nero. 

Comunemente questi simboleggiano la luce e le tenebre, la conoscenza e l’ignoranza. Ma il nero, oltre a questa accezione negativa, ne possiede anche un’altra, positiva, come simbolo del principio di fecondità. In ogni mito sulla formazione dell’universo, in fatti, il nero rappresenta l’indistinto primordiale, è un’interpretazione comune a molte cosmogonie.5

La medesima percezione si ha leggendo il libro di Sughi e, soprattutto, osservando le illustrazioni nelle quali il tratto maggiormente incisivo lo dà il nero. Come un inchiostro. Come l’inchiostro che ha trasformato i pensieri in parole. Le idee in caratteri, spazi, paragrafi, capitoli, atti. 

Anche la scrittura di Sughi mantiene le caratteristiche delle illustrazioni: colori accesi e vivaci che vanno a comporsi e prendere vita su una superficie piana. Eleganza, volume e profondità di intenti e significati.

Il libro

Mario Sughi, Oscillazione. Romanzo in tre atti, hoppípolla, 2025.


1Asa Briggs – Peter Burke, A Social History of the Media. From Gutemberg to the Internet, Polity Press, 2009.

2Claudia Cao – Giuseppe Carrara – Beatrice Seligardi, La narrativa illustrata fra Ottocento e Novecento, in Between, vol. XIII, n. 25 (maggio 2023).

3Daniela Brogi, Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo, Carocci, 2018.

4Maria Rizzarelli, Nuovi romanzi di figure. Per una mappa del fototesto italiano contemporaneo, in Narrativa, n. 41 | 2019.

5Caroline Pagani, Le variazioni antropologico-culturali dei significati simbolici dei colori, in Leitmotiv – 1 – 2001.


Articolo pubblicato su LuciaLibri


Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Maria Elisa Gualandris, Solo il buio

04 lunedì Ago 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

MariaElisaGualandris, MorelliniEditore, recensione, romanzo, Soloilbuio

Jasmine Faizal, dicissettenne di origini marocchine, viene trovata morta nella vasca di un vecchio lavatoio a Verbania. A indagare è Rosa Spini, giovane magistrata determinata a scoprire la verità. Ma il caso riapre una ferita profonda: la morte della sua migliore amica, Chiara, negli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Mentre l’indagine prende piede, il clamore mediatico travolge Rosa, mettendo a nudo il suo passato e facendola finire sotto accusa. Affiancata dalla medica legale Barbara e dal giornalista Berna, Rosa dovrà confrontarsi non solo con i propri demoni interiori, ma anche con le complesse dinamiche di una comunità lacerata dalla paura e dal pregiudizio.

Nel romanzo di Maria Elisa Gualandris ci sono tante storie di donne che si incontrano, si intersecano, si tagliano e si stagliano come rette su di un piano. Sono esistenze che nascondono segreti, misteri, dolori, sentimenti, desideri, aspirazioni, ambizioni. Destini che si intrecciano alla vita. Vite spezzate dal destino. Un destino spesso deviato dall’agire umano. Come per la morte di Jasmine e Chiara. 

Il fulcro dell’intero romanzo è la protagonista, Rosa, una donna forgiata dalle difficoltà che ha dovuto affrontare, dai dolori e dalle perdite che ha dovuto superare, dai sensi di colpa e da quelli di inadeguatezza che derivano, per la maggiore, dalla madre. Donna forte e sicura di sé non è riuscita a trasmettere la stessa sicurezza nella figlia, che invece sembra arrancare nel tentativo di mantenere il passo. I danni emotivi sono evidenti nel comportamento come nei pensieri di Rosa. Angoscia esistenziale che si trasforma in bulimia alimentare. 

Un ulteriore e potentissimo trauma che Rosa deve affrontare è l’aggressione subita durante l’attentato al Bataclan di Parigi. Sopravvissuta si ritrova a dover convivere con i sensi di colpa per la morte della sua migliore amica. Il dover indagare sull’omicidio di Jasmine e avvicinarsi quindi alla comunità degli immigrati musulmani è una ulteriore durissima prova. Il lavoro richiede che rimanga distaccata e professionale, la mente è tormentata da emozioni e ricordi. I sentimenti contrastanti diventano pugni in faccia e allo stomaco per la giovane magistrata. 

Durante le indagini per l’omicidio di Jasmine, Rosa dovrà fare i conti con i propri fantasmi ma anche con numerosi ostacoli derivanti, o comunque dipendenti, dal comportamento delle persone che la circondano, inondandola di paure e timori che in lei diventano ricordi, ingerenze che la fanno vacillare ma non cadere. 

Il libro scritto da Gualandris è un noir psicologico. L’autrice lascia la protagonista indagare sul delitto ma l’intero libro sembra costruito sull’analisi della psiche della stessa Rosa. La narrazione di un crimine violento attraverso il filtro sensibile di una mente umana provata da traumi plurimi. La magistrata riesce a trovare la giusta strada per la risoluzione del caso ma questo, a tratti, sembra addirittura secondario rispetto all’indagine che l’autrice deve aver compiuto per creare il personaggio di Rosa Spini. 

La paura è un’emozione. E il trauma derivante da una forte paura è una forte emozione per l’animo umano. Rosa è una traumatizzata in questo senso e, prima ancora di risolvere il delitto, deve fare i conti con il proprio essere. Sarà poi proprio la consapevolezza del delitto a porla dinanzi a delle scelte che apriranno un varco anche all’interno del proprio trauma, dentro se stessa. 

Indagando all’interno della comunità marocchina, Rosa riesce ad aprire uno squarcio anche per la comprensione del proprio trauma. Ciò naturalmente non potrà mai cambiare quanto accaduto ma la aiuterà a comprendere alcune dinamiche che le torneranno utili anche nell’indagine per l’omicidio di Jasmine. Soprattutto, l’aiuteranno a riscoprire una forza che credeva di non possedere o di non possedere più. Una determinazione che sarà determinante, per l’indagine certo ma anche per il suo essere. 

A tratti, il libro di Gualandris si mostra al lettore quasi come una sorta di manifesto per la libertà femminile, in tutte le sue forme e contro tutte le forme di oppressione e limitazione. Una sorta di inno alla rivoluzione. 

Il libro

Maria Elisa Gualandris, Solo il buio, Morellini Editore, Milano, 2025.


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per l’immagine di copertina, credits www.pixabay.com


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Placido Di Stefano, GAP

25 venerdì Lug 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

GAP, NeoEdizioni, PlacidoDiStefano, recensione, romanzo

Fedor ha sedici anni, in giro lo chiamano il River Phoenix di Inganni, quartiere della periferia ovest di Milano. Insieme ai suoi amici, il Moro e Leo, si preparano a girare un video hip-hop per una rapper loro coetanea. Si esercitano, sperimentano, s’improvvisano attori sotto la regia marziale del Moro, in fissa con il cinema e la recitazione. Fedor, però, ha anche una vita che nessuno conosce: mentre accudiva la madre ha scoperto il Fentanyl, e ne è diventato dipendente. Sempre a corto di soldi, viene introdotto in un giro di appuntamenti dove uomini adulti pagano giovani adolescenti per inscenare incontri in cui possono diventare altro da sé.

Il libro di Placido Di Stefano è davvero il racconto spietato di cosa significhi diventare adulti crescendo ai margini del mondo contemporaneo.

I grandi cambiamenti che hanno attraversato la società a partire dagli anni Ottanta hanno profondamente alterato il percorso biografico “standard”. A seguito delle numerose e profonde trasformazioni dell’assetto sociale, il corso di vita – l’ordine e la durata con cui le fasi della vita si susseguono – è stato interessato da un progressivo processo di “fluidificazione”, che ha reso meno netto il passaggio da una fase all’altra. Il passaggio dalla gioventù all’età adulta, in particolare, ha assunto caratteristiche del tutto nuove. Quelle che erano le tappe tradizionali del percorso che conduce dalla condizione di giovane a quella di adulto (conclusione degli studi, inserimento stabile nel mercato del lavoro, autonomia abitativa, matrimonio e genitorialità), infatti, oggi non solo sono più distanti fra loro, ma seguono un ordine cronologico irregolare e sono spesso caratterizzate da un’alternanza di passi in avanti e passi indietro.1

Anche Fedor è una vittima di drastici cambiamenti, familiari più che sociali, che lo hanno costretto ad abbandonare il suo essere giovane e spensierato. Responsabilità e dolore lo hanno trascinato in un vortice troppo forte da gestire da solo. Il brutale e precoce passaggio all’età adulta porta Fedor non tanto all’effetto yo-yo tra le fasi della vita quanto alla creazione di tanti sé. Ruoli da interpretare nei vari momenti della sua esistenza. 

Il Fentanyl è un oppiode sintetico cento volte più potente e tossico della morfina, conosciuto anche come “droga degli zombie”. Negli Usa è stato responsabile di 74mila morti nel 2023. È un problema che riguarda anche Europa e Italia. Dal 12 marzo 2024 è scattata l’allerta di terzo grado in Italia per la sempre maggiore diffusione nelle piazze di spaccio di questa sostanza.2

L’essersi avvicinato alla droga e la tossicodipendenza che ne è derivata, con la conseguente sempre maggiore necessità di soldi, trascina Fedor in profondità sempre più buie della marginalità sociale. 

Sono numerosi gli aspetti contorti e complessi della società odierna che l’autore indaga nel libro, e lo fa attraverso il racconto delle storie dei protagonisti. Di Fedor ma anche dei suoi amici. Le varie sfaccettature dell’adolescenza, soprattutto quelle più cupi e tristi, vengono mostrate al lettore in tutta la loro brutale realtà. E verità. Perché il mondo racconto da Di Stefano è reale. O realistico. Nel senso che esiste davvero, anche se i suoi personaggi sono inventati. 

Fedor porta questo nome per ovvia volontà di sua madre, nome scelto anche per omaggiare uno dei più grandi autori di ogni epoca letteraria. 

E allora la mente non può non andare a L’adolescente di Fëdor Dostoevskij. Pur nella differenza della costruzione delle rispettive storie, dello stile e delle motivazioni che hanno portato gli autori a scrivere, si ritrova in GAP la medesima narrazione di una gioventù inquieta e sradicata. Egualmente si ritrova nel libro di Di Stefano quella vertiginosa sequenza di fatti, quel turbine di avvenimenti intensi e, per certi versi assurdi, che si leggono nell’opera di Dostoevskij. Entrambi i libri, entrambe le storie per certo rispecchiano l’epoca in cui sono state scritte. I due protagonisti agiscono in mondi diversi e in maniera differente ma sono entrambi mossi da una comune volontà di riscatto. Meno evidente nel libro di Di Stefano perché Fedor sembra annichilito dalla droga, interessato solo a procacciarsi i soldi per la dose di Fentanyl. Ma è finzione. Una messa in scena. Una recita. Tutti stanno recitando. Anche i suoi amici. E lo fanno non soltanto sul set del video che stanno registrando. Lo fanno nella quotidianità perché è l’unico modo che sono riusciti a trovare per “inventarsi” la vita che desiderano, che immaginano, che vorrebbero. L’autore racconta di una generazione che volentieri butterebbe la maschera che, in un certo qual modo, è costretta a indossare. Ne farebbe volentieri a meno se riuscisse a trovare la soluzione. Se avesse una guida. Esattamente come accade nel romanzo di Dostoevskij: se avesse avuto la guida sicura del padre tanto cercato forse Arkadij non avrebbe commesso gli errori e le imprudenze che ne hanno determinato il cammino. O, forse, le avrebbe commesse egualmente. 

Ed è proprio questo il punto su cui il libro di Placido Di Stefano sembra voler far convergere l’interesse del lettore: la difficoltà di ridurre semplicisticamente la condizione esistenziale di coloro che crescono ai margini della società in un riduttivo o tutto bianco o tutto nero. Mostrandogli invece il grottesco adolescenziale periferico in tutta la sua complessità.

Il libro

Placido Di Stefano, GAP. Grottesco Adolescenziale Periferico, Neo. Edizioni, Castel Di Sangro (Aquila), 2025.


1A. Spanò, Gioventù e adultità nella società contemporanea: riflessioni sul dibattito suscitato dai cambiamenti del corso di vita, in Quaderni di Sociologia, n. 80 | 2019. 

2Allarme Fentanyl anche in Italia: da Consulcesi Club gli strumenti per riconoscere e contrastare le nuove droghe, in quotidianosanita.it, 6 dicembre 2024.


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Domenico Conoscenti, Manomissione

25 venerdì Lug 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

DomenicoConoscenti, IlRamoelaFogliaEdizioni, Manomissione, recensione, romanzo

Con Manomissione Domenico Conoscenti accompagna il lettore a conoscere e indagare non solo il delitto compiuto nel suo romanzo ma un intero trentennio di un paese che ha visto più volte vacillare la sua democrazia, la libertà e le conquiste sociali che si credevano ormai radicate. 

Si riconoscono nel testo diversi eventi realmente accaduti. Ma il libro di Conoscenti non è una rievocazione storica in senso stretto. Non viene compiuta un’indagine sui fatti reali bensì si parte dalle personali riflessioni dell’autore per immaginare un mondo, un paese in cui questi fatti potrebbero accadere, o sono accaduti, e se ne raccontano gli sviluppi. 

L’autore sembra aver compiuto un cammino del tutto analogo a quello che il flâneur faceva per la città, ma adattandolo al sistema paese. Attraverso l’indagine critica dei contesti urbani, il flâneur riusciva a elevarli a simbolo della complessità dei fenomeni antropologici1, esattamente come ha fatto Conoscenti, il quale, attraverso il racconto delle vite dei protagonisti, racconta la storia di un paese intero. E viceversa. Raccontando il globale, l’autore riesce a illuminare il particolare. E così l’intreccio delle vicende risulta essere quello che deriva dall’incontro / scontro tra le varie esistenze individuali e i grandi sistemi che vanno a comporre, a muovere, a deviare la democrazia.

Alla base di tutto ci sono le relazioni umane, sentimentali, tra i protagonisti. Un intreccio che parte dei sentimenti, abbraccia la sfera professionale e arriva fino alle profondità più oscure dell’animo umano. La relazione tra Leonardo e il compagno, tra Diego e la fidanzata, il rapporto padre-figlio di Demetrio fanno da preludio al racconto dell’indagine sul crimine commesso ma, soprattutto, sono l’input per il racconto sociale e politico di un intero paese soggiogato dalla violenza. 

Kerr ne La notte di Praga scrive: «quando la legge e il male sono una cosa sola, la ricerca della verità è un valzer lento con la follia»2. La pagina di storia recente che il libro di Conoscenti riporta alla mente è molto triste. Una manifestazione, una ribellione, una rivolta, la carica della polizia. Tanta violenza. Il tema è molto delicato. Conoscenti ha scelto di raccontarlo attraverso l’esperienza diretta di alcuni dei suoi protagonisti che hanno partecipato alla manifestazione. Persone che hanno vissuto e subito un forte impatto con la violenza. E questo li ha cambiati. Esattamente come accade anche sul fronte opposto. Militari, soldati, forze di polizia che, quotidianamente, affrontano situazioni di violenza, anche estrema, non possono non subirne le conseguenze. Si trasformano. Avviene forse una sorta di processo di disumanizzazione, che è anche un meccanismo di autodifesa. Per andare avanti. Per poter andare avanti. Nietzsche diceva: «Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro»3.

È evidente che l’aver guardato l’abisso, rappresentato dagli eventi accaduti nel trentennio storico considerato, ha cambiato i protagonisti del libro ma deve aver lasciato il segno anche sull’autore che ha scelto un meccanismo non molto usato, ovvero la discronia. Gli eventi narrati da Conoscenti hanno avuto luogo in un arco temporale lungo eppure egli sceglie di “avvicinarli” tutti lungo la linea del tempo in modo tale che risultino prossimi ai suoi protagonisti e alle loro personali vicende., il tutto con un realismo immaginario davvero notevole. È evidente la volontà dell’autore di inserirli nel testo perché importanti, in qualche modo. Conoscenti è riuscito poi anche a farli sembrare necessari, in quanto la narrazione delle vicende personali dei protagonisti, potendo includere in questo anche il delitto, non avrebbero lo stesso significato senza la contestuale narrazione di questi eventi “globali”. 

Non si riesce agevolmente a inserire il libro di Conoscenti in un genere ben definito. Ma questo, in realtà, non ha alcuna importanza. Romanzo, distopico, noir, thriller, poliziesco: Manomissione non ha i tratti di nessuno di questi generi eppure è tutto questo messo insieme. Non un melting pot ma un qualcosa che va oltre il genere singolo. Quasi come se per esistere avesse contaminato tutti i generi, li avesse “manomessi”. Esattamente come accade alle vite dei protagonisti del libro. 

Per certo ad essere “manomessa” è stata l’esistenza di Gaetano, compagno di Leonardo, brutalmente malmenato durane la Manifestazione da Diego, il cui cadavere verrà rinvenuto proprio accanto a Leonardo. Durante il periodo in cui ha prestato servizio in polizia, Diego si è sempre distinto per la violenta omofobia. Una maschera costruita per nascondere la sua repressa attrazione per gli uomini. Leonardo, invece, è un insegnante che non si nasconde dietro una maschera. Degradato sul posto di lavoro proprio per la sfrontatezza nel non voler tenere segreto il suo essere. Due aspetti del medesimo degrado sociale indagati a fondo da Conoscenti. Ed ecco allora che il lettore si chiede se sia mai davvero accettabile per una società civile tutto questo. 

I personaggi pirandelliani spesso sono sconfitti dall’alterità, perché nell’altro essi vedono riflessa la propria inconsistenza, il divario tra ciò che pensavano di sé e ciò che sono. La comprensione di sé e degli altri è un processo continuo, contraddittorio e intrinsecamente conflittuale, ma in Pirandello ha un carattere assolutamente distruttivo, perché la forma cerca di imbrigliare la vita attraverso le maschere, le quali non lasciano mai impunito chi si ribella a esse, ma lo ripagano con la reificazione o la pazzia.4 Nel libro di Conoscenti le maschere sembrano assumere un significato differente e la vita, nonostante tutto, vince sulla forma. 

Manomissione è un invito a indagare oltre, sempre più in profondità, tra le pieghe del male e delle ingiustizie, non tanto per ritrovare un’umanità che deve pur esserci stata in passato, bensì per crearne una nuova, che diventi la coscienza collettiva della società di oggi.

Il libro

Domenico Conoscenti, Manomissione, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2025.


1F. Governa, M. Memoli, Geografia dell’urbano. Spazi, politiche, pratiche della città, Carocci Editore, Roma, 2011.

2P. Kerr, La notte di Praga, Piemme, Milano, 2013.

3F.W. Nietzsche, Detti e Intermezzi, quarto capitolo di Al di là del bene e del male.

4C. Gnoffo, Pirandello e la disintegrazione del sé sociale come ribellione alle maschere, in Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Luca Giommoni, Nero. Il complotto dei complotti

16 mercoledì Lug 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

effequ, LucaGiommoni, Nero, recensione, romanzo


E se tutte le teorie del complotto servissero solo per nascondere l’esistenza di un unico, grande complotto? E se il viaggio nel tempo fosse possibile, e i centri per l’impiego trovassero il modo di rimandare nel passato i disoccupati per trovare loro lavoro? Questi sono gli interrogativi da cui Luca Giommoni è partito per costruire la storia di Nero, un giovane disoccupato e grande esperto di complotti il quale, nel tentativo di rimediare alle storture del presente dovrà affrontare le kafkiane difficoltà degli organi di controllo burocratici. 

La quasi totalità dell’opera di Kafka è incentrata sul senso dell’esistenza dei singoli uomini e della società. E dunque sull’ideale di giustizia, contrastato dall’ingiustizia reale, spesso ammantata di strutture legali. L’opera di Luca Giammoni sembra rifarsi proprio a questa volontà di narrare le storture del proprio tempo che portano i protagonisti in un multiverso contorto e deformato dove tutto viene controllato, revisionato, distorto. Una forma di controllo che rimanda il lettore a scenari cinematografici visti in opere quali Matrix.

Nel ‘900 narrato da Kafka la solitudine è una categoria esistenziale privilegiata. Forte è il senso di solitudine degli individui ormai catapultati in una “società di massa” dentro la quel perdono ogni riferimento. 

Lo stesso accade agli uomini del romanzo di Giommoni. Individui persi in una società consumistica e capitalistica nella quale tutti sembrano correre sempre più velocemente verso il nulla più profondo. Chi non è produttivo agli occhi della società scompare ma non Nero, no, lui scompare davvero. 

La prima parte del romanzo è di un tale realismo da apparire quasi crudele. Giommoni accompagna il lettore in un percorso a metà tra la conoscenza e la tortura e gli mostra un lato oscuro della società di oggi, quello che più fa paura ai “persi”, ovvero i nuovi vinti di verghiana memoria. I centri per l’impiego, la disoccupazione a trent’anni, i disagi di un mondo del lavoro che lavoro non riesce a dare. Ma il percorso è solo all’inizio. L’autore trasforma la scena continuamente con drastici cambi e l’uso copioso di analessi e flash-forward che, letteralmente, trascinano il lettore nello spazio e, soprattutto, nel tempo. Il tutto a tratti appare quasi un gioco al massacro ma non è così, si tratta solo e semplicemente di fantascienza. 

Attraverso scenari e situazioni fantascientifiche l’autore compie un’accurata critica all’odierna società, toccando sia il piano sociale che quello politico. In particolare, tutto l’impianto narrativo sembra costruito intorno a un aspetto peculiare della narrazione attuale: i complotti. Oggigiorno questi sono tanto odiati quanto amati e, soprattutto, impiegati per deviare il flusso di idee e consensi. Nel romanzo di Giommoni il complotto è parte della stessa società, è assoluzione, autoassoluzione, conforto per i personaggi. L’esistenza dei complotti li aiuta a deresponsabilizzarsi, perché la colpa di ciò che accade non può essere imputata a loro, bensì a quell’entità astratta che tira le fila del viver di tutti. 

Le tante storie narrate nel libro, unite dal filo conduttore della storia di Nero, pur nell’irrealismo del fantascientifico, finiscono per diventare il grandangolo che indaga l’attualità e la mostra al lettore illuminandone pregi ma, soprattutto, difetti, carenze, oscenità. 

Nero di Luca Giommoni è per certo un romanzo con una struttura e una scrittura particolari, ma ben architettato. Che funziona soprattutto perché l’autore ha saputo trasportare nel presente tutti gli insegnamenti di grandi maestri del Novecento, Kafka in primis, ma anche grandi esponenti della letteratura d’oltreoceano come Kurt Vonnegut, rendendoli non solo attuali ma necessari. 

Il libro

Luca Giommoni, Nero. Il complotto dei complotti, effequ, 2024.


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Andrea Mauri, Poison

14 lunedì Lug 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

AndreaMauri, ExtemporaEdizioni, Poison, recensione, romanzo

Cosa accade quando una veggente non riesce a vedere né comprendere quello che le accade intorno? Si tratta di un’incapacità reale oppure è un meccanismo di autodifesa? E se la persona che cerca di far luce su questa oscurità sia incapace di mostrare realmente se stessa? I lati oscuri della personalità di una persona vincono anche la forza di poteri soprannaturali? E se fosse tutta una strategia?

Il libro di Andrea Mauri cerca non solo di rispondere a questi interrogativi ma di ingenerarne altri, sempre nuovi, per andare più in profondità nella ricerca della vera essenza dell’esistenza e delle persone.

Beatrice è una veggente, da anni ricoverata in clinica. Suo figlio Antonello si prende cura di lei e della sua evanescente memoria. Beatrice ama cospargersi letteralmente di profumo, uno in particolare: Poison. Un profumo certo ma con un nome che simbolicamente vuol far riflettere il lettore: qual è il veleno che quotidianamente Beatrice cosparge sul suo capo? Che significato potrà mai avere questo gesto? È una forma di penitenza? Per quello che ha dimenticato? Per ciò che non ha compreso? Per ciò che nasconde?

Antonello cerca di curare la memoria di sua madre raccontandole tutti i momenti belli trascorsi assieme ma entrambi sanno benissimo che ce ne sono altri, bui, che nulla potrà cancellare. Momenti dolorosi che hanno segnato la vita di entrambi. Sarà l’incontro con il neurologo Gabriele a dare la forza ad Antonello di far emergere il proprio vero io, se stesso in tutte le sue contraddizioni, aspirazioni. Con tutta la forza che solo le emozioni e la passione possono dare. Eppure anche un sentimento positivo, come l’amore, può nascondere un lato oscuro. Una stortura della mente che solo una madre può comprendere fino in fondo. Anche una madre che non ricorda. Che ignora. Che non comprende. Che sembra tutto questo. Ma parliamo di una madre veggente. 

La crescente complessità dei nuovi problemi che ci troviamo davanti è dovuto al fatto che ormai non ci si muove più sulla superficie allargata di un mondo macroscopico, bensì in un mondo microscopico di strutture invisibili. Per arrivare a queste, nella ricerca scientifica, abbiamo bisogno di una strumentazione che, sia pure di poco, disturba l’esperimento. Lo stesso vale per l’uomo, nella complessità del suo essere, fatta di corpo e di mente: in letteratura è necessario scavare sotto l’apparente compostezza e compattezza dell’individuo.1

Ed è esattamente ciò che Mauri fa compiere al suo protagonista: un lungo e tortuoso cammino introspettivo di relazione del sé con se stesso e con gli altri. 

Se consideriamo il dualismo maschile / femminile come costitutivo di ogni cultura occidentale, è implicito in questo dualismo un potenziale simbolico che va dalla direzione della sua continua ripresa, affermazione, revisione, ridefinizione, sovvertimento. In altre parole, è proprio il dualismo che se da una parte afferma la differenza, dall’altra implicitamente spinge a modi di superamento della stessa differenza. La letteratura del Novecento è piena di opere nelle quali il maschile e il femminile intrattengono un rapporto fondato non sulla separazione ma sulla mescolanza, sull’avvicinamento, sull’ibridazione. Basti pensare a Carlo del romanzo di Pasolini, o a Ernesto di Saba. Ma la domanda da porsi è: possiamo ricondurre al corpo e in particolare alla sessualità un discorso intorno alla “verità” su cui si impostano le strutture retoriche del testo? Questi testi vanno interpretati con una logica invertita: servono a farci capire che all’interno della modernità si muovono forze che, pur non venendo esplicitamente alla luce, rendono sismico il campo su cui si costruisce il discorso letterario.2 E sono esattamente queste forze che muovono il romanzo di Mauri.

Il protagonista è e rimane combattuto, quasi schiacciato, tra il legame, a volte morboso, con una madre davvero singolare e quello con se stesso, l’unico che può offrirgli la forza di costruire un’unione con Gabriel, per esempio. Ma gli ostacoli non risiedono solo fuori dal sé, ovvero nell’ingerenza materna. No, sono dentro di lui. E sono questi i più pericolosi, deleteri, oscuri. A tratti perversi. 

Poison di Andrea Mauri è un libro molto introspettivo. Molto profondo. Una storia che illumina i lati oscuri che si celano in ognuno di noi, i traumi irrisolti, i contrasti mai sopiti, le emozioni mai affiorate, i sentimenti di amore che si trasformano in odio e viceversa. Una lettura impegnativa che scuote e sorprende. Intriga e rinnega. Affascina e rattrista. Reazioni per certo previste dall’autore perché trasmesse attraverso Antonello e la sua storia, volutamente costruita da Mauri per sortire questo effetto choc in chi la legge, odiandola mentre se ne innamora. 

Il libro

Andrea Mauri, Poison, Extempora Edizioni, Siena, 2025.


1M. Bresciani Califano, Con gli occhi della mente. Letteratura e scienza: l’estetica dell’invisibile, Firenze University Press, Firenze, 2024.

2M.A. Bazzocchi, Il codice del corpo. Genere e sessualità nella letteratura italiana del Novecento, R. Gasperina Geroni (a cura di), Edizioni Pendagron, Bologna, 2016.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Rosalia Alberghina, Diletta

29 giovedì Mag 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

Diletta, recensione, romanzo, RosaliaAlberghina, RossiniEditore

Diletta, protagonista del romanzo di Alberghina, non ha girato il mondo eppure, in qualche modo, è stato il mondo ad andarle incontro. Lei lavora come addetta allo scalo aeroportuale, ovvero come hostess di terra e di persone, provenienti da ogni angolo del pianeta, ne ha incontrate e incrociate davvero tante. 

Sin dall’antichità, spedizioni fantastiche verso un altrove reale o immaginario, discese agli inferi e voli estatici nell’ottavo cielo, viaggi al limite del mondo conosciuto, sulla luna o giù negli abissi, oltre i confini del cosmo e del tempo, hanno stimolato l’immaginazione poetica della letteratura mondiale. Sono itinerari di conoscenza attivati dalla curiositas e dal senso di meraviglia dell’eroe, oppure sono percorsi utopici che sondano le possibilità di miglioramento del vivere collettivo. Possono, a volte, assumere la forma di viaggi allegorici, di pellegrinaggi oltremondani o di tragitti mistici, arcani, sacri.1

Il viaggio, dunque, come struttura originaria di ogni opera narrativa è una nozione che evoca un ampio orizzonte antropologico, in grado di spiegarne la straordinaria molteplicità e longevità. Un tema di lunga durata, che attraversa la letteratura dal mondo antico a oggi, e si manifesta in sentieri immaginari come nelle frontiere più tangibili degli spazi geografici, a rappresentare la vocazione umana all’erranza.2

La conoscenza del mondo attraverso il passaggio di tutti i viaggiatori dall’aeroporto dove lavora, rappresenta, in un certo senso, il viaggio allegorico di Diletta. Questa infatti non solo riflette sulle informazioni apprese dalle persone conosciute ma le utilizza per immaginare anche la sua esistenza oltre il viaggio non-viaggio di tutti gli anni trascorsi in aeroporto. 

Scrivere e viaggiare sono entrambe attività che hanno origine da un atto di straniamento e “defamiliarizzazione” che disorienta lettore ed esploratore insieme. Essere testimoni di realtà mai viste prima, meravigliose e sconosciute, favorisce anche una nuova e diversa consapevolezza e ridefinizione dei limiti del linguaggio. In tutte le sue varianti, il viaggio è un’esperienza che mette in discussione visione del mondo e identità abituali, grazie alle conseguenze trasformative dello spostamento in terre incognite e dell’incontro con l’altro. Può essere una ricerca con effetti negativi o positivi, risultare in un guadagno o in una perdita, portare a una nuova conoscenza di sé, e un’espansione della propria coscienza, oppure alla dissoluzione. Dall’idea convenzionale del viaggio come distacco motivato da necessità ed esigenze di vario tipo, si arriva a formulazioni postmoderne e postcoloniali che celebrano, invece, l’erranza nomadica e senza mete stabilite, l’opportunità, insomma, di girare il mondo abbandonandosi alla corrente di modalità dinamiche più relazionali e reciproche di dialogo e scambio, al di là di gerarchie statiche, categorie immutabili e ruoli prefissati.3

Nell’andirivieni di passeggeri viaggiatori si insinua e si incunea anche l’esistenza, un po’ reale e un po’ immaginata, di Diletta la quale prova a costruire, o solo immaginare, anche la sua vita sentimentale rimanendo ferma, a tratti immobile, mentre tutto il mondo sembra girarle vorticosamente intorno. 

L’amore scritto è espressione di una necessità degli uomini (e delle donne), quella di raccontare la tensione verso la propria identità per coglierne il senso e il valore; attraverso il linguaggio si svela la narrazione del sé, si ricerca l’Io mediante la rappresentazione delle sue forme. Scrivere sull’amore sembra allora permettere/promettere un ricongiungimento del soggetto con la natura dialettica dell’identità che la vuole composta dall’alterità, nel momento in cui il sentimento amoroso spinge verso e oltre sé, indicando l’origine e la fine di una ricerca.4

E Diletta ha condotto quasi in maniera spasmodica la sua personale ricerca non tanto e non solo dell’amore in sé quanto, piuttosto, della persona che potesse rispondere a tutte le aspettative, prevalentemente non sue ma di sua madre e che rientrasse appieno nei canoni standard voluti da società e famiglia. Ovviamente queste aspettative hanno ingenerato non poche pressioni nella ragazza. Pressioni che hanno poi influito su scelte, decisioni e indecisioni, ribellioni, emozioni, sentimenti e comportamenti. 

La storia di Diletta diventa così l’itinerario di un lungo viaggio con tanti scali e cambi di destinazione inaspettati, ritardi, cancellazioni, chiusure e riaperture. Un viaggio che la conduce e la fa impattare contro l’emoticon di un cuore rosso fasciato da una benda bianca e la sua mente subito lo raffronta con il kintsugi, l’antica arte giapponese di riparare le rotture e fare in modo che anche le sue cicatrici diventino qualcosa di prezioso.

Il libro

Rosalia Alberghina, Diletta, Rossini Editore, Milano, 2024


1F. De Cristofaro, R. Antonangeli, Introduzione. Il viaggio immaginario: le terre incognite della scrittura tra epica, fantastico ed ecofemminismo, in StatusQuestions : Language Text Culture, n° 24, 2023.

2D. Capodarca, Viaggi e pellegrinaggi tra storia e letteratura, in Annali Online di Ferrara, Unife – Università di Ferrara, 2012.

3F. De Cristofaro, R. Antonangeli, op.cit.

4A. Taglioli, Fenomenologia dell’amore scritto, in SocietàMutamentoPolitica, vol. 2, n° 4, Firenze University Press, Firenze, 2011.

Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’autrice per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


Philippe Forest, Il romanzo, il reale e altri saggi

Il romanzo che l’autore non voleva scrivere: “Piano americano” di Antonio Paolacci (Morellini Editore, 2017)

Silvia Giagnoni, Alabama Hunt

Duilio Scalici, L’educazione sbagliata

Sara Mesa, La famiglia

“Proiezioni. Una storia delle emozioni umane” di Karl Deisseroth

Mattia Morretta, Non fu l’amore

La bellezza non basta. L’amore del Rinascimento che ha cambiato il mondo 


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

← Vecchi Post

Sostieni le Attività di Ricerca e Studio di Irma Loredana Galgano

Translate:

Articoli recenti

  • Lettura e lettori: filosofia e critica dell’arte della letteratura
  • Teodoro Lorenzo, Rimpalli
  • Antonietta Gnerre, Umano fiorire
  • Tiziano Fratus, Una foresta ricamata. Parole scucite tra selve e silenzi
  • Paolo Guenzi, Il marketing dell’ignoranza. Un prodotto Made in Italy di straordinario successo

Archivi

Categorie

  • Articoli
  • Interviste
  • Recensioni
  • Senza categoria

Meta

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Proudly powered by WordPress

Questo sito utilizza i cookie per migliorarne l'esperienza d'uso. Continuando la navigazione l'utente ne accetta l'uso in conformità con le nostre linee guida.