• Bio
  • Contatti
  • Curriculum

Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

Archivi della categoria: Articoli

Bosnia Erzegovina: guerra etnica, genocidio, responsabilità internazionali e processo di pace. A che punto siamo?

21 giovedì Ott 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

articolo, BosniaErzegovina, genocidio, guerraetnica

Il giorno 8 giugno 2021 il Tribunale dell’Aja ha confermato in appello la condanna all’ergastolo per Ratko Mladic, ex capo militare dei serbi in Bosnia. Le accuse sono riferibili al massacro di Srebrenica, all’assedio di Sarajevo e a quanto accaduto in almeno altre quindici cittadine della Bosnia-Herzegovina. Tutti gli episodi sono ascrivibili al conflitto armato in Bosnia del 1992-1995. 

Il 22 novembre 2017 Mladic era stato condannato all’ergastolo, in primo grado, dal Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (TPIY) per genocidio, crimini contro l’umanità (persecuzione, omicidio, sterminio, deportazione, atti disumani), crimini di guerra (omicidio, atti di violenza volti a diffondere il terrore tra la popolazione civile, attacchi illegali a civili, presa di ostaggi). 

Anche in questo caso, come già accaduto per il genocidio in Ruanda, la comunità internazionale e le Organizzazioni Unite vengono chiamate in causa come corresponsabili per non essere state in grado di evitare che accadesse. Ma qual è stato realmente il ruolo svolto dagli attori internazionali?

GENOCIDIO E ANNIENTAMENTO DI GENERE

La difesa di Mladic ha sempre dichiarato di aver provato “in maniera inequivocabile” che a Srebrenica non si è trattato di massacro e che le vittime sono da imputarsi a scontri. Affermando inoltre che l’ex comandante nulla aveva a che fare con il genocidio. 

I processi a carico di Mladic e Radovan Karadzic, ex Presidente della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina, sono stati molto simili, nei capi di imputazione come nella loro evoluzione. Il 24 marzo 2016 il TPIY condannò Karadzic a quaranta anni di carcere per le atrocità commesse a Srebrenica, per l’assedio di Sarajevo e per le uccisioni, deportazioni e torture avvenute in tutto il territorio della Bosnia-Erzegovina durante la guerra del 1992-1995. Nel marzo del 2019 la Corte di Appello commutò la pena in ergastolo. 

Entrambi hanno ricevuto una condanna per crimini contro l’umanità per i fatti accaduti nel territorio della Bosnia-Erzegovina e per genocidio riguardo quanto accaduto a Srebrenica. 

Il 12 luglio 1995, alla resa di Srebrenica, le forze militari serbo-bosniache, capitanate dai generali Mladic e Krstic, invitarono la popolazione civile ad abbandonare il compound e raggiungere la zona all’esterno, dove ad attenderli vi erano degli autobus. 

Furono separati i maschi di età compresa tra i 12 e i 77 anni dalle femmine e dai bambini. Stando ai resoconti e ai racconti, solo a quest’ultimi fu consentito di salire sui mezzi e lasciare la città. Quanto accadde nelle successive 72 ore sembrò essere un genocidio organizzato attuatosi con lo sterminio scientifico di migliaia di uomini. Con l’aggravante che Srebrenica era e si trovava all’interno di una zona sicura, il cui scopo prioritario era proprio proteggere i civili dalconflitto.

COMUNITÀ INTERNAZIONALE E ONU: MEA CULPA VALE COME AUTOASSOLUZIONE?

Nel Rapporto del 1999 delle Nazioni Unite su quanto accaduto in Bosnia-Erzegovina durante il conflitto armato, l’allora Segretario Generale Kofi Annan ha affermato che «è stato un errore, un giudizio errato e l’incapacità di riconoscere la portata del male che si aveva dinanzi, la causa per cui l’Onu non è riuscita a fare bene la sua parte e mettere in salvo il popolo di Srebrenica dalla campagna serbo-bosniaca di omicidi di massa».1

Nella Raccomandazione 5812 del 1996 sulla situazione nella ex-Jugoslavia si legge che l’Assemblea Parlamentare dell’Unione Europea Occidentale si dichiara:

  • Profondamente turbata per la facilità con cui i Serbi di Bosnia hanno potuto impadronirsi dei Caschi Blu delle Nazioni Unite per tenerli in ostaggio e rubare armi e materiali posti sotto la loro vigilanza.
  • Costernata perché la comunità internazionale sembra impotente a impedire ai Serbi di Bosnia di continuare a massacrare le popolazioni civili nelle zone di sicurezza (come nel caso dell’attacco di Tuzla e dei bombardamenti su Sarajevo).
  • Consapevole dell’impotenza della comunità internazionale a far mantenere il cessate il fuoco preventivamente convenuto (come nel caso della regione della Krajina).
  • Rammaricata per la totale mancanza di iniziativa da parte del Consiglio dell’UEO (Unione Europea Occidentale), malgrado l’impegno preso dai governi membri con la Dichiarazione di Petersberg in materia di gestione delle crisi.
  • Stupita del fatto che, malgrado l’operazione Deny Flight, le autorità dell’Onu hanno rilevato, fino all’aprile 1995, oltre 4.290 violazioni dell’interdizione di voli militari nello spazio aereo della Bosnia-Erzegovina.

Nel medesimo documento viene anche ribadito che con la Risoluzione 836 del 1993 il Consiglio di Sicurezza aveva conferito alla Unprofor un mandato ampio, che le permetteva di ricorrere alla forza al fine di proteggere efficacemente le zone di sicurezza in Bosnia-Erzegovina. 

La Forza di protezione delle Nazioni Unite (Unprofor – United Nations Protection Force) si componeva di 38.599 militari, inclusi 684 osservatori militari Onu, 803 poliziotti, 2.017 collaboratori civili internazionali e 2.615 locali. 

Il 10 settembre 2008 la Corte Nazionale Olandese ha sentenziato la non responsabilità dello Stato per la condotta dei caschi blu olandesi presenti a Srebrenica, indicando come unica responsabile in sede di risarcimento l’Onu. La sentenza fa riferimento alla causa promossa da Hassan Nuhanović volta a ottenere un risarcimento per l’uccisione del padre, della madre e del fratello minore i quali avevano cercato rifugio e protezione nel compound di Srebrenica protetto dai caschi blu olandesi.3

In seguito ai risultati emersi da uno studio condotto dal National Psychotrauma Center il governo olandese ha disposto, nel febbraio 2021, un risarcimento per i veterani caschi blu olandesi che operavano a Srebrenica, Potočari, Simin Han, Zagabria e in qualunque altro posto in Bosnia durante i fatti del 1995. L’indennizzo è stanziato a titolo di risarcimento per la mancanza di sostegno, riconoscimento e rispetto cui sono stati sottoposti i militari. 4

PERCHÈ SI È TRATTATO DI UN TERRIBILE GENOCIDIO

La sentenza di primo grado del novembre 2017 ha condannato Mladic all’ergastolo per il contributo e la partecipazione a 4 Joint Criminal Enterprises volte alla persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, trasferimento forzato e inumano di popolazioni, attacco alla popolazione civile e presa in ostaggio di personale Onu. Per i fatti di Srebrenica fu accusato di genocidio. Accusa che invece decadde riferita alla generalità delle azioni compiute durante la guerra. 

La sentenza in appello del giugno 2021 invece lo condanna per tutti gli 11 capi d’accusa, compreso quindi il genocidio riferito al complesso delle azioni criminali avute luogo in Bosnia tra il 1991 e il 1995.5

In caso di genocidio, l’intenzione non deve necessariamente presupporre la premeditazione dell’atto da parte dell’esecutore, bensì l’esistenza di un piano, di cui l’esecutore è a conoscenza. Deve quindi esistere un nesso tra l’atto individuale e l’azione collettiva, l’atto criminale deve essere collocabile in un contesto di violenze sistematiche e dettagliate.6

Una parte delle incriminazioni contro l’ex presidente jugoslavo Milosevic parlava di «partecipazione a un’organizzazione criminale il cui scopo era il trasferimento forzato e permanente fuori dalla Bosnia dei non serbi».7

Nei discorsi, riportati nella sentenza di condanna, Karadzic affermava che serbi, croati e musulmani non erano fratelli e mai avrebbero potuto convivere in uno stato democratico, essendo come l’olio e l’acqua che mai si mescolano («we are really something different, we should not hide that. We are not brothers. We are three cultures, three people and three religions. […] They lived together only when occupied or under a dictatorship»). Nel disegno della Grande Serbia non sembrava proprio esserci spazio per i Bosniaci musulmani, che dovevano quindi essere trasferiti tutti fuori dal territorio serbo-bosniaco, progetto iniziato ancor prima del conflitto armato. 

SERBI, CROATI E MUSULMANI SONO DAVVERO IMPOSSIBILITATI ALLA PACIFICA CONVIVENZA?

L’Accordo di Dayton, siglato nel novembre 1995, prevedeva la suddivisione del territorio della Bosnia in due distinte entità statali: la Federazione Croato-Musulmana e la Repubblica Serba. La divisione etnica permane sia nella struttura della Presidenza (un organismo collegiale composto da tre membri eletti dalle rispettive nazionalità), sia nella struttura del Parlamento con Camera dei popoli e Camera dei rappresentanti i cui seggi sono tripartiti in misura eguale. 

La struttura tripartita persiste ancora oggi e, se da un lato appare studiata per far convergere interessi e diritti di tutti, dall’altro sembra alimentare essa stessa rivendicazioni e odio etnico. Un sistema che, dietro le rivendicazioni territoriali e le questioni infrastrutturali ed economiche, sembra voler celare il fallimento della ricostruzione post-bellica e una forte crisi identitaria generalizzata. 

Fanno sempre molto discutere le dichiarazioni di Milorad Dodik, membro serbo della presidenza tripartita. Il quattro ottobre 2021 ha annunciato l’intenzione di voler revocare il consenso all’esercito congiunto, dichiarazione che lascia presupporre l’intenzione di voler creare un’armata indipendente da quella federale. Lo scorso luglio l’ex Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina, Valentin Inzko, ha fatto approvare una legge che vieta la negazione del genocidio di Srebrenica. Resasi necessaria proprio per l’insistente reticenza di tanti ad ammettere l’accaduto. 

Il Paese continua ad essere frammentato a causa delle tensioni interetniche e da un sentimento di appartenenza basato principalmente sull’etnia. Eppure, a ben guardare, sono diversi i punti in comuni o che accomunano le tre principali etnie. Non da ultimo la vicinanza lessicale tra i vari idiomi parlati che sembrano varianti dialettali di un’unica lingua, eppure formalmente in Bosnia esistono tre lingue ufficiali (bosniaco, serbo e croato). In più i giovani di ciascun gruppo etnico tendono, o sono indotti, a frequentare corsi scolastici separati, nei quali vengono insegnate differenti versioni della storia del Paese e delle cause stesse della guerra civile.8

Nonostante l’impegno profuso da tutte le maggiori organizzazioni internazionali, che ne hanno sostenuto il processo di riconciliazione, securitizzazione e di state-building anche nella prospettiva di una stabilizzazione e di una europeizzazione dell’intera regione balcanica, la Bosnia non sembra essere riuscita a superare i vincoli ingenerati dalla architettura istituzionale stabilita dal trattato di Dayton.9


1https://www.securitycouncilreport.org/atf/cf/%7B65BFCF9B-6D27-4E9C-8CD3-CF6E4FF96FF9%7D/a_549_1999.pdf

2https://www.parlamento.it/service/PDF/PDFServer/BGT/758487.pdf

3https://unipd-centrodirittiumani.it/it/news/Sentenza-del-tribunale-civile-dellAja-Paesi-Bassisul-caso-Nuhanovi263-Vs-Olanda/1098

4https://www.defensie.nl/actueel/nieuws/2021/02/10/defensie-neemt-aanbevelingen-dutchbat-commissie-over

5https://www.notiziegeopolitiche.net/bosnia-erzegovina-srebrenica-lirmct-conferma-lergastolo-per-ratko-mladic/

6Il genocidio fra memoria, diritto e manipolazione politica, Human Security n.9 , maggio 2019, T.wai e Università degli Studi di Torino.

7https://www.repubblica.it/online/mondo/slobodantre/condannato/condannato.html

8Dossier I Balcani tra orizzonte europeo e tensioni interetniche. I casi di Bosnia-Erzegovina e Macedonia, Approfondimento a cura di Giordano Merlicco – IAI (Istituto Affari Internazionali), Osservatorio di Politica Internazionale, n°9 marzo 2010.

9Nota Il percorso di stabilizzazione nei Balcani occidentali: i casi di Bosnia Erzegovina, Serbia e Kosovo, a cura di Giuseppe Dentice, Osservatorio di Politica Internazionale, n°70 – novembre 2016

Articolo disponibile anche qui


Disclosure: Per le immagini credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

Ruanda: il genocidio con tanti complici e pochi responsabili


© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Ruanda: il genocidio con tanti responsabili e pochi complici

27 domenica Giu 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

Africa, articolo, genocidio, Ruanda

Il 27 maggio 2021 il presidente francese Emmanuel Macron si è recato in Ruanda e, nel corso della visita al Genocide Memorial di Kigali, ha ammesso le responsabilità del governo francese che, nel 1994, aveva inviato nel Paese africano i militari della missione Turqoise, operativa tra giugno e agosto di quell’anno. Sono oltre venticinque anni che i rapporti tra i Paesi sono tesi proprio in conseguenza agli eventi di quel periodo storico e al ruolo, mai chiarito fino in fondo, svolto dalla Francia. Primo presidente a recarsi in Ruanda dal 2010, Macron ha dichiarato che la Francia ha deluso le 800mila vittime del genocidio ma che non vi è stata alcuna complicità imputabile al suo Paese. Il presidente Paul Kagame è parso soddisfatto per le parole di Macron, mentre dissensi e malumori hanno caratterizzato la reazione del partito di opposizione Rwandese Platform for Democracy e delle associazioni a sostegno dei familiari delle vittime del genocidio.

IL QUARTO GENOCIDIO DEL XX SECOLO

Ma cosa è accaduto esattamente in Ruanda nel 1994? Il quarto genocidio del XX secolo, dopo quello degli armeni, degli ebrei e dei cambogiani. 1

All’indomani del Secondo conflitto mondiale, le idee indipendentiste iniziarono a circolare lungo tutto il continente africano. Anche in Ruanda, dove si diffusero maggiormente tra la popolazione di etnia tutsi. Gli hutu si mostrarono invece sempre più nazionalisti e restauratori. Col tempo emerse una vera e propria ideologia dell’ingiustizia sociale su base etnica: gli hutu erano la maggioranza oppressa mentre i tutsi erano i nuovi potenziali oppressori. 

Gli scontri su base etnica e politica si sono susseguiti lungo tutta la seconda metà del secolo ma il periodo cruciale della recente storia del Ruanda si snoda tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta. 

Il costante rifiuto del presidente ruandese Habyarimana di prendere in considerazione qualsiasi proposta di rientro dei profughi tutsi in Uganda aveva inasprito i toni delle rivendicazioni degli stessi, riunitisi nel Fronte Patriottico Ruandese (Front Patriotique Rwandais). Gli scontri tra l’Fpr e l’esercito regolare, sostenuto dalla guardia regolare dello Zaire e da aiuti provenienti da Belgio e Francia, divennero sempre più frequenti e sanguinosi. 

L’Fpr rappresentava, nell’immaginario del tempo, il vento nuovo della democrazia e della lotta al neocolonialismo impersonato invece da Habyarimana. Il nuovo comandante del Fronte, Paul Kagame, oggi presidente della Repubblica di Ruanda, era considerato esponente di rilievo della dottrina dell’Africa Renaissance, ostile al vecchio sistema di corruzione e favorevole a democrazia e liberismo economico. 

Nel Paese furono ripristinati vecchi metodi, già utilizzati al tempo della Prima Repubblica: ad ogni attacco del Fronte Patriottico Ruandese si rispondeva con un massacro di cittadini tutsi.

Il conflitto e il genocidio che hanno travolto il Ruanda nel 1994 rappresentano l’emblema drammatico delle guerre etniche africane. Un numero elevatissimo di vittime in poco più di due mesi, quasi tutti tutsi ma anche oppositori hutu.

È stato calcolato che circa trentadue mila responsabili amministrativi di ogni livello, coadiuvati da circa cinquanta mila miliziani interahamwe, dirigessero le operazioni di genocidio, mentre l’esercito regolare era occupato ad affrontare l’Fpr.

Il 6 aprile 1994, l’abbattimento dell’areo sul quale viaggiava il presidente Habyarimana, di ritorno dal vertice tenutosi a Dar es Salaam per favorire un accordo di pace che includesse anche l’Fpr nel nuovo governo di unità nazionale, sembrò essere il segnale atteso per dare il via al cruento genocidio consumatosi, a partire dalla città di Kigali, in tutto il Paese.

Le vittime furono centinaia di migliaia in poche settimane, ma l’emergenza internazionale scattò tardi, solo quando quasi un milione di ruandesi si spostò verso lo Zaire per cercare riparo. È a questo punto che partì l’operazione francese Turqoise, ufficialmente per evitare un ennesimo e finale bagno di sangue. In realtà si suppone che lo scopo principale di questa missione, al pari di quella posta in essere dal Belgio, sia stato mettere in salvo i propri connazionali. Anche se si è sempre vociferato un intervento militare francese al fianco delle milizie hutu in ritirata dopo l’arrivo del Fpr. I caschi blu dell’Onu presenti da tempo nell’area con l’operazione Unamir – United Nations Assistance Mission for Rwanda (Missione delle Nazioni Unite di assistenza al Ruanda), autorizzata nell’ottobre 1993 con la Risoluzione 872 e successivamente riconfermata e ampliata, non erano autorizzati a intervenire perché frenati da un mandato che impediva loro l’uso delle armi. Lo scopo principale della missione era supportare e implementare il cammino di pace sancito dagli Accordi di Arusha. Il grosso del contingente si ritirò subito dopo l’esplosione delle violenze. I militari belgi che ne facevano parte furono addirittura accusati di essere complici nell’abbattimento dell’areo del presidente e, alcuni di loro, uccisi.

IL NAZISMO TROPICALE

Il genocidio in Ruanda e il conseguente spostamento in massa di ruandesi oltre il confine, ha aperto una fase di grande instabilità in tutta l’area africana dei Grandi Laghi e, con un intervallo di pochi anni, divenne il detonatore della più grande guerra africana, consumatasi nello Zaire di Mobutu.

A partire dall’ottobre del 1994 il conflitto tra autoctoni zairesi e banyarwanda si trasformò in una guerra di tutti contro i tutsi. Tra il 1995 e il 1996 decine di migliaia di tutsi furono uccisi, ebbero le terre confiscate oppure dovettero rifugiarsi in Ruanda. Anche in questo caso si è parlato di pulizia etnica. Nazismo tropicale è stato definito dallo storico Jean-Pierre Chrètien. 2

Poco hanno fatto o potuto i tribunali costituiti dall’Onu, come anche quelli definiti popolari, i Gacaca. Tradizionali tribunali informali nei quali gli anziani erano solitamente chiamati a dirimere controversie di vita quotidiana, i Gacaca furono autorizzati nel 2001 dal governo ruandese a operare in via ufficiale.

Nel loro articolo apparso su African Affairs, Allison Corey e Sandra F. Joireman cercano di dimostrare come, in realtà, i Garaca, istituiti per recuperare l’arretrato di casi di genocidio non processati, abbiano poi in un certo qual modo ingenerato ulteriore confusione e imprecisione. Questi tribunali infatti avrebbero effettuato una eccessiva e troppo netta suddivisione tra i casi di genocidio e quelli di crimini di guerra, processando solo i primi. Ciò ha portato a una protratta insicurezza per tutta la popolazione ruandese, poiché così facendo si persegue una giustizia iniqua, si accentua il divario etnico e il processo viene visto più come una vendetta che una giustizia. 3

È necessario comunque sottolineare come, della terminologia connessa al genocidio, si tende a fare un uso politico sempre più strumentale – nel bene e nel male. Fenomeno più o meno simile a quanto accade, più in generale, con la terminologia dei diritti umani. Importante quindi precisare quale sia l’effettiva portata normativa della nozione di genocidio, quale sia cioè lo specifico giuridico di tale concetto. 4

Il valore giuridico tutelato dal primo paragrafo della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine internazionale di genocidio adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948 con Risoluzione 260 (III) A, risulta essere la conservazione del gruppo umano. Colpire una massa di individui per motivi diversi dal mero fatto di appartenere a quel gruppo umano protetto (per esempio per motivi politici), non costituirebbe genocidio.

Ecco allora che bisogna chiedersi, per esempio, se per gli esecutori materiali sia davvero possibile parlare del medesimo dolo di cui è portatore il leader, la mente, che ha premeditato, pianificato e scatenato le azioni violente e delittuose. È indubbio che il genocidio sia un crimine collettivo. Per questo i tribunali internazionali indicano una sorta di “intento genocidiario collettivo”, pensato dai leader ma trasmesso poi a tutti gli agenti. Ma questa indicazione manca nella Convenzione.

Paolo De Stefani individua tre livelli di mens rea:

  • I leader della campagna genocidiaria.
  • Gli esecutori partecipi all’ideologia genocidiaria.
  • I complici (aiders and abettors).

Individuando poi nella seconda categoria la più significativa. Infatti, è proprio quando l’ideologia genocidiaria diventa una convinzione diffusa tra larghe fasce di popolazione, e cioè quando si affermano apertamente nel tessuto sociale comportamenti diffusi di carattere genocidiario, che un genocidio si attua nella sua forma più piena. Esattamente quello che è accaduto in Ruanda nel 1994.

Il 2 settembre 1998 il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, istituito dalle Nazioni Unite, emanò la prima condanna a livello mondiale per il reato di genocidio. Jean-Paul Akayesu fu giudicato colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità per le azioni che aveva commesso personalmente o alle quali aveva sovrinteso mentre era sindaco della città ruandese di Taba. Sebbene dapprima egli era riuscito a tenere lontani i massacri, dopo una riunione con i leader del governo provvisorio, avvenuta il 18 aprile, qualcosa cambiò profondamente nella cittadina e anche, sembrerebbe, nella sua persona. Akayesu smise i panni civili, indossò una divisa militare e sembrò fare della violenza il suo nuovo modus operandi, al punto da trasformare quelli che erano stati luoghi tranquilli e sicuri fino a quel momento in luoghi di tortura, violenza e omicidio.

Sconta la condanna all’ergastolo in una prigione del Mali. 5

Durante la visita a Kigali, il presidente francese Macron non si è mai apertamente scusato, per le azioni del suo Paese, pur ammettendo le responsabilità per quanto accaduto. La Francia quindi è pronta a riconoscere la parte di sofferenze che ha inflitto ai ruandesi ma ciò non significa, secondo le parole di Macron, che sia stato versato sangue innocente ruandese per mano di complici francesi.

Di scuse dirette, come quelle esternate già nel 2000 dal Belgio, non se ne parla. Ma è un altro passaggio del discorso del presidente francese a meritare un approfondimento, ovvero quando si sofferma sull’importanza di riconoscere questo passato ma, soprattutto, proseguire l’opera di giustizia. Ecco allora che la mente rimanda ai tanti ruandesi riparati in Francia e al ruolo che alcuni potrebbero aver avuto nel massacro.

Il 16 maggio 2021, dopo ventisei anni vissuti in latitanza in diversi paesi europei, è stato arrestato in Francia Félicien Kabuga, presunto finanziatore del genocidio del 1994, accusato dal Tribunale Penale Internazionale per crimini contro l’umanità e genocidio nel 1997.

CRISI POLITICA E CONFLITTO ETNICO: A CHE PUNTO SIAMO?

In età recente, quattro sono state le fasi acute del conflitto che ha infiammato il Ruanda:

  • L’accesso all’indipendenza tra il 1959 e il 1962.
  • La crisi dei rifugiati tra il 1963 e il 1966.
  • La crisi esplosa tra il 1972 e il 1973 culminata nel colpo di Stato.
  • La crisi esplosa tra il 1990 e il 1994, culminata nell’atroce genocidio.

Tutte queste crisi sono imputabili alle ideologie derivanti dalla diversità etnica, che hanno reso il Ruanda l’archetipo del paese tribale agli occhi del mondo.

All’arrivo dei tedeschi, sul limitare del XIX secolo, la società e la monarchia ruandesi erano un sistema feudale in piena evoluzione. I colonizzatori si limitarono inizialmente a congelare la situazione preesistente. Anche il Belgio dapprima attuò una forma di governo indiretto, ma poi manovrò per scaricare il malcontento sul prestigio della monarchia feudale, attuando de facto una separazione tra il re e i capi collina tutsi. Un numero sempre più alto di giovani tutsi venne scelto dai colonizzatori per le cariche amministrative e come capi villaggio o capi collina.L’intervento europeo sulla società feudale del Ruanda aveva trasformato i rapporti sociali, indurendoli attraverso gerarchie d’importazione e contribuendo in maniera cospicua alla loro razzializzazione. 6

Gli hutu erano circa l’84 per cento della popolazione, i tutsi il 14 e il restante 1 per cento era composto dai twa pigmei.

Una ricerca condotta a Bruxelles tra il 2001 e il 2003 presso le comunità di rifugiati ed esuli ruandesi ha mostrato come la questione identitaria sia stata ulteriormente acutizzata proprio a causa della condizione di popolo in diaspora. Molti dei ruandesi residenti in Europa, in America o altrove, si sentono sopravvissuti tutsi del genocidio ruandese, oppure ingiustamente stigmatizzati come carnefici hutu. In entrambi i casi, la percezione che hanno di loro stessi, del Ruanda e degli assassini dei loro familiari è molto più etnica di quanto non lo fosse in passato. 7

In Ruanda invece la presidenza Kagame ha sempre dichiarato di voler sopprimere l’appartenenza etnica, in linea con le idee del nazionalismo africano convenzionale, che condivide e condivideva con quello più radicale la volontà di de-razzializzare le istituzioni, lo Stato e il diritto.8

1Mario Giro, Guerre Nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020

2Jean-Pierre Chrètien, Un “nazisme tropical” au Rwanda? Image ou logique d’un génocide (articolo), Vingtième Siècle. Revue d’histoire, Anno 1995, pp. 131-142.

3Allison Corey, Sandra F. Joireman, Retributive Justice: The Gacaca Courts in Rwanda (articolo), African Affairs, 2004, pp. 73-89.

4Paolo De Stefani, Nozioni e contesti del crimine internazionale di genocidio (articolo), Pace Diritti umani – Peace Human Right, 1/2008, pp. 31-56.

5Ruanda: La prima condanna per genocidio, United States Holocaust Memorial Museum. ( https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/rwanda-the-first-conviction-for-genocide )

6Mario Giro, ibidem

7Carla Pratesi Innocenti, Ibuka. Pratiche, politiche e rituali commemorativi della diaspora ruandese, Annuario di Antropologia 5, 2005, pp. 121-133.

8Stefano Bellucci, Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a sud del Sahara, Carocci Editore, Roma, 2010.

_____________________________________________________________________________

Articolo disponibile anche qui

_____________________________________________________________________________

Disclosure: Per le immagini, tranne lo screenshot del tweet, credits www.pixabay.com

______________________________________________________________________________

LEGGI ANCHE

Guerre, radicalismo e jihad nell’Africa contemporanea

La Grande guerra africana: dallo Zaire al Congo

L’Altra-Africa: come l’Afromodernità sta diventando una condizione globale

Ognuno guarda il mondo convinto di esserne il centro: Razzismi e Identità

______________________________________________________________________________

© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Movimenti per i diritti civili degli afroamericani: da Black Panther a Lives Matter

24 giovedì Giu 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

BlackLivesMatter, BlackPanther, BlackPantherParty, BLM

Quest’anno ricorre il centenario del massacro di Tulsa, avvenuto tra il 31 maggio e il 1 giugno 1921. Le violenze iniziarono allorquando un gruppo di uomini bianchi circondarono la prigione ove era rinchiuso un ragazzo nero per l’accusa di aggressione ai danni di una giovane donna bianca. 

Gli scontri, tra il gruppo di uomini bianchi e quello dei neri accorsi in difesa del giovane afroamericano Dick Rowland, si svolsero nel quartiere di Greenwood, abitato da una comunità di circa dieci mila persone e ricco di negozi e ristoranti di proprietà degli afroamericani. 

Le vittime stimate furono nell’ordine di circa trecento, ingenti i danni economici e migliaia le persone rimaste senza un’abitazione. Numerosi infatti furono gli incendi che devastarono gran parte del quartiere. 

La visita del presidente Joe Biden, l’inaugurazione del museo Greenwood Rising e altri eventi legati alla commemorazionehanno rinvigorito il dibattito e gli scontri sui tragici eventi di cento anni fa. 

Ben intenzionati a cogliere l’occasione dell’attenzione mediatica cresciuta in maniera esponenziale sembrano essere i gruppi che si definiscono New Black Panther con manifestazioni e cortei a favore del Secondo Emendamento e sull’uso, per loro legittimo, delle armi. 

È bene però precisare, a questo punto, che, nonostante il nome possa ingannare, il movimento New Black Panther Partynulla ha a che vedere con l’originale i cui ex membri lo hanno sempre indicato come illegittimo e definito «un gruppo che fomenta l’odio». 

Il movimento BPP, originariamente chiamato Black Panther Party for Self-Defence, nasce ufficialmente a Oakland, in California, nel 1966 per opera di Huey P. Newton e Bobby George Seale. Lo scopo dichiarato era sviluppare ulteriormente il movimento di liberazione degli afroamericani e la sempre maggiore conquista dei diritti civili, sull’onda del rapido sviluppo in tal senso ad opera degli attivisti Malcom X e Martin Luther King. Dai quali comunque si distinsero fin dalle origini per il rifiuto della nonviolenza, principio a cui sostituirono quello della autodifesa – self-defence appunto – e la pratica del Patrolling consistente nel pattugliare le strade allo scopo di vigilare sull’operato della polizia, scoraggiandola così dall’intraprendere comportamenti violenti e abusanti nei confronti delle persone nere. 

L’obiettivo delle black panther era il radicamento sociale e territoriale. Numerosi furono i programmi a favore della comunità: dalla colazione per i bambini all’assistenza sanitaria fino alla scuola di educazione politica per gli adulti. 

Anche per questo, forse, ben presto finirono nel mirino dell’FBI che, con l’uso di agenti sotto copertura, blitz nelle sedi, arresti e varie forme di repressione, riuscì a spaccare il movimento. 

Sul numero 2/2006 di Gnosis sono stati inseriti i documenti confidenziali del Rapporto FBI sul Black Panther Party . Nell’articolo, a firma di Maurizio Molinari, sono riportate per esteso le strategie poste in essere dall’agenzia americana con lo scopo di contrastare il movimento con una vasta e articolata operazione di intelligence. 

Molto ricorrente nelle pubblicazioni dell’organizzazione è l’attacco alla polizia, la denuncia delle violenze subite per mano dei poliziotti e, anche, l’invito ad armarsi e difendersi. 

Ripercorrendo la storia dei movimenti e delle lotte per i diritti civili degli afroamericani ricorre spesso, o comunque viene dagli stessi citata, la violenza da parte dei poliziotti ai danni di civili neri. 

Il recente movimento Black Lives Matter (BLM) è sorto proprio come protesta contro gli omicidi di persone nere da parte della polizia. Il movimento è sorto nel 2013 ma è stato in seguito all’assassinio di George Floyd nel 2020 che esso ha riscosso maggiore attenzione a livello internazionale. 

Sul sito si presentano come una rete che opera a livello globale allo scopo di ridurre, se non proprio eliminare, la supremazia dei bianchi, e costruire una voce, un potere, che possa agire contro le violenze perpetrate ai danni della comunità dei neri.

Pochi giorni fa, il 24 maggio, è stata gravemente ferita una tra le figure più note del movimento Black Lives Matter del Regno Unito, Sasha Johnson. Un comunicato ufficiale del movimento ha descritto l’accaduto come una violenza giunta dopo numerose minacce di morte a causa proprio del suo attivismo politico. Mentre Scotland Yard ha dichiarato che l’episodio è legato a una sparatoria tra gang rivali e nel quale l’attivista sarebbe rimasta coinvolta per errore, a causa di una tragica fatalità. 

Anche Sasha Johnson, soprannominata la Pantera Nera di Oxford, nei suoi discorsi pubblici, si è più volte scagliata contro la violenza della polizia. 

Subito dopo l’uccisione di George Floyd, Amnesty International lancia una campagna denuncia e una raccolta firme per fermare gli abusi della polizia negli Stati Uniti, cercando di porre l’attenzione su cinque punti focali:

  • Nessuno degli Stati è conforme alle leggi e agli standard internazionali sull’uso letale della forza da parte della polizia.
  • La maggior parte dei decessi per mano della polizia è il risultato di un’azione di un agente che ha usato un’arma da fuoco.
  • In molti casi, gli agenti hanno sparato più volte alle persone.
  • Secondo Mapping Police Violence nel 2019 i neri erano il 24% delle persone uccise dalla polizia, nonostante siano solo il 13% della popolazione totale. 
  • Una legge del 1996 ha autorizzato il Dipartimento della Difesa a fornire un surplus di attrezzature alle forze dell’ordine. Con il risultato che queste sono in possesso di attrezzature progettate per uso militare. 

Per Amnesty International, come anche per altre organizzazioni della società civile, andrebbero:

  • Approvate leggi per limitare l’uso della forza letale da parte della polizia.
  • Raccolti e pubblicati dati dettagliati e disaggregati sulle persone uccise dalla polizia.
  • Avviate indagini complete, indipendenti, imparziali e trasparenti ogni qual volta si verifichi un caso di uso letale della forza da parte della polizia.
  • Indagati, da parte del Dipartimento di giustizia, i poliziotti che hanno violato i diritti umani.

In mancanza di dati ufficiali esatti, soggetti privati cercano di mantenere aggiornate le statistiche. Lo fanno i giornalisti del Washington Post con Fatal Force oppure i progetti privati Fatal Encounters e Mapping Police Violence. Quest’ultimo in particolare rende fruibili pubblicamente i dati raccolti. Il primo giugno risultano 429 omicidi da parte della polizia nel 2021. 

Roland G. Freyer Jr, professore di economia ad Harvard, ha pubblicato su NBER (National Bureau of Economic Research) un working paper nel quale analizza l’eventuale corrispondenza tra l’origine etnica della vittima e la violenza perpetrata dalla polizia americana. Lo studio porta infatti l’emblematico titolo: An empirical analysis of racial differences in police use of force. 

La ricerca ha dimostrato che le persone nere, uomini o donne che siano, vengono trattati in modo molto più brutale da parte degli agenti di polizia, ovvero è più facile e comune che siano strattonati, ammanettati, spinti a terra, rispetto a quanto accade in presenza di fermati bianchi, uomini e donne. Ma, quando si tratta di sparatorie, con particolare riferimento alla città di Houston, la polizia sembra agire senza un evidente pregiudizio razziale: bianchi e neri vengono uccisi con la stessa frequenza. 

Tuttavia ci sono dei limiti alla ricerca condotta da Fryer che evidenzia egli stesso, ovvero il fatto che si tratta di dati parziali e di informazioni relative a quanto accade dopo il fermo e l’arresto, non ci sono indagini precise sulle probabilità e su quanto accade in precedenza al fermo. 

Nel suo studio su Democrazia, schiavitù e razzismo negli Stati Uniti, Marco Sioli, professore associato di Storia dell’America del Nord all’Università di Milano, analizza in dettaglio l’attualità di Frederick Douglass e il movimento Black Lives Matter. 

In tanti, all’interno dell’universo attivista afroamericano, si sono ispirati a Douglass e ai suoi insegnamenti, non da ultimo il presidente Barack Obama, ma tra tutti la persona che ha fatto propri i suoi pensieri, è stata Angela Davis, attivista e tra i membri più noti del Black Panther Party, la quale lo ha definito «il più importante abolizionista nero del paese e, nella sua epoca (1818-1895, ndr), anche tra i più eminenti sostenitori maschili dell’emancipazione delle donne». Davis, come molti attivisti prima di lei, hanno fatto proprio il motto di Douglass: «Il mio ruolo è stato di raccontare la storia dello schiavo. Per la storia del padrone non sono mai mancati i narratori».

Nel suo discorso pubblico a Rochester il 5 luglio 1852, Frederick Douglass aveva parlato del bisogno di fuoco per sovvertire lo stato di cose che opprimeva gli afroamericani. «Non abbiamo bisogno di luce, ma di fuoco» furono le esatte parole. Lo stesso fuoco cui si appellò l’intellettuale nero James Baldwin quando nel 1963 scrisse Next Time Fire (“La prossima volta il fuoco”).

E il fuoco arrivò, nel 1965, con la rivolta razziale per le strade di Watts, a Los Angeles, in conseguenza del fermo di un automobilista afroamericano da parte di una pattuglia di poliziotti bianchi. Più violenta delle proteste precedenti a New York, Philadelphia e Rochester. Una protesta cui seguirono numerose rivolte che si protrassero per tutti gli anni Sessanta. 

I fermi, gli arresti e le violenze c’erano stati anche in precedenza e ci sono stati anche dopo. Esattamente come oggi. I fermi, gli arresti, le violenze e gli omicidi non si sono mai fermati, neanche durante la presidenza Obama. Tant’è che proprio quando c’era lui alla Casa Bianca si è formato il movimento Black Lives Matter. E allora perché in alcuni periodi le proteste si scatenano e la violenza sembra diventare incontenibile?

Una lettura del fenomeno potrebbe essere legata al clima di odio e restaurazione che si viene a creare, o si lascia intendere di volerlo fare, da esponenti politici o membri influenti delle rispettive comunità. Per i disordini conseguenti l’assassinio di George Floyd, per esempio, si potrebbe ipotizzare una motivazione legata non solo al singolo tragico accadimento ma anche e soprattutto al clima teso ingenerato dalle politiche razziali e reazionarie del presidente Trump. 

Evidente che in quel periodo il sogno afroamericano di vedere realizzata l’America post-razziale di Obama era ormai svanito da tempo. 

Nel discorso pronunciato il primo giugno 2021 a Tulsa, per il centenario dalla strage razziale, il presidente Joe Biden ha annunciato azioni mirate, da parte della sua amministrazione, volte a migliorare la condizione esistenziale della comunità nera, anche dal punto di vista economico. 

______________________________________________________________________________

Articolo disponibile anche qui

______________________________________________________________________________

Disclosure: Per le immagini, credits www.pixabay.com

______________________________________________________________________________

Teoria e pratica del lavoro sociale: “Intercultura e social work” di Elena Cabiati (Erickson, 2020)

Ognuno guarda il mondo convinto di esserne il centro: Razzismi e Identità. “Classificare, Separare, escludere” di Marco Aime (Einaudi, 2020)

Perché abbiamo lasciato che ‘i nostri simili’ diventassero semplicemente ‘altri’? “Somiglianze. Una via per la convivenza” di Francesco Remotti (Editori Laterza, 2019)

Continuare a lavorare per un mondo migliore. “L’ultima lezione” di Zygmunt Bauman (Editori Laterza, 2018)

______________________________________________________________________________

© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La Grande guerra africana: dallo Zaire al Congo

28 domenica Feb 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

Africa, Congo, RepubblicaDemocraticadelCongo, Zaire

Per gran parte del secolo scorso, lo Zaire è stato apprezzato da tutti gli africani per le sue caratteristiche di vera nazione africana, libera dai pesanti condizionamenti del colonialismo. Si pensava infatti che incarnasse l’immagine del paese davvero africano decolonizzato. 

Il presidente Mobutu era stato l’inventore della autenticità, una forma di ideologia nazionalista basata su elementi della tradizione recuperati dal passato, miscelati con uno stile nel condurre la vita civile e gli affari del paese che si proclamava libero dagli influssi culturali occidentali. 

Da qui anche la volontà di rinnegare il nome colonialista di Congo e riprendere l’autentico: Zaire. 

Malgrado le speranze, il primo periodo della decolonizzazione era stato turbolento e molto violento: in quasi sei anni di crisi, dopo la dichiarazione di indipendenza del 30 giugno 1960, il paese era piombato in una situazione di precarietà alimentare e di vasto disordine sociale. 

Già alla fine degli anni Sessanta il presidente aveva fatto del partito unico, il Mouvement Populaire de la Révolution(Mpr), il suo strumento di governo unitario e di propaganda politica.

All’inizio degli anni Settanta Mobutu diede avvio a una vasta campagna di «zairizzazione» delle risorse che si concretizzò, nel 1973, con la nazionalizzazione di tutte le maggiori imprese del paese.

Malgrado le immense risorse e ricchezze dello Zaire, una politica di redistribuzione sempre più ampia e corrotta aveva messo progressivamente a dura prova la capacità dello Stato di sopperire alle richieste dei vari gruppi di potere locali assieme ai bisogni della popolazione. Agli inizi degli anni Novanta la popolazione era ormai in uno stato di povertà cronica. 

Nell’aprile del 1990 Mobutu dichiarò la fine del partito unico e l’avvio di riforme politiche. Durante i dibattiti della Conferenza nazionale sovrana l’impegno di alcuni rappresentanti più sensibili all’avviamento di una vera democrazia si scontrava con il populismo avventurista di altri e con il riemergere di scontri etnico-politici che avevano insanguinato il paese nei primi anni Sessanta. 

Tra l’agosto del ’92 e la fine di quello stesso anno, il neo-rinsaldato partito xenofobo dello Shaba operò una vera e propria pulizia etnica contro i Kasaiani. 

Il nuovo primo ministro Kengo wa Dondo riuscì a far scendere l’inflazione – che aveva raggiunto il 20mila per cento -, a re-incrementare la produzione mineraria – crollata al 10 per cento del totale – e ristabilire un minimo ordine nella vita pubblica. 

Tuttavia, proprio in questo delicato frangente, si scaricò su uno Zaire esausto e in preda a spinte contraddittorie, l’immane flusso di oltre un milione di rifugiati ruandesi hutu.

L’entrata in scena dei profughi esportò la guerra del Ruanda in Zaire e lo travolse. 

Il governo di Kengo cercò di liberarsi di tutti i rifugiati respingendoli verso il Ruanda, in contrasto con la posizione dello stesso Mobutu che manteneva forti legami con gli estremisti hutu. La misura intendeva cogliere l’occasione per liberarsi, in un sol colpo, di tutti i banyarwanda e banyamulenge presenti in Zaire, indipendentemente dal fatto che fossero hutu o tutsi. 

Ma i campi profughi degli hutu in fuga erano ormai diventati delle vere e proprie roccaforti, dirette dalle ex forze armate ruandesi e dalle milizie interhamwe. Da quegli stessi insediamenti partivano operazioni e attacchi contro il Ruanda. 

Ne derivò anche una forte polemica nell’opinione pubblica internazionale, laddove le organizzazioni umanitarie e le agenzie dell’Onu furono addirittura accusate di complicità con gli hutu oltranzisti genocidiari. 

Dell’oltre un milione di profughi hutu, circa 600mila vennero accerchiati e ripresi dalle truppe dell’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo (AFDL) per poi essere rimandati in Ruanda. Dell’altro mezzo milione si persero quasi del tutto le tracce. 

Furono chiamati ad aderire all’Alleanza tutti i congolesi che si opponevano a Mobutu e alla sua politica. Soprattutto dal Congo centrale e occidentale, ci fu uno slancio popolare sorprendente e furono migliaia i giovani e giovanissimi che si arruolarono per partecipare alla cacciata di Mobutu. Proprio tali giovani reclute, chiamate Kadago (bambini soldato) andranno a costituire poi il grosso delle future Fac (Forze Armate Congolesi). 

Kabila si auto-nominò presidente della neonata Repubblica Democratica del Congo alla presenza dei presidenti di Ruanda, Uganda, Angola, Burundi e Zambia, i suoi alleati. Egli era ben consapevole che la maggioranza dei congolesi non era favorevole all’abolizione della legge del 1981 e alla conseguente naturalizzazione dei banyamulenge e dei banyarwandesi tutsi, così la lasciò in vigore. Tale scelta segnò l’inizio della fine della coalizione che aveva combattuto e cacciato Mobutu. 

La Grande guerra d’Africa fu il risultato di un insieme di conflitti diversi, collegati tra loro attorno al nodo centrale del confitto tra il governo di Kabila e i suoi ex alleati ruandesi. Almeno sei paesi (Ruanda, Uganda, Angola, Zimbabwe, Namibia e Ciad) si combatterono con proprie truppe sul territorio congolese. A ciò vanno sommate le varie guerriglie locali il cui computo è ancor oggi arduo. 

Così, a partire dall’epicentro congolese, tutta l’Africa centrale fu travolta, impoverendosi. 

Secondo il Programma Alimentare Mondiale, circa un terzo dei congolesi vivrebbe ancora oggi in uno stato di denutrizione e sottoalimentazione grave. 

Nel gennaio 2001, allorquando il presidente Kabila rimase vittima di un attentato posto in essere da una delle sue guardie del corpo, il parlamento, riunito in sessione straordinaria, elesse suo figlio Joseph Kabila quale suo successore. 

Fin dall’aprile di quello stesso anno iniziarono gli incontri e le mediazioni tra Kabila junior e Kagame per giungere a una soluzione. Nel dicembre 2002 si procedette alla stesura dell’Accordo globale e conclusivo con l’intermediazione dell’Onu e del Sudafrica, cui parteciparono tutti i gruppi ribelli del paese. E nel 2006, dopo quarant’anni, furono organizzate delle elezioni libere. 

La fine della guerra tuttavia non rappresentò anche la fine dei combattimenti, i quali continuavano nelle province del Kivu. Fu necessaria una rinegoziazione con il Ruanda per ottenere la fine del sostegno di Kagame alla ribellione del Cndp di Nkunda. 

Alle elezioni del 2011 Kabila junior ottenne un nuovo mandato.

Le elezioni presidenziali del 2011 si svolsero in un clima teso e di accesa mobilitazione: gruppi ed ex gruppi armati erano al soldo di chi poteva pagare e vennero diffusamente utilizzati nella campagna elettorale per intimidire avversari e intere comunità.

Anche in Congo, come prima in Liberia e in seguito nel Sahel o in Nord Mozambico, il warlordismo ha cambiato pelle ed è diventato a pieno titolo un attore del caos indotto dalla globalizzazione competitiva, nel quale soggetti di tipo molto vario concorrono per il potere e le risorse.

La realtà odierna dei gruppi armati così come delle milizie è molto diversa da ciò che fu all’inizio della crisi degli anni Novanta: ogni gruppo armato ha un suo referente a Kinshasa, un uomo politico o una personalità facoltosa che si serve del gruppo per rafforzare la propria influenza e che è, a sua volta, necessario al gruppo per proteggere le proprie rivendicazioni locali. 

Bibliografia di riferimento

Mario Giro, Guerre nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020

Disclosure

Per le immagini, credits www.pixabay.com

_____________________________________________________________________________

Articolo disponibile anche qui

_____________________________________________________________________________

LEGGI ANCHE

L’Altra-Africa: come l’Afromodernità sta diventando una condizione globale

L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018)

_____________________________________________________________________________

© 2021 – 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Il capitalismo oggi e la sua incidenza su popoli ed economie”

31 sabato Ott 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

articolo, Capitalism, capitalismo, economia, geopolitica, politica

La modernità del mondo occidentale è davvero così inscindibile dal sistema capitalistico oppure esistono, o dovrebbero esistere, forme e processi economici differenti, paralleli o alternativi?
Il dibattito è aperto e animato, richiede inoltre uno sguardo a quei paesi e alle rispettive economie che sono emergenti e, a tratti, emulative dei processi economici occidentali senza dimenticare le idee di coloro i quali, al contrario, vedono nelle dinamiche del mondo occidentale l’imitazione di sistemi e strutture pregressi, avanzando il bisogno di allungare indietro lo sguardo fino ai tempi del colonialismo.

CAPITALISMO E CAPITALE

Il capitalismo ha presentato, fin dalle origini, un accentuato dualismo simbolico e concreto. Da un lato è visto come il metodo migliore per lo sviluppo economico di un paese essendo basato su una economia di libero mercato, su una divisione netta tra proprietà privata e pubblica. Un metodo di sviluppo quindi con un potenziale altissimo che ha consentito a paesi, come gli Stati Uniti d’America, di diventare potenze economiche di livello mondiale. D’altro canto però è stato sempre criticato e per le medesime ragioni, generando un sistema nel quale il lavoro diventa lavoro salariato, sfruttato al fine ultimo di ottenere il massimo profitto, utile all’illimitato bisogno di accumulo di capitale.

A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, allorquando ha iniziato a diffondersi, il capitalismo si è sviluppato in maniera non univoca nei diversi paesi del blocco occidentale, garantendo comunque alti livelli di crescita economica e generando, per restare negli Usa, quello che Elizabeth Warren ha definito “il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto”. Una classe sociale nata e sviluppatasi proprio grazie al lavoro e al profitto generatosi da esso.
Uno sviluppo e una crescita enormi che hanno ingenerato però una grande quantità di problemi dovuti, in larga parte, proprio alle difficoltà inerenti l’impossibilità o quasi di sostenere gli stessi ritmi e i medesimi consumi.

CAPITALISMO, MA A QUALE PREZZO?

È la domanda che si è posta Michel Martone analizzando la situazione economica dell’Italia all’indomani della grande crisi economica che, inevitabilmente, ha riportato l’attenzione sulle dinamiche di un sistema economico, che da tempo ormai strizza l’occhio alle grandi economie libere dei paesi capitalisti per tradizione, ritenuto da molti il principale responsabile.
Oggi, nel mercato globale, per soddisfare le richieste sempre più esigenti, sia sotto il profilo della qualità che sotto quello del costo dei prodotti, si finisce per sacrificare le retribuzioni e la stabilità degli stessi lavoratori.

Ragionamento eguale a quello portato avanti dalla Warren nella sua analisi al sistema americano dove il ceto medio, una volta grande, è ormai ridotto allo stremo. Il passaggio dal capitalismo economico a quello finanziario ha lasciato indietro tanti lavoratori, un’intera classe di lavoratori, il ceto medio appunto, trasformando quelli che erano i punti cardine dello sviluppo economico (risorse e manodopera) in aspetti secondari di un sistema che è tutt’ora in continua espansione e crescita.

L'AFROMODERNITÀ COME CONDIZIONE GLOBALE?

Diversi fenomeni osservabili in Africa hanno indotto Jean e John Comaroff a considerarli prodromi e non imitazioni di quanto sta accadendo in Europa e Nordamerica.
Un’economia emergente, quella africana, tutt’altro che priva di contraddizioni, basata sul desiderio degli stati post-coloniali e dei loro governanti di guadagnare entrate spendibili nelle forme più flessibili e deregolate, a scapito della protezione dei lavoratori, dei controlli ambientali, delle imposizioni fiscali.
Così lo sviluppo economico si è spesso manifestato in forme rapinose, che massimizzano il profitto al minimo costo realizzando pochi investimenti strutturali. Soluzioni ispirate a dottrine neoliberiste ma realizzate con formulazioni estreme e incontrollabili, con il conseguente aumento di fenomeni come conflittualità, xenofobia, criminalità, esclusione sociale, corruzione.
Una violenza strutturale sembra dunque accompagnare i più recenti sviluppi di un’economia deregolamentata che inizia a diffondersi a livello globale.

La modernità è sempre stata indissociabile dal capitalismo, dalle sue determinazioni e dalle sue logiche sociali, come ricordava già Amin nel 1989, per quanto ovviamente fascismo e socialismo abbiano provato a costruire delle loro versioni.
Così, la modernità capitalista, si è realizzata, per quanto in maniera molto ineguale, nelle grandi aspirazioni del liberalismo, tra cui l’edificio politico-giuridico della democrazia, il libero mercato, i diritti e la società civile, lo stato di diritto, la separazione tra pubblico e privato, sacro e laico. Ma, per i Comaroff, ha anche privato diverse popolazioni di queste cose, in primis quelle dislocate nei vari teatri coloniali. E, per Elizabeth Warren, il contemporaneo capitalismo finanziario sta privando gli stessi americani e occidentali in generale di queste medesime cose.

IL CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA

Il capitalismo sembra evolversi in risposta ai bisogni delle persone in un tempo e in un luogo determinati. È in questo modo che si sarebbe giunti, nella visione di Shoshana Zuboff, alla attuale forma di capitalismo della sorveglianza. Una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione. Una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale ma non coincidente con esso. Si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti.

I capitalisti della sorveglianza hanno scoperto che i dati più predittivi si ottengono intervenendo attivamente sui comportamenti delle persone, consigliandole o persuadendole ad assumere quelli che generano maggiore profitto. Come il capitalismo industriale era spinto dalla continua crescita dei mezzi di produzione, così il capitalismo della sorveglianza e i suoi operatori di mercato sono costretti ad accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti e il potere strumentalizzante.

Karl Marx paragonava il capitalismo a un vampiro che si ciba di lavoro, nell’accezione attuale il nutrimento non è il lavoro bensì ogni aspetto della vita umana.
Come le civiltà industriali hanno potuto prosperare a discapito della natura e delle sue risorse, così una civiltà dell’informazione segnata dal capitalismo della sorveglianza prospererà, per Zuboff, a discapito della natura umana.
In questa nuova forma di capitalismo per certo ci sarà un drastico calo nello sfruttamento delle risorse della natura e questo, per Andrew McAfee, è indubbiamente un aspetto positivo.

IL NUOVO MOTTO SARÀ: DI PIÙ CON MENO?

Per quasi tutta la storia del genere umano la prosperità è stata strettamente connessa alla capacità di attingere risorse dalla Terra, ma adesso le cose sono cambiate. Negli ultimi anni abbiamo visto emergere un modello diverso: il modello del di più con meno.

Le forze gemelle del progresso tecnologico e del capitalismo scatenate durante l’Era industriale sembravano spingere verso una direzione ben precisa: la crescita della popolazione umana e dei consumi, e il concomitante degrado del pianeta.
Se il capitalismo ha proseguito per la sua strada diffondendosi sempre più, il progresso tecnologico ha permesso di consumare sempre più attingendo sempre meno dal pianeta.

I dati forniti dall’agenzia Eurostat, oggetto di attenzione da parte della Commissione Europea, mostrano come, negli ultimi anni, paesi come Germania, Francia e Italia, hanno visto generalmente stabile, se non addirittura in calo, il loro consumo totale di metalli, prodotti chimici e fertilizzanti.

I paesi in via di sviluppo, in particolare quelli con la crescita più rapida, come India e Cina, probabilmente non hanno ancora raggiunto la fase di dematerializzazione.

Attraversiamo una fase nella quale il capitalismo non è molto ben visto da tanti, eppure Andrew McAfee è di tutt’altro parere, convinto che sia stata proprio la combinazione tra innovazione incessante e mercati contendibili, in cui un gran numero di competitor cerca di ridurre le spese per i materiali, a traghettare le economie occidentali nell’era post-picco di consumo delle risorse.

OCCIDENTE O ORIENTE: CHI PERDE E CHI VINCE NELLA GRANDE 
SFIDA DELLA CRESCITA ECONOMICA?

La quota occidentale dell’economia globale continua a ridursi. Il processo sembra inevitabile e inarrestabile poiché altre realtà hanno imparato a emulare le best practices dell’Occidente.
Fino a tempi anche molto recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7, non da quelle degli E7. Negli ultimi decenni la situazione si è nettamente rovesciata. Nel 2015, ad esempio, le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5 per cento, gli E7 per il 36.3 per cento.

Nell’analisi di Kishore Mahbubani, la fine della Guerra Fredda non ha significato la definitiva vittoria del mondo occidentale, bensì il suo lento e progressivo declino. La convinzione di essere insuperabile lo ha spinto a sottovalutare, tra l’altro, il risveglio dei due grandi giganti asiatici – Cina e India -, e l’ingresso della Cina nel 2001 nella World Trade Organization.
L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale degli scambi avrebbe avuto per forza come risultato una massiccia “distruzione creativa” e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.

Nell’agosto 2017, una relazione della Banca dei Regolamenti Internazionali confermava che l’ingresso di nuovi lavoratori provenienti dalla Cina e dall’Europa Orientale nel mercato del lavoro era la causa di salari in declino e della contrazione della quota del lavoro nel reddito nazionale. Tutto ciò, ovviamente, avrebbe significato, per le economie occidentali, un aumento della diseguaglianza.

L’Unione Sovietica vedeva l’America come un avversario sul piano militare. In realtà, l’America era il suo avversario economico, ed è stato il collasso dell’economia sovietica a decretare la vittoria degli Stati Uniti.
Allo stesso modo, per l’America la Cina è un avversario economico, non militare. Più l’America accresce le sue spese militari, meno capace sarà nel lungo andare nel gestire i rapporti con un’economia cinese più forte e più grande.

La sfida che attende gli Stati Uniti tuttavia non è la stessa dell’Europa. Per i primi la sfida è la Cina. Per la seconda è “il mondo islamico sulla porta di casa”.
Finché nel Nord Africa e nel Medio Oriente saranno presenti stati in gravi difficoltà, ci saranno dei migranti che cercano di arrivare in Europa, infiammando i partiti populisti. Una possibile soluzione potrebbe essere lavorare con la Cina e non contro di essa per la crescita e lo sviluppo dell’Africa settentrionale.

PER UN MODELLO DI SVILUPPO ALTERNATIVO

Dunque, ciò che necessita ai paesi economicamente avanzati così come a quelli emergenti sono delle politiche di mutuo soccorso, per così dire. Connettere prospettive differenti con l’obiettivo precipuo di individuare una crescita equilibrata. Individuare un nuovo modello di sviluppo globale, alternativo a quello esistente, capace di coniugare le esigenze dei paesi industrializzati, quelle dei paesi in via di sviluppo nonché di quelli poveri, anche di materie prime.
Idee già espresse nel North-South, a Program for Survival, noto come Rapporto Brandt, redatto nel 1980 e basato sostanzialmente su una coppia concettuale ben definita: interdipendenza e interesse comune. Per molti, ancora oggi il Rapporto Brandt rappresenta l’unica vera alternativa sistemica alla globalizzazione neoliberista.

Per Brandt e gli altri commissari si trattava di lavorare per far sì che nel medio termine alcuni interessi, a nord come a sud, si inter-connettessero, secondo la tesi per cui un più rapido sviluppo a sud sarebbe stato vantaggioso anche per la gente del nord. Il pre-requisito di questo tentativo non poteva che essere un maggior aiuto degli Stati industrialmente avanzati a quelli più deboli, sia attraverso forme di finanziamento dirette sia mettendo in campo dei programmi di prestiti a lunga scadenza.

Sulla scia delle idee di Kenneth Arrow, Stglitz e Greenwald invitano a riflettere sui modi possibili di intervento governativo sul mercato per migliorare l’efficienza e il benessere collettivo, tenendo sempre a mente che buona parte degli innalzamenti degli standard di vita sono associati al progresso tecnologico e all’apprendimento.
Nei quattro decenni trascorsi dalla fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Ottanta, le economie socialiste si concentrarono con decisione sulle ricette di solito associate alla crescita, ossia l’accumulazione di capitale e l’istruzione. Presentavano tassi di risparmio e investimento elevati – in molti casi molto più elevati di quelli presenti in Occidente – e investirono seriamente nell’istruzione. Tuttavia, alla fine di questo periodo, presentavano risultati economici inferiori, spesso di molto.
Le economie non centralizzate si erano sviluppate migliorando costantemente la performance economica.

La situazione oggi si sta invertendo. Mahbubani afferma che il dono più grande che l’Occidente ha fatto al Resto del Mondo è stato la potenza del ragionamento logico. Filtrando nelle società asiatiche, lo spirito di razionalità e, potremmo aggiungere, conoscenza occidentale ha portato a un crescendo di ambizione, che a sua volta ha generato i molti miracoli asiatici che stanno sviluppandosi.

ALL'ALBA DI UN NUOVO MONDO

La cupa profezia sull’incipiente tramonto dell’Occidente sembra trovare sempre maggiore consenso e certezze ma, per Angelo Panebianco, è fin troppo scontato affermare che la società aperta occidentale con i suoi gioielli (rule of law, governo limitato, diritti individuali di libertà, democrazia, mercato, scienza) sia oggi a rischio. Un fenomeno caratterizzato dall’indebolimento degli intermediari politici che, secondo Bernard Manin, ha accompagnato il passaggio dalle vecchie democrazie di partito alle nuove democrazie di pubblico.

Crisi demografica e difficoltà di fronteggiare le conseguenze sociali, economiche e politiche dell’immigrazione extraeuropea – in Europa -, o latinoamericana – negli Stati Uniti – segnalano quella che viene indicata come una crisi morale che sta minando la fiducia in sé stesse delle società occidentali.
L’idea più diffusa è che siamo entrati in una nuova fase nella quale si assisterà al passaggio dalla breve stagione dell’unipolarismo americano a un nuovo multipolarismo, nel quale Stati Uniti e Cina, pur essendo le potenze più forti, dovranno comunque fare i conti con altre potenze, quali Russia, India e fors’anche Brasile, Indonesia e Sud Africa.

Bibliografia di riferimento

Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Paolo Bassotti.
Michel Martone, A che prezzo. L’emergenza retributiva tra riforma della contrattazione collettiva e salario minimo legale, Luiss University Press, Roma, 2019.
Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019. Traduzione di Mario Capello.
Andrew McAfee, Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorse, Egea UniBocconi, Milano, 2020. Traduzione di Giuseppe Maugeri.
Jacopo Perazzoli (a cura di), Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2019.
Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente chi vince e chi perde, Bocconi Editore, Milano, 2019. Traduzione di Giuseppe Barile.
Angelo Panebianco, Sergio Belardinelli, All’alba di un nuovo mondo, Società Editrice il Mulino, Bologna, 2019.
Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020. Traduzione di Paolo Lucca.
Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018. Traduzione di Maria Lorenza Chiesara.


Articolo disponibile anche qui


Disclosure: Per i grafici si rimanda alla Bibliografia di riferimento. Per le immagini credits www.pixabay.com


© 2020 – 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

SPECIALE WMI: Il ruolo culturale delle biblioteche oggi in Italia

26 mercoledì Giu 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

articolo, biblioteche, cultura, RinnovamentoCulturaleItaliano, WMI

Qual è il ruolo culturale delle biblioteche, pubbliche e private, oggi in Italia? Perché, nella società che si definisce dell’informazione, i luoghi simbolo della cultura vera, come appunto le biblioteche, si considerano ormai obsoleti, superati, inutili? Che relazione si pone tra diritto alla conoscenza, libertà di pensiero e di espressione e libertà di accesso all’informazione? I libri e la libertà. Le biblioteche e la democrazia. Bibliotecari e pubblico. Il rapporto dei cittadini con la lettura.

Le biblioteche sono istituzioni che, inspiegabilmente, restano fuori da ogni dibattito, mediatico e istituzionale, sulla cultura. Eppure esse rappresentano non solo i luoghi fisici di conservazione della memoria del passato ma, soprattutto, la struttura, la tecnica, il metodo, la fisicità e la possibilità concreta per la creazione di una cultura, di un’informazione e anche una educazione, quanto più ampie e diffuse possibile, che non siano faziose, di parte o partitiche, settarie e limitate.
Proprio le biblioteche, le quali rimangono ancora oggi estranee ed esterne alle logiche del mercato, all’economia imperante, al consumismo e alla superficialità di una conoscenza priva di fondamenta solide e logiche.
Michel Melot sosteneva che «la biblioteca è una macchina per trasformare la convinzione in conoscenza. La credulità in sapere». Come riportato anche nella premessa al testo L’azione culturale della biblioteca pubblica di Cecilia Cognini (Editrice Bibliografica, 2014).

Cognini ricorda che uno degli obiettivi dei programmi di Europa 2020 è proprio quello di «promuovere e consolidare la società della conoscenza». Ponendo al centro l’istruzione e le competenze, la ricerca, l’innovazione e la società digitale, allo scopo di favorire «un uso intelligente e consapevole delle nuove tecnologie». L’economia della conoscenza si basa sulla centralità del ‘capitale umano’ come «elemento capace di determinare un andamento positivo dello sviluppo di un paese». Nello scenario sociologico internazionale sempre di più si sta consolidando il bisogno di superare il PIL come indicatore dello stato di benessere di un paese, in Italia «lo Cnel e l’Istat hanno elaborato degli indicatori per misurare il BES, il benessere equo e sostenibile», ricollegando concettualmente il tasso di benessere di una società a fattori che «comprendono cultura e salute e altri aspetti immateriali della vita contemporanea».

Ecco che entra in gioco il concetto di apprendimento per tutto l’arco della vita, che diventa «un aspetto essenziale nella prospettiva esistenziale delle persone». L’intelligenza degli individui, ma anche quella di ognuno, non può essere ricondotta a una sola tipologia, «educare a pensare la complessità diventa un obiettivo rilevante per la società della conoscenza». L’azione della biblioteca pubblica può essere interpretata come una «sintesi efficace delle diverse vocazioni e stratificazioni di senso che il concetto di cultura rappresenta».
Affinché cultura e creatività si radichino in un territorio è necessario che si sviluppi una “atmosfera creativa”. In base al concetto largamente esposto nelle sue opere da Walter Santagata, per rendere percepibile un’atmosfera creativa è necessario che «il bagaglio di idee e creatività raggiunga un certo livello» e che siano presenti determinati ingredienti: «le reti creative, i sistemi locali della creatività, le microimprese di servizi». Anche le biblioteche, gli archivi e i musei sono soggetti essenziali da questo punto di vista, perché anch’essi qualificano il tessuto economico e sociale di un dato territorio, «aumentando la predisposizione delle persone a investire nelle loro capacità e competenze conoscitive e accrescendo la qualità sociale di una comunità».
Laddove per “qualità sociale” deve intendersi la misura secondo cui le persone sono capaci di «partecipare attivamente alla vita sociale, economica e culturale e allo sviluppo delle loro comunità», in condizioni che migliorino il benessere collettivo e il potenziale individuale.

Nella filiera del patrimonio culturale proprio le biblioteche possono conquistare «un ruolo e una rilevanza centrali, ancora solo parzialmente esplorate», e contribuire, per la loro capillarità e accessibilità e la loro vocazione alla divulgazione, a «promuovere la più ampia conoscenza e fruizione possibili del patrimonio culturale del nostro paese». Come indicato nel Manifesto IFLA/Unesco, la biblioteca pubblica svolge un «ruolo centrale anche nel promuovere la consapevolezza dell’importanza dell’eredità culturale che è propria di una comunità e di un territorio», non solo nel senso più scontato del mettere a disposizione del pubblico i fondi di storia e cultura locale o i documenti conservati nelle sezioni “Manoscritti e Rari”, ma più in generale come «promozione della capacità di lettura e interpretazione del patrimonio culturale di una comunità» al fine di trovare nuovi modi per raccontarlo, «nella consapevolezza delle nuove sfide poste dalla società multiculturale e dal digitale».

La vita degli adulti dovrebbe essere centrata sull’apprendimento continuo. Una educazione «fortemente correlata a una diversa concezione del sapere», non più focalizzato solo sull’acquisizione di abilità e contenuti ma anche di atteggiamenti e comportamenti. Esiste un sottostimato ma innegabile «legame fra formazione permanente e sviluppo democratico della comunità». L’atto di conoscere è a un tempo biologico, linguistico, culturale, sociale e storico e «la conoscenza non può essere dissociata dalla vita umana e dalla relazione sociale».
Nicholas Carr sostiene che la rete ci ha confinato nella superficialità e nell’incapacità di approfondire, mentre Rheingold Howard ritiene che questa ci aiuti a sviluppare appieno tutto il potenziale dell’intelligenza collettiva. Per Cecilia Cognini forse hanno ragione entrambi. Innegabile è di sicuro il fatto che internet e le nuove tecnologie hanno «modificato le modalità di apprendimento, i contesti e gli scenari di riferimento e con essi il ruolo delle biblioteche», da ricercarsi proprio nella formazione permanente.

La formazione permanente può avere un ruolo centrale nel «contrastare il ritardo di alfabetizzazione presente nel nostro paese».
Stando ai dati ISOFOL-PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) l’Italia è la più bassa fra i paesi Ocse per partecipazione ad attività di apprendimento formale e informale degli adulti, con appena il 24% a fronte di una media del 52%. In questo ambito la biblioteca «può promuovere una visione proattiva e non passiva della cultura».
Per Cecilia Cognini l’azione della biblioteca si esplica sostanzialmente in quattro modi:
Predisposizione all’accesso.
Formazione dei cittadini.
Definizione di un ambiente sicuro.
Costruzione della motivazione a imparare.

Nella premessa al testo di Mauro Guerrini curato da Tiziana Stagni De Bibliothecariis. Persone Idee Linguaggi (Firenze University Press, 2017) Luigi Dei, magnifico rettore dell’Università degli Studi di Firenze, definisce le biblioteche «uno dei più preziosi patrimoni che le Università posseggono o ai quali gli Atenei fanno costante riferimento come irrinunciabile stella polare per le loro missioni». Per il rettore Dei non bisogna lasciarsi intimorire dal progresso scientifico-tecnologico, dal digitale, dalla rete… perché «la nostra era non è più unica di quanto lo sembrassero le precedenti ai nostri predecessori». I nuovi media troveranno «il loro posto nelle biblioteche» e così i bibliotecari assolveranno alla loro missione secondo modalità «stupendamente innovative e con strumenti d’inenarrabile potenza e versatilità». Il destino che attende quindi queste istituzioni, secondo Luigi Dei, è quello di «rivestire nel futuro un ruolo sempre più centrale nella vita dell’uomo».

Il testo di Mauro Guerrini si apre al lettore con una citazione di Shiyali Ramamrita Ranganathan:

«Fino a quando l’obiettivo principale di una biblioteca fu la conservazione dei libri, tutto quello che si pretese dal suo personale fu che fosse costituito da guardiani capaci di combattere i quattro nemici dei libri: fuoco, acqua, parassiti e uomini. Non era strano che un posto di lavoro in biblioteca rappresentasse il rifugio possibile per le persone incapaci di fare altri lavori. Ci volle davvero molto tempo perché si comprendesse che era necessario un bibliotecario professionale.»

Per Guerrini il tronco di attività e di competenze che regge la professione bibliotecaria si basa essenzialmente su due temi caratterizzanti: gli utenti e le risorse bibliografiche. «Il bibliotecario mette in relazione positiva queste due entità». La biblioteca pubblica italiana è, in questa fase storica, chiamata a difendere la Costituzione, le istituzioni democratiche, il diritto a un’informazione libera, tempestiva e plurale, «arginando le manipolazioni che pervadono, armai da sessant’anni, l’assetto partitocratico delle istituzioni e dei mass-media». Non può esistere democrazia senza controllo. E il controllo, oltre che dalla tripartizione dei poteri, deve essere esercitato dall’elettorato: «un cittadino bene informato è un requisito della democrazia perché conosce e giudica tramite la scheda elettorale l’operato dei politici, dei potenti, della società».
La biblioteca è chiamata a documentare in modo imparziale i diversi punti di vista dai quali un tema può essere interpretato anche conflittualmente e senza avanzare, in modo evidente o tra le righe, la preferenza per nessuno.

Quella del bibliotecario è una professione, e la capacità di scindere tra orientamenti personali e comportamento professionale fa parte del bagaglio culturale e professionale, «anzi ne determina il livello di professionalità». Libro è libertà sono indissolubili. La biblioteca non è il luogo di una verità unica, e neanche della verità degli altri, è il luogo dove «il lettore deve costruirsi la propria».
Il diritto alla conoscenza, la libertà di pensiero e la libertà di espressione sono condizioni necessarie per la libertà di accesso all’informazione. «Il bibliotecario è il garante dell’accesso a un’informazione libera», senza restrizioni e non condizionata da ideologie, credi religiosi, pregiudizi razziali, condizioni sociali, ecc… «ovvero da tutto ciò che in qualsiasi misura possa rappresentare un fattore di discriminazione e di censura». Suo compito è inoltre garantire la riservatezza dell’utente e «promuovere, quale strumento di democrazia, l’efficienza del servizio bibliotecario».

Guerrini ritiene doveroso cercare di individuare le ragioni, in una prospettiva storica, sia della mancata consapevolezza da parte del cittadino dei servizi e delle potenzialità informative che le biblioteche mettono a disposizione della comunità, sia del venir meno di quei servizi essenziali verso il cittadino da parte di alcuni enti pubblici, motivati dal continuo costante e inarrestabile taglio dei finanziamenti statali. I tagli dei fondi alla cultura sono intesi e lasciati intendere come «tagli al superfluo». E allora, si chiede Mauro Guerrini: «quando si capirà che investire in biblioteche significa investire per la democrazia, lo sviluppo economico e la qualità della vita?»
L’Italia può, o meglio potrebbe, svolgere un ruolo importante a livello politico generale, come «ponte di cultura» ma anche di pace e di libertà intellettuale, di scambio informativo, di modello di conoscenza, «di incontro e di dialogo fra culture diverse, fra Nord Europa e paesi che si affacciano sul Mediterraneo». L’Italia è un Paese di confine che «subisce l’urto dei flussi migratori», ma «la nostra cultura, le nostre biblioteche possono essere un efficace strumento di pace, di diffusione della comprensione e di reciproco rispetto».

Per Antonella Agnoli, autrice de Le piazze del sapere (Editori Laterza, 2014), in una società caratterizzata da disuguaglianza crescente e dalla scomparsa o dalla privatizzazione di molti servizi sociali, «la biblioteca è diventata un presidio del welfare». Occorre fare della cultura una questione politica centrale per il paese, «chiedere al governo e agli enti locali di tornare a investire sulla scuola e sulla cultura». Tante buone pratiche si affermano a livello locale ma, alla fin fine, tutte o quasi sono costrette a cedere sotto il peso di una politica nazionale che «va in direzione opposta».
Inoltre va sottolineato che scuole, università, biblioteche e altre istituzioni culturali sul territorio «non comunicano tra loro, non agiscono in sinergia», non vanno a costituire un «ambiente globale dove i talenti possano svilupparsi e lavorare».
Le biblioteche pubbliche, per Agnoli, devono essere considerate «un servizio universale, come la scuola o l’ospedale». Ma, soprattutto, dovrebbero agire in sinergia con tutte le altre istituzioni culturali, soprattutto afferenti al sistema scolastico, secondo progetti e programmi coordinati dallo stesso Miur per ovviare a oggettivi e oramai sistemici deficit di apprendimento.
Stando ai dati Ocse-PISA (Programme for International Students Assessment), la capacità degli studenti italiani di leggere e interpretare un testo sono molto inferiori a quelli degli studenti degli altri paesi europei. Il che significa che diventeranno adulti non in grado di «leggere un libro o un giornale» e di comprenderne appieno il significato e, soprattutto, cittadini a rischio nei loro diritti elementari perché «in difficoltà a capire una scheda elettorale, una bolletta della luce o un estratto conto». Gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Ne La biblioteca che vorrei (Editrice Bibliografica, 2014) Antonella Agnoli ricorda che ogni giorno in Italia si condividono online 5milioni di foto, Facebook ha 20milioni di iscritti mentre Twitter ne ha 10milioni e afferma che «il prezzo che paghiamo alle meraviglie offerte da iTunes, Youtube, Twitter e Instagram è la rinuncia, del tutto volontaria, ai libri. La fine della lettura». Ma è davvero così? Prima dell’avvento di internet e dei social le persone leggevano davvero molto più di adesso? E in che misura?
Tralasciando i tempi in cui il tasso di analfabetismo era ancora molto elevato e diffuso e osservando l’Italia e gli italiani della seconda metà del Novecento si deve ammettere di trovarsi di fronte un quadro dipinto per la maggiore da radio, calcio e televisione. Internet e i social sono solo il mezzo di distrazione del nuovo millennio che è andato ad aggiungersi o a sostituirsi a quelli imperanti nel secolo scorso. I lettori, quelli forti, che non si lasciavano attrarre dalla televisione nel Novecento non si lasciano sedurre neanche dai nuovi media. I numeri erano pochi allora e lo sono anche oggi. È questo il nocciolo del problema.

Andrea Capaccioni in Le biblioteche dell’Università (Maggioli Editore, 2018) sottolinea come già numerosi stati hanno incrementato gli investimenti per sostenere un più efficiente sistema di istruzione superiore e per fornire ai cittadini un accesso alla formazione lungo tutto l’arco della vita. Gli atenei sono dunque chiamati a svolgere «un ruolo sociale (civic university) sempre più importante» e a garantire livelli qualitativi elevati attraverso «periodiche verifiche dei risultati raggiunti sul piano scientifico e divulgativo». C’è un forte legame tra la biblioteca, l’insegnamento e la ricerca al punto che le biblioteche dell’università sono state definite «specchio dell’educazione superiore». Troppe volte però la biblioteca, invece di «luogo privilegiato della propria missione», viene considerata dagli atenei come mero «strumento da includere tra le attrezzature didattiche».
È tuttavia innegabile che in una società sempre più interessata alla produzione e alla gestione dell’informazione «le università costituiscono un obiettivo strategico per i governi di tutto il mondo» e con esse tutti i luoghi di produzione e conservazione delle informazioni e della cultura, comprese naturalmente le biblioteche.
Si prospetta la necessità di ripensare il ruolo e le funzioni della biblioteca nel nuovo contesto culturale e tecnologico e Capaccioni si chiede se le università siano pronte a gestire il cambiamento. Ma egli stesso rammenta poi che nel mondo è in costante crescita il numero di università che hanno individuato nelle loro biblioteche il luogo ideale per istituire dei learning center «in cui ai tradizionali servizi bibliotecari si affiancano iniziative legate alla didattica e all’information literacy».

Per John Palfrey, autore di BIBLIOTECH (Editrice Bibliografica, 2016), «le biblioteche sono in pericolo perché ci siamo dimenticati quanto esse siano eccezionali». Le biblioteche danno accesso alle abilità e alle conoscenze necessarie per adempiere al nostro ruolo di cittadini attivi. La conoscenza che le biblioteche offrono e l’aiuto che i bibliotecari forniscono «sono la linfa di una repubblica informata e impegnata». Le democrazie possono funzionare soltanto se tutti i cittadini hanno pari accesso all’informazione e alla cultura, in modo tale che possano «essere aiutati a fare buone scelte, siano esse relative alle consultazioni elettorali o ad altri aspetti della vita pubblica». E l’accesso eguale e paritario alla cultura può esserci solo laddove ci siano istituti e istituzioni pubbliche (scuole, atenei, biblioteche, archivi, …) per usufruire dei quali non è importante «quanto denaro si ha in tasca». Nel mondo digitale le biblioteche, come anche gli altri istituti della cultura, devono continuare a ricoprire le funzioni essenziali di accesso libero alla conoscenza, laboratori per lo studio, l’apprendimento e la ricerca, depositi della conoscenza. Esattamente come hanno fatto nel periodo analogico.
Il futuro delle biblioteche è importante per vari motivi, ma per Palfrey in testa alla lista delle priorità vi è fuor di dubbio il loro ruolo nel tutelare in modo certo la conoscenza culturale nel lungo periodo.
Allorquando i nuovi materiali digitalizzati verrano seriamente inclusi nei piani di studio scolastici, «un’iniziativa nazionale fra biblioteche, che renda disponibili documenti di supporto appropriati a tutti i docenti e agli studenti» potrebbe abbattere i costi della transizione per le scuole e permettere agli allievi di avere «un facile accesso e gratuito a strumenti di studio rilevanti».
La scusante che va per la maggiore, in genere, è la mancanza di risorse finanziarie, ma in molti casi le questioni relative all’educazione non hanno molto a che fare con i soldi, quanto piuttosto «con l’amministrazione, la visione, l’impegno».

La mancanza di visione e impegno rischia di continuare a lasciare i cittadini di oggi e di domani in balìa di questo immenso «rumore informazionale di fondo», un vero e proprio «turbine di gossip» che genera una diffusa condizione di alfabetizzati-illetterati storditi «dagli irrilevanti contributi di un pervadente disturbo che li strania da ogni stimolo di autentica realtà». Alfredo Serrai, in La biblioteca tra informazione e cultura (Settegiorni Editore, 2016), indica come unica strada percorribile il progettare «un salvataggio della intellettualità antica racchiusa nelle gloriose biblioteche antiche innestandola nel quadro sistematico di una sintesi culturale che la valorizzi». Naturalmente incorporandola nella storia e nella cultura del passato ma «con le estensioni, gli sviluppi e i rivolgimenti prodotti dalle acquisizioni, tecnologiche e concettuali, del pensiero moderno».
Perché, a rifletterci bene, sottolinea Serrai, il problema di fondo rimane quello del rapporto che si intende avere con il passato. Conservarlo come fossero resti mummificati oppure continuare a «sentirci il ramo più alto di uno stesso grande albero ancora vitale» e verosimilmente prosperoso. Quando le biblioteche si ridurranno a Musei, nel senso di luoghi destinati alla conservazione delle testimonianze, sarà anche la fine della cultura che le biblioteche aveva generate e alimentate.
Chiedersi se spariranno le biblioteche va di pari passo con il domandarsi se continuerà il dissolvimento di quella che si continua a riconoscere ancora come la nostra attuale cultura.

Come conseguenza della aumentata velocità dei mezzi di comunicazione, della immediatezza delle comunicazioni, spesso identiche e ripetitive, si assiste a una generale e uniforme «omologazione concettuale e a un diffuso appiattimento di pensiero». Si percepisce come unicamente reale, «non solo sul piano personale ma anche su quello cosmico», soltanto il presente e l’immediato. Ma se l’informazione non diventa Cultura, ovvero «trama di un ordito molteplice e complesso» che si nutre del passato per affrontare il presente e guardare il futuro, allora è ben poca cosa, avverte Serrai. La biblioteca è e deve sempre porsi come sorgente di cultura e non di informazione o ragguaglio, come sono invece i motori di ricerca molto utilizzati nella navigazione su internet.

La motivazione a documentarsi, a interrogarsi, a immaginare ipotesi risolutive, a indagare e anche semplicemente a leggere può originarsi in «modo intrinseco solo se queste attività vengono comprese come necessarie per capire i mondi con cui si entra in contatto». Se l’intenzione è capire, non è sufficiente porsi di fronte a un testo, bisogna «costruire il proprio testo esplorando altri testi alla ricerca, in primo luogo, di ciò che non si capisce».
Tentare di motivare alla lettura attraverso la proclamazione della sua importanza, l’imposizione della sua realizzazione, la gratificazione del suo essere compiuta si rivelano, pressoché sempre, operazioni non sufficienti a produrre un’abitudine duratura nel ricorrere al documentarsi per conoscere, per capire, perché «non si basano su alcun bisogno del soggetto che dovrebbe compiere l’atto di leggere».
Attualmente in Italia la formazione scolastica «non riesce a trasmettere un approccio metodologico alla ricerca bibliografica» e, soprattutto, «non sempre aiuta a comprendere l’importanza di buoni documenti» per la ricerca e per l’approfondimento «per la vita, per il lavoro, per le scelte importanti».
Tra le convinzioni comuni c’è quasi sempre l’idea, «ben nota ai docenti e ai bibliotecari», che la rete, «o meglio un indifferenziato Google», sia la fonte documentale unica. Naturalmente non è così. È necessario dunque cominciare a trasmettere con fermezza l’idea che l’importante non è solo ottenere delle risposte immediate, indistinte e omogenee, bensì imparare a valutare «quali strumenti potrebbero aiutarci a raggiungere delle informazioni rilevanti, oltre che corrette». E così internet, invece che essere il mezzo attraverso cui si accede, «con approcci specifici, a libri elettronici, articoli scientifici da acquistare, preziosa documentazione di fonte pubblica, documenti open access da consultare, migliaia di cataloghi di biblioteche nel mondo da interrogare,» … diventa un tutto indistinto, in cui il recupero è affidato al «funzionamento di algoritmi non noti o all’uso di pochissime fonti note».
Queste alcune delle importanti indicazioni illustrate da Piero Cavaleri e Laura Ballestra nel Manuale per la didattica della ricerca documentale (Editrice Bibliografica, 2014).
L’obiettivo è quello di rendere gli studenti consapevoli del processo che conduce a «una trasformazione dei dati informativi in reali conoscenza e cultura». Consapevolezze e competenze che il personale docente dovrebbe già aver acquisito.

La lezione di Roberto Tassi del 2015, raccolta da Ugo Fantasia nel testo Luciano Canfora. Per una storia delle biblioteche ed edita da il Mulino nel 2017 è la miglior risposta possibile al quesito di senso sull’esistenza delle biblioteche.
Nel testo si compiono un’analisi e un’indagine sulle origini e sulla storia delle biblioteche, condotte attraverso i testi antichi e i documenti anche meno noti, tali da diventare esse stesse la testimonianza diretta dell’importanza della conservazione. Dal diventare la ragione evidente per la quale tutto il sapere accumulato non deve andare perduto bensì custodito, coltivato, nutrito, incrementato, fortificato.

«Studiare la storia dei testi significa studiare la storia della realtà bibliotecaria.»

Si fa tanto e presto a dire che bisogna avvicinare i giovani alla lettura. E questo è senz’altro un ottimo proposito. Ma gli adulti quanto leggono? Genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, al ministero, la classe politica e dirigente in generale quanto leggono e quanto si documentano in realtà?
L’importanza perentoria delle biblioteche, degli archivi, dei musei e di tutti gli istituti della cultura è innegabile. Ciò che invece va accantonata, dismessa, dimenticata è la convinzione dell’inutilità della cultura e della sua scarsa incidenza sul benessere collettivo, anche economico.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Andrea Capaccioni, Le biblioteche dell’Università. Storia, Modelli, Tendenze, Maggioli Editore (nuova edizione 2018).

Andrea Capaccioni, Le origini della biblioteca contemporanea. Un istituto in cerca d’identità tra vecchio e nuovo continente (secoli XVII-XIX), Editrice Bibliografica, 2017.

Mauro Guerrini, Tiziana Stagni (a cura di), De Bibliothecariis. Persone, Idee, Linguaggi, Firenze University Press, 2017.

Cecilia Cognini, L’azione culturale della biblioteca pubblica, Editrice Bibliografica, 2014.

John Palfrey, Elena Corradini (traduzione di), BIBLIOTECH. Perché le biblioteche sono importanti più che mai nell’era di Google, Editrice Bibliografica, 2016.

Antonella Agnoli, Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà, Editori Laterza, 2014.

Antonella Agnoli, La biblioteca che vorrei. Spazi, Creatività, Partecipazione, Editrice Bibliografica, 2014.

Alfredo Serrai, La biblioteca tra informazione e cultura, Settegiorni Editore, 2016.

Piero Cavaleri, Laura Ballestra, Manuale per la didattica della ricerca documentale, Editrice Bibliografica, 2014.

Anna Maria Mandillo – Giovanna Merola (a cura di), Archivi Biblioteche e Innovazione. Atti del Seminario tenuto a Roma il 28 novembre 2006 (Annale 19/2008 dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli fondata da Giulio Carlo Argan), Iacobelli Editore, 2008.

Massimo Accarisi – Massimo Belotti (a cura di), La biblioteca e il suo pubblico. Centralità dell’utente e servizi d’informazione, Editrice Bibliografica, 1994.

Ugo Fantasia (a cura di), Luciano Canfora. Per una storia delle biblioteche (Lezione Roberto Tassi 2015), il Mulino, 2017.


Articolo apparso sul numero 54 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


LEGGI ANCHE

Chi è lo scrittore più bravo al mondo? (WMI 44) 

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Quarta: I nuovi modi di fare editoria (WMI 53)

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Terza: I colossi dell’editoria (WMI 51) 

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Seconda: Gli editori indipendenti (WMI 49) 

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Prima: Piccola e Media Editoria (WMI 45) 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Perché in Italia fa così paura il concorso esterno in associazione mafiosa? Davvero “La Giustizia è Cosa nostra”?

15 sabato Giu 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli, Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

AttilioBolzoni, GiuseppeDAvanzo, giustizia, GlifoEdizioni, LaGiustiziaèCosanostra, mafia, recensione, saggio

Il 20 aprile 2015 Panorama pubblica online un articolo a firma Maurizio Tortorella titolato Concorso esterno in associazione mafiosa: il reato che “non c’è”. L’autore entra nel merito della discussione che, a suo dire, va avanti in Italia da ben 30 anni su questo presunto reato che in realtà nel Codice penale «non esiste».

Tale impasse, secondo la redazione di diritto.it e non solo, sarebbe stata superata già a partire dall’ottobre del 1994, allorquando una sentenza delle Sezioni Unite affermava la «configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa per quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano occasionalmente un contributo all’ente delittuoso», annullando in questo modo tutte le obiezioni mosse all’esecuzione dei dettami dell’art. 416 c.p. per cui necessita il far parte in maniera stabile dell’organizzazione mafiosa.

Nel libro La Giustizia è Cosa nostra di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo (Glifo Edizioni, 2018), si parla in maniera approfondita della sentenza Demitry della Corte di Cassazione a sezioni unite del 5 ottobre 1994, «proprio l’anno in cui la nozione di “concorso esterno” in associazione mafiosa ha cominciato a prendere una forma definita».
Demitry era un avvocato indagato per concorso esterno e colpito da un’ordinanza di custodia cautelare con l’accusa di aver svolto «attività di intermediazione, tra un giudice e un capomafia di rilievo».
Sono poi seguite a ruota le incriminazioni per concorso esterno in associazione mafiosa «di alcuni magistrati, relativamente a ipotesi di processi aggiustati».

Nel già citato articolo di Panorama, l’autore sottolinea come fosse stato Giovanni Falcone nel 1987 a evidenziare la necessità «di una ‘tipizzazione’ capace di reprimere le condotte grigie» e di come i magistrati hanno continuato a fare «un uso pieno e disinvolto del reato-che-non-esiste».

In realtà basta una scorsa veloce ai risultati forniti dal motore di ricerca online per rendersi conto che il fenomeno è molto più esteso e preoccupante di come lo si vuol dipingere.

Un ex pubblico ministero del Tribunale di Trani, ora giudice del Tribunale di Roma, e un suo collega pm a Roma, in precedenza gip a Trani e magistrato all’ispettorato del Ministero della Giustizia, sono stati arrestati con l’accusa di «associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso». Arrestato anche un ispettore di polizia in servizio al commissariato di Corato (Bari). Misura interdittiva (al momento dell’articolo in corso di notifica) per un imprenditore di Firenze. Interdetti dalla professione per un anno due avvocati del Foro di Trani. Alcuni degli accusati rispondono di «associazione per delinquere finalizzata a una serie di delitti contro la pubblica amministrazione, corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale», altri di «millantato credito, calunnia e corruzione in atti giudiziari».

Agli arresti domiciliari un magistrato del Tribunale di Salerno, poi di Reggio Calabria, che si sarebbe adoperato per «favorire imprenditori ai quali era legato da consolidati rapporti di amicizia, trattando cause riferibili a tali amici con esito favorevole» e «ricevendo dagli imprenditori utilità varie». Ai domiciliari un funzionario giudiziario. Divieto di dimora per quattro imprenditori, obbligo di dimora per un consulente fiscale.

Il collaboratore di giustizia Antonio Valerio «ha parlato di presunti intrecci giudiziari-massonici su cui farebbe affidamento la ‘ndrangheta per ‘aggiustare’ i processi in Corte di Cassazione». Egli stesso sarebbe stato avvicinato, mentre era nella “gabbia di sicurezza” dell’aula-bunker di Reggio Emilia, «da un avvocato che gli avrebbe detto molto esplicitamente che nei giudizi di merito di Aemilia sarebbero scaturite diverse condanne, ma che, grazie alle sue conoscenze, avrebbe potuto aggiustare il processo in Cassazione».

La notizia è del febbraio 2018. Arrestate 15 persone, tra cui l’ex pm di Siracusa, due avvocati e due imprenditori. Le accuse: «frode fiscale, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione in atti giudiziari».

A darne inizialmente notizia è stato Il Resto del Carlino, ma le conferme sono poi arrivate anche da «ambienti investigativi». Il giudice potrebbe aver «aggiustato i processi dietro il pagamento di somme di denaro, veicolate attraverso professionisti compiacenti».

Anche il presidente del Tar Basilicata tra i magistrati che sarebbero stati in contatto con l’imprenditore arrestato insieme all’avvocato.

Gli esempi, purtroppo, abbondano da Nord a Sud della penisola. A riportarli è quasi sempre la stampa locale, tranne i casi più “eclatanti”, ovvero quelli che vedono coinvolti nomi e volti noti. Ed è allora che si fa strada il paradosso più becero. Si cerca di non associare tali comportamenti scorretti e criminali con le associazioni malavitose, come se queste fossero delle entità astratte e certamente chiuse in se stesse e non invece riconducibili a tutta una serie di azioni, comportamenti e scelte che vanno dal crimine di strada alla corruzione nei pubblici uffici.
Perché spaventa così tanto parlare di concorso esterno in associazione mafiosa? Perché addirittura si fa fatica ad ammetterne l’esistenza trincerandosi dietro cavilli e formalità legislative?

Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo ne La Giustizia è Cosa nostra hanno parlato in maniera approfondita dei processi aggiustati, del ruolo che svolgono taluni avvocati, delle azioni di alcuni magistrati o giudici e ricostruiscono nel dettaglio alcune storie di «giustizia aggiustata». Un libro edito a dicembre 2018 da Glifo Edizioni ma uscito in prima edizione con Arnoldo Mondadori nel 1995 e passato inspiegabilmente in sordina, sia allora che oggi.

Negando o tentando di ridimensionare il fenomeno si pensa forse di riuscire a nasconderlo, lo si fa anche per l’esistenza delle stesse organizzazioni mafiose. Spiazzano e indignano le parole dell’ex magistrato ed ex presidente del Senato Pietro Grasso allorquando scrive: «Se Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri avessero gettato la spugna, se si fossero piegati alla legittima frustrazione, avrebbe vinto chi non voleva cambiare il nostro Paese e sconfiggere la mafia. Per fortuna hanno vinto loro, abbiamo vinto noi».

Hanno vinto loro? Abbiamo vinto noi? La mafia è stata sconfitta?

Nel libro Le Trattative (Imprimatur, 2018), scritto a quattro mani con il giornalista Pietro Orsatti, Antonio Ingroia afferma: «Non esito a definire Grasso la più grande delusione professionale della mia carriera. Tutte le indagini e le notizie di reato considerate politicamente scomode finivano, in un modo o nell’altro, nel cestino della procura, e la classe politica, di destra come di sinistra, gliene è sempre stata grata».
Si può anche scegliere di vedere, credere e tentare di far credere ciò che meglio piace e non ciò che realmente è. Affermare che la mafia non esiste come non esiste il reato di concorso esterno in associazione mafiosa con tale convinzione da riuscire anche a convincere gli interlocutori. Si può fare e lo si fa. Ma la realtà, beh quella è un’altra cosa.

Del resto ognuno sceglie di credere in ciò che è più in linea con i propri principi e ideali, oppure con la mancanza di questi.
Nel secondo libro della trilogia Silo (Wool, Shift, Dust) edito in Italia da Fabbri Editore nel 2014, Hugh Howey in un dialogo tra un giovane aspirante politico e un senatore ormai navigato del Congresso americano fa dire a quest’ultimo: «La negazione è l’ingrediente segreto da queste parti. È il sapore che tiene insieme tutti gli altri. Ecco cosa dico sempre ai nuovi eletti: la verità salterà fuori – salta sempre fuori – ma sarà mescolata a tutte le bugie. Devi negare ogni menzogna e ogni verità con lo stesso vigore. Lascia che siano i siti web e gli spacconi che frignano di continuo sulle malefatte del governo a confondere il pubblico al posto tuo».

Molto più realistico l’intervento di Alfonso Sabella, magistrato già sostituto procuratore nel pool antimafia di Palermo, nel libro di Bolzoni e D’Avanzo. Egli, pur riconoscendo l’immenso lavoro svolto dal team Falcone e Borsellino e da tanti suoi onesti colleghi, sottolinea come poi ci sia stato «un lento ritorno al passato» e di come oggi si è costretti ad assistere alla celebrazione e all’auto-celebrazione di «inutili professionisti dell’antimafia» che «sbucano come funghi nei talk show e nelle stanze del potere».

In un lungo articolo per penalecontemporaneo.it, rivista online di Diritto edita in collaborazione con le Università Degli Studi di Milano e Bocconi, l’avvocato e magistrato Piergiorgio Morosini entra nel vivo della discussione sulla legittimità o meno del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
«Non condivido l’ostentato scetticismo verso l’istituto del “concorso esterno”. Soprattutto lo “scetticismo” gridato da noti esponenti del mondo politico. […] A mio avviso, è proprio grazie al concorso esterno e all’investimento di fior di risorse investigative, che molte procure hanno potuto, finalmente, esercitare un controllo di legalità più incisivo anche sul versante antimafia».

È con queste inchieste sul concorso esterno che la magistratura «ha dimostrato di non volersi fermare sulla soglia del potere». In effetti, il concorso esterno consente di indagare più efficacemente e agevolmente «sulle alleanze ombra fra clan e classe dirigente», riuscendo così a far luce «sul ‘capitale sociale’ delle cosche, in cui ritroviamo i complici nelle istituzioni, nella società, nel circuito economico-finanziario».
I punti critici della materia non possono essere inquadrati in «una inesistente prospettiva in cui si confrontano “il metodo Falcone” e il “metodo Carnevale”, secondo una sbrigativa proposizione. […] Certe affermazioni, destinate a un pubblico di non addetti ai lavori, risultano giuridicamente inutili e, per lo più, foriere di polemiche che incrinano la credibilità delle istituzioni giudiziarie».

La seconda parte di La Giustizia è Cosa Nostra di Bolzoni e D’Avanzo è interamente dedicata al giudice Corrado Carnevale e alle centinaia di processi di mafia, camorra e ‘ndrangheta cancellati dalla I sezione penale della Cassazione.
Relativamente a ipotesi di processi aggiustati, l’incriminazione di Corrado Carnevale si risolse in una condanna in Corte d’Appello nel 2001, poi annullata senza rinvio in Corte di Cassazione nel 2002. Già negli anni Ottanta «Carnevale stava per essere messo sotto procedimento disciplinare da parte del ministro della Giustizia Rognoni, cosa che non avvenne perché era intervenuto personalmente il presidente Andreotti dicendo che Carnevale non si tocca».

Si legge nel prologo del libro: «L’avvocato può avere un ruolo importante per “aggiustare” i processi ma, com’è ovvio, è il giudice che è tutto. […] Se è un giudice popolare, uno di quei cittadini estratti a sorte per far parte delle Corti d’Assise o d’Appello, allora è un gioco da ragazzi “addomesticarlo”. […] Se il giudice è massone, il lavoro viene meglio. Non si sta a perdere troppo tempo. Per questo, anche per questo, capi famiglia e capi mandamento si sono iscritti alla massoneria».

Nel corso di una video-intervista rilasciata al giornalista Sandro Ruotolo e pubblicata sul canale Youtube di Fanpage.it, l’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo parla proprio dei legami tra massoneria, politica e mafia.
Il Grande Oriente d’Italia è la maggiore organizzazione massonica in Italia con oltre 23mila fratelli divisi in 850 logge e Di Bernardo ne è stato Gran Maestro per un breve periodo, tra il 1990 e il 1993, prima di decidere di dimettersi proprio a causa dell’ambiente compromesso ivi trovato.
Descrivendo la situazione di Calabria e Sicilia afferma: «Ettore Loizzo dichiara che non c’è solo infiltrazione della n’drangheta nelle logge. Ma che, addirittura, la ‘ndrangheta controlla le logge. […] Io avevo saputo più dei siciliani che dei calabresi».
Ettore Loizzo è stato «Gran Maestro Onorario e reggente, con Eraldo Ghinoi, del Grande Oriente d’Italia nel 1993».

Ancora nel prologo del libro di Bolzoni e D’Avanzo sono riportate le parole di Leonardo Messina, collaboratore di giustizia: «È nella massoneria che si possono avere contatti totali con le istituzioni, con gli imprenditori con gli uomini che amministrano il potere, il potere diverso da quello di Cosa nostra».
Ma sono solo i mafiosi a chiedere favori?
«Quando la cosa è fatta, è logico che il giudice chieda qualche favore».
Ma sono solo i giudici, o parte di essi, a chiedere qualche cosa in cambio del favore fatto?

“Uno scandalo della giustizia italiana”, così viene indicato dalla redazione de Il Foglio l’iter giudiziario che ha visto coinvolto l’ex dirigente del Sisde (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, agenzia di intelligenza fondata con lo scopo dichiarato di protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali dell’Italia).

Il 25 febbraio 2006 la Corte di appello di Palermo aveva emesso sentenza di condanna per Contrada per «concorso esterno in associazione mafiosa», sentenza diventata irrevocabile il 10 maggio 2007. Nell’aprile del 2015 la Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo giudica la sentenza illegittima in quanto considera l’accusa «non sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione». In buona sostanza, all’epoca dei fatti (ovvero gli anni Ottanta) il reato di concorso in associazione mafiosa «non era chiaro né prevedibile» e per questo motivo la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia a risarcire il poliziotto.

Marcello Dell’Utri nella sentenza di I grado che lo condanna a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa è considerato «l’ambasciatore, il mediatore degli interessi della mafia nel grande impero economico-finanziario lombardo, il tramite tra Cosa Nostra e uno degli imprenditori ai quali Cosa Nostra si sarebbe affidata per investire, riciclare e far fruttare il proprio denaro: Silvio Berlusconi».

È su Contrada, Dell’Utri e su gli altri nomi e volti noti che si divide l’opinione di stampa e pubblico. Ma il tema o problema del concorso esterno in associazione mafiosa non è personale o soggettivo, riguarda atteggiamenti, comportamenti e azioni che appartengono a una cultura sbagliata ma radicata al punto che in tanti faticano a riconoscerla come tale. Consuetudine che diventa abitudine, normalità. Un abisso della società che si nutre e cresce attingendo dal marcio e mascherandosi di buono. Al punto da creare una sorta di realtà parallela, invisibile ai più ma che condiziona, direttamente o indirettamente, l’esistenza di tutti e di ognuno. Quello che Massimo Carminati ha definito “il Mondo di mezzo”, «in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile […] il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra […] anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno».

È un sistema di scambio. Un do ut des dove richiedenti ed esecutori vivono un perenne scambio di ruoli, favori e interessi. Il Mondo di mezzo non è solo quello di cui parla e vissuto da Massimo Carminati, è tutta la zona grigia dove si incontrano persone che appartengono a qualsiasi ceto sociale, per così dire, e svolgono qualsiasi lavoro, in qualunque parte dell’Italia o del mondo. Braccio armato, manovalanza, criminali, uomini che si appellano d’onore, colletti bianchi, commercialisti, medici, avvocati, funzionari, ingegneri, architetti, commercianti, imprenditori, finanzieri, banchieri e bancari, poliziotti, magistrati, giudici, agenti dei servizi, politici, militari… un vero e proprio esercito di persone grigie che danno origine e mantengono in vita un sistema borderline dai contorni non ben definiti, ed è proprio su questa incertezza che si vuol far perno per allontanare da sé lo spettro del concorso esterno in associazione mafiosa. Perché lo sanno tutti che questa non è una buona cosa, anche laddove dovesse mancare una legge scritta a inquadrarla come crimine mafioso.

Durante il seminario Antimafia italo-argentino, tenutosi a marzo 2019 presso la Camera dei Deputati della Repubblica Argentina, il pm Antonino Di Matteo ha evidenziato i caratteri peculiari della mafia italiana, in particolare di Cosa nostra, come riportato in un articolo pubblicato su antimafiaduemila.com a firma di Giorgio Bongiovanni. Di Matteo ha ricordato anche le motivazioni della sentenza Andreotti, «in cui si certifica come il sette volte presidente del consiglio (il cui reato è stato prescritto) abbia avuto rapporti organici con Cosa nostra almeno fino al 1980», e quella «definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa contro l’ex senatore, fondatore di Forza Italia con Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri». Sottolineando inoltre come «il potere di Cosa nostra derivi proprio dai rapporti con l’esterno, con le istituzioni deviate ed i grandi poteri».

Secondo quanto riportato dai collaboratori di giustizia, Salvatore Riina diceva sempre: «Se noi non avessimo avuto il rapporto con la politica noi eravamo solo una banda di sciacalli e lo Stato con un’azione di normale repressione ci avrebbe schiacciato». Sottolinea il pm Di Matteo che le istituzioni, in Italia ma non solo, devono comprendere che «per poter sconfiggere le mafie non è sufficiente reprimere negli aspetti più violenti ma bisognerebbe recidere ogni possibilità di rapporto con i poteri politici e istituzionali».
Riguardo il reato di concorso esterno, che deve necessariamente essere ricondotto alla categoria dei reati di durata, Nino Di Matteo precisa che «al di là dell’evoluzione giurisprudenziale è la decisiva importanza di colpire adeguatamente quelle manifestazioni criminali che, pur non apparendo immediatamente riconducibili all’associazione mafiosa, in realtà costituiscono la chiave d’accesso che le mafie utilizzano per condizionare a loro favore la politica e le attività di tutte le pubbliche amministrazioni».

«Mafia e corruzione, ne sono convinto, sono due facce della stessa medaglia: aspetti operativi distinti, ma non diversi, di un sistema criminale integrato.»

Nei commenti ai tanti articoli letti sull’argomento, tratti da testate giornalistiche nazionali e locali, di ogni colore politico possibile, ricorre una frase che fa molto riflettere: “uno o è mafioso o non lo è, che significa concorso esterno in associazione mafiosa?”. Al di là della semplicità di un simile pensiero, che può nascondere molta ingenuità oppure molta malizia, si evince il grande problema di fondo, che è culturale prima ancora che giuridico. Sono gli altri a essere dei criminali, dei mafiosi, dei delinquenti, anche se io chiedo un favore oppure lo faccio, se prendo una bustarella o se la passo a qualcuno, se infrango le regole, le leggi, i regolamenti… non sono certo un criminale, un delinquente o un mafioso. I mafiosi, quelli veri, quelli pungiuti lo sono.
La legge andrà sicuramente migliorata, meglio definita, ma questo per certo non basterà a risolvere il problema o arginarlo.
Il procuratore Franco Roberti, nella prefazione a Guardare la mafia negli occhi (Rizzoli 2017) di Elia Minari, scrive che «la forza delle mafie è fuori dalle mafie». Per Minari riuscire a contrastare la criminalità organizzata significa innanzitutto «scalfire la “mentalità mafiosa” partendo da ciascuno di noi, senza delegare agli altri, senza aspettare che arrivino leggi migliori, perché di certo non diventeremo onesti per decreto legge».


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Glifo Edizioni per la disponibilità e il materiale


LEGGI ANCHE

La vera lotta alla mafia passa anche attraverso una memoria storica che racconti la verità. “Le Trattative” di Antonio Ingroia e Pietro Orsatti (Imprimatur, 2018) 

Il maxiprocesso di Palermo ha davvero messo in ginocchio la mafia? Intervista ad Antonio Calabrò 

 “Il Patto sporco” di Nino Di Matteo e Saverio Lodato (Chiarelettere, 2018) 

Quando inizieremo a fare sul serio contro le mafie? “L’inganno della mafia” di Gratteri e Nicaso (RaiEri, 2017) 

Una lunga e scusa vicenda di sangue e potere: “Storia segreta della ‘Ndrangheta” di Gratteri e Nicaso (Mondadori, 2018)   

Non diventeremo onesti per decreto legge: “Guardare la mafia negli occhi” di Elia Minari (Rizzoli, 2017) 

Il dossier “UNDER. Giovani mafie periferie” curato da Danilo Chirico e Marco Carta per illuminare il buio dei suburbi di vita (Giulio Perrone Editore, 2017) 

“Santa Mafia. Da Palermo a Duisburg: sangue, affari, politica e devozione” (Nuovi Mondi Edizioni, 2009). Intervista a Petra Reski 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Quarta: I nuovi modi di fare Editoria

16 sabato Mar 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

WMI

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Analisi dei nuovi modi di fare editoria. Pubblicazioni a pagamento, auto-pubblicazioni, scrittura social. Nuova e vecchia editoria a confronto.

 

 

Sul sito dell’Associazione Italiana Editori (AIE) si possono facilmente trovare tutte le indicazioni sulle procedure e sulle regole da seguire per diventare un editore. Viene segnalato inoltre quanto complesso sia il cumulo di norme che regolano l’esercizio dell’attività editoriale e sottolineati gli obblighi che ciascuno deve rispettare nel corso della propria attività.
Gli editori sono, in buona sostanza, degli imprenditori che commercializzano libri o periodici. Imprenditori particolari però, perché nelle loro mani passano la cultura, l’informazione, l’educazione.
Oltre l’aspetto commerciale quindi non va mai dimenticato il carattere peculiare di queste aziende chiamate case editrici.

Nell’anno 2017 sono state quasi 5mila le case editrici che hanno pubblicato almeno un titolo, ovvero un’opera letteraria. Eppure tutte queste imprese sembrano non bastare o non soddisfare le richieste dell’utenza. Di chi vuol pubblicare non di chi vuol leggere, si badi bene. Ecco allora spiegato uno dei motivi del sorgere di sempre nuovi modi di fare editoria.

Ma cosa si intende esattamente con nuovi modi di fare editoria? È bene partire da una definizione di quello “vecchio”.

In un’intervista di Ada Gigli Marchetti pubblicata sul Bollettino di storia dell’editoria in Italia, Franco Angeli sottolineava che la sua è nata come una «impresa familiare che trae finanziamenti dal prodotto che commercializza. L’editoria basa la sua prosperità sul prodotto che riesce a diffondere. E si tratta di un prodotto che paga a posteriori con i diritti d’autore». L’editoria quindi, nella visione che aveva Franco Angeli, non ha bisogno di un grosso investimento di capitali iniziale, se non per quanto riguarda le librerie, tuttavia «ha un solo vero problema, quello di azzeccare i titoli giusti e di mettere insieme un catalogo adeguato».

Quello che conta insomma è la scelta dei titoli giusti e la formazione di un catalogo adeguato. E come si fa? Lo si impara con la formazione e la pratica. Il rovescio della medaglia vede una sempre più massiccia diffusione di siti, piattaforme, start up, società, aziende e via discorrendo che sembrano voler mescolare le carte e anche le regole di questo “gioco” chiamato editoria.

Dapprima ci hanno provato quelli che si fanno chiamare egualmente editori, lasciando sottintendere di esserlo, i quali però non essendo in grado di effettuare una accurata e lungimirante scelta di titoli e, di conseguenza, di un valido catalogo che è, in buona sostanza, il biglietto da visita e al contempo la credenziale maggiore per una casa editrice, accettano di pubblicare chiunque e in qualunque momento. A volte senza neanche stare troppo a sindacare sulla forma e sul contenuto dei titoli pubblicati. Una chimera per scrittori e aspiranti tali? In genere sì. Il trucco c’è e viene prontamente svelato al momento della presentazione del conto. Agli “editori a pagamento” non andrebbe permesso l’uso di detto appellativo. Sono tipografi o stampatori, insomma operatori del settore editoriale ma non certo editori.

Serviva davvero poco affinché qualcuno iniziasse a pensare che invece di pagare un presunto tale editore che comunque non garantiva adeguati editing, promozione e diffusione, si poteva anche eliminare del tutto questa superflua figura di intermediario e pubblicarsi da soli i propri libri. In tipografie o stamperie fisiche o digitali. Ecco allora che nasce il self publishing. Il punto però è che, se non si ha accesso alla distribuzione, se non si ha un grande numero di lettori, se non ci si affida comunque a qualche professionista della promozione, il risultato che si ottiene è più o meno lo stesso della pubblicazione a pagamento. In più va detto che sono davvero pochi i titoli auto-pubblicati che meritano o meriterebbero un’adeguata pubblicazione editoriale. Lo stesso vale per le pubblicazioni con i cosiddetti editori a pagamento.

Nel 2016 gli editori italiani hanno pubblicato 61.188 titoli, per un totale di copie stampate di 128.825. A questi numeri vanno aggiunti i titoli pubblicati con editori a pagamento e quelli auto-pubblicati. E vanno aggiunti ancora tutti gli e-book. Sempre nel 2016 la quota di lettori italiani è risultata essere ancora in calo. Rispetto al totale di potenziali lettori (ovvero tutti i cittadini al disopra dei sei anni) solo il 40.5% ha dichiarato di aver letto almeno un libro in un anno. Presumibilmente tra essi ci sono anche molti degli aspiranti scrittori. Una situazione a dir poco paradossale.

Considerando la mole degli aspiranti scrittori in Italia il numero di lettori dovrebbe essere altissimo, e si parla di quelli definiti forti, che hanno letto molto più di un solo libro in un anno. Non si può davvero pensare e per lungo tempo di poter scrivere libri senza essere un lettore non forte ma fortissimo. Anche e per certi versi soprattutto per coloro i quali si professano sostenitori del progresso e dell’innovazione, in campo editoriale, che osteggiano il predominio degli arcaici colossi editoriali, che criticano il lavoro dei piccoli e medi editori, che non condividono la missione dell’editoria indipendente. Di coloro insomma che sembrano fare affidamento esclusivo sui nuovi e innovativi mezzi di socializzazione e condivisione. Essere innovativi, stare al passo con i tempi, ambire a una rivoluzione culturale non preclude affatto le competenze e le conoscenze che permangono e rimangono elemento necessario e imprescindibile.

Le piattaforme di social publishing consentono di scrivere e condividere i propri scritti, perlopiù brevi storie. Una sorta di blog collettivi cui partecipano coloro che scrivono e coloro che leggono, o dovrebbero leggere. Affinché il tutto funzioni, si afferma essere molto di aiuto la lunghezza breve delle storie. Così, senza troppo impegno, chiunque abbia cinque minuti liberi li può passare leggendo la short story. Che poi, alla fin fine, è quanto accade nei social network per così dire “tradizionali” allorquando non si condividono o non si leggono articoli e link vari provenienti da altri siti ma quelli scritti sulla timeline, i post personali. Il rischio infatti è che le caratteristiche e la qualità di quanto scritto sia in realtà molto livellata per entrambe le tipologie di piattaforma, quella del social network e quella del social publishing.

Va da sé che ognuno può scrivere ciò che gli pare, nei limiti della legge e del decoro, ovunque gli pare, anche su un papiro se è ciò che vuole, ma parlare di scrittura di un libro, di pubblicazione di un’opera letteraria, di essere o diventare uno scrittore è un’altra cosa. Che questo sia chiaro.

«Se numericamente c’è molta concorrenza, nei fatti il livello medio dei manoscritti inviati e il livello delle capacità degli aspiranti scrittori è talmente basso, il livello di totale inconsapevolezza rispetto a quel che viene scritto e impunemente inviato è così tragicamente alto, che se siete cerebralmente normodotati, lettori abituali, e fate esercizio di scrittura creativa da qualche tempo, per voi sarà quasi impossibile non riuscire a pubblicare», con un «vero piccolo, medio o grande editore». A dirlo è Marco Cubeddu, caporedattore della rivista letteraria Nuovi Argomenti in un articolo pubblicato su Linkiesta.it.
È presumibile pensare che i tanti, tantissimi aspiranti scrittori i cui manoscritti vengono dichiarati illeggibili o non pubblicabili trasmigrino prontamene, insieme alle proprie opere, in Rete, sui social, sulle piattaforme di scrittura social, su quelle di auto-pubblicazione e via discorrendo, ma nella sostanza, ovvero nella qualità degli scritti, ancora nulla è cambiato.

Cubeddu riporta un esempio che lui stesso ricorda essere banale e abusatissimo ma che funziona, perché rispecchia la realtà. «Statisticamente, la maggior parte delle volte, se sentite rumore di zoccoli, si tratta di un cavallo. Rarissimamente di una zebra. Cavallo=testi illeggibili, Zebra=testi leggibili, interessanti, pubblicabili…» e conclude affermando che «ci vuole una grande autostima per sentirsi zebre». Oppure vanagloria, allorquando ci si sente delle zebre senza aver ritenuto necessario e doveroso leggere, leggere e ancora leggere libri, senza essersi immersi nel mondo della Letteratura, della Cultura, senza essersi esercitati a scrivere, a riscrivere, a rivedere…

Da uno sguardo sommario in Rete emerge che tutti questi nuovi modi di fare editoria, lanciati nel web come importanti novità, tanto attesi affrancamenti dalla vecchia e superata editoria tradizionale, sono poi, pian piano, tutti scemati. Non che gli aspiranti abbiano smesso di scrivere o di cercare un modo alternativo per diffondere le proprie opere letterarie. Solamente che, forse, i due modi di fare editoria non sono né complementari né alternativi, sono proprio due cose diverse e così vanno viste oltre che pensate.


Articolo apparso sul numero 53 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


LEGGI ANCHE

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Terza: I colossi dell’Editoria 

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Seconda: Gli editori indipendenti 

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Prima: Piccola e Media Editoria 

Chi è lo scrittore più bravo al mondo? 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Ancora minacce al Movimento Agende Rosse – sezione Modena e Brescello. Le attiviste non si arrendono. Che la loro lotta diventi di tutti gli italiani

10 venerdì Ago 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

articolo, mafia

Il 22 luglio scorso attiviste del Movimento antimafia Agende Rosse – sezione di Modena e Brescello allestiscono un banchetto a Serramazzoni nell’ambito del tour Donne contro la mafia–19luglio1992 che vede numerose tappe, oltre a quella nella cittadina emiliana.

Il fomat vede la presenza di donne, impegnate a vario titolo nella lotto contro le mafie, che si prefiggono un unico grande obiettivo: opporsi fermamente a un sistema mafioso che da decenni si è radicato anche nel Nord Italia.

L’incontro-banchetto del 22 luglio prevedeva la trasmissione dei discorsi del 19 luglio, registrati a Palermo in occasione della commemorazione della strage di via D’Amelio, e l’affissionedi striscioni e altro materiale inerente il processo Aemilia.

Secondo quanto riportato anche dalla Gazzetta di Modena, durante la manifestazione pacifica e informativo-divulgativa, alcuni uomini si sono avvicinati al banchetto e, mantenendo sguardi fissi e minacciosi, hanno tentato di dissuadere le attiviste con plateali e inequivocabili gesti dellamano, come a voler dire: “finitela qui e andatevene via subito”. Una foto sarebbe stata scattata, come fosse una segnalazione di schedatura e poi il pedinamento di una delle tre attiviste allorquando si è allontanata, da sola, dal luogo del banchetto.

Sabrina Natali, una delle attiviste che da anni ormai segue l’inchiesta e i dibattimenti in aula del processo Aemilia contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Nord Italia, sul suo profilo social ha ringraziato tutti coloro che le hanno mostrato solidarietà. Ha ribadito che “questi segnali di fastidio” sono e restano tali e non riusciranno a intimorire né tantomeno fermare il Movimento, il tour e il lavoro tutto che portano avanti. Fondamentale però è la rete, che deve esserci, e che deve fare quadrato intorno a loro, come a tutti gli attivisti o cronisti minacciati.

Una rete fatta di persone, di parole e di azioni concrete. Una rete che deve, o meglio dovrebbe, passare anche attraverso l’informazione, i media. Perché quanto sta accadendo in Emilia Romagna non è molto dissimile da quanto accade in Calabria, in Puglia, in Campania, in Sicilia, in Lombardia, in Veneto… e tentare, inutilmente, di catalogare i fatti come fraintendimenti, le azioni come visionarie e paranoiche immagini di pochi, le inchieste e i processi come una persecuzione giudiziaria, di fatto, non cambierà la realtà delle cose e non renderà l’Emilia Romagna e l’Italia intera un posto migliore solo perché, per non urtare interessi, turismo e commercio, si sceglie e si preferisce non parlare, non vedere, non capire. O meglio fingere di non vedere e non capire.

Al banchetto era presente anche Catia Silva, ex-consigliere al comune di Brescello, primo nel Nord Italia a essere stato sciolto per mafia, più volte oggetto di minaccia.

La tempestiva comunicazione alle forze dell’ordine di quanto accaduto durante il banchetto del 22 luglio ha reso possibile l‘immediato inizio delle attività investigative. Intanto le attiviste dichiarano di non avere intenzione alcuna di arretrare e confermano un nuovo incontro a Serramazzoni per il 19 agosto e la presenza costante in aula alla ripresa delle udienze per il processo Aemilia a partire dal 6 settembre.

Ecco perché la rete della comunità deve farsi ancora più forte e folta e quella dei media ancora più luminosa, affinché una accecante luce abbagli anche l’ombra di tutta quella zona grigia che vorrebbe e chiede invece profilo basso e silenzio per continuare ad agire indisturbata.


Articolo originale qui


LEGGI ANCHE

Ci sono verità che si vorrebbe tenere nascoste per sempre eppure “Quel terribile ’92″… 

Non diventeremo onesti per decreto legge: “Guardare la mafia negli occhi” di Elia Minari (Rizzoli, 2017) 

Grande raccordo criminale. Intervista agli autori 

Quando inizieremo a fare sul serio contro le mafie? “L’inganno della mafia” di Gratteri e Nicaso (RaiEri, 2017) 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Segnalazione Videocontest Urban Nature: WWF e Videomakeroftheyear insieme per la biodiversità

25 mercoledì Lug 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento


LEGGI ANCHE

Il futuro della comunicazione sono i video? Nasce a Milano il Festival #videomakeroftheyear 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

← Vecchi Post
Articoli più recenti →

Sostieni le Attività di Ricerca e Studio di Irma Loredana Galgano

Translate:

Articoli recenti

  • Madhumita Murgia, Essere umani. L’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite
  • Vincenzo Patanè, Una piccola goccia d’inchiostro
  • Angelo Panebianco, Identità e istituzioni. L’individuo, il gruppo, la politica
  • Federico Fornaro, Una democrazia senza popolo. Astensionismo e deriva plebiscitaria nell’Italia contemporanea
  • Gabriella Grasso, Smettetela di dirci che non siamo felici

Archivi

Categorie

  • Articoli
  • Interviste
  • Pubblicazioni Scientifiche
  • Recensioni

Meta

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Proudly powered by WordPress

Questo sito utilizza i cookie per migliorarne l'esperienza d'uso. Continuando la navigazione l'utente ne accetta l'uso in conformità con le nostre linee guida.