Oggi le donne sono al potere. Dirigono imprese, governano paesi, comandano eserciti. Ne hanno conquistato il diritto. Ne sono capaci. Ma nulla va dato per scontato.
Questo il motivo per cui Giulia Sissa, docente di scienze politiche alla University of California, ha ritenuto necessario un libro che ripercorresse la tappe determinanti di questo lungo e tortuoso percorso che dagli antichi greci giunge fino a noi e ha, come meta, la parità l’eguaglianza e il rispetto reciproco.
I greci hanno saputo immaginare ragazze eroiche, madri autorevoli, regine guerriere. Ma hanno anche inventato l’autogoverno di cittadini guerrieri, la demokratia, nel quale il popolo è maschio e deve essere virile. Ed ecco che le donne potenti diventano impossibili.
L’uomo è un animale politico e la donna un animale domestico: Aristotele organizza queste idee in un sistema di pensiero. Il cristianesimo ne diffonde i principi e ne rafforza il rigore.
Sarà solo alla fine del Settecento che emergeranno nuovi diritti, i quali appartengono a ogni individuo in quanto essere umano, senza distinzione di genere. È il progetto emancipatorio dei Lumi. È la premessa della qualità democratica moderna. Per Giulia Sissa, è il nostro orizzonte.
Le donne non sono identiche agli uomini e gli uomini non sono identici alle donne. Biologicamente è così. Per cui, nell’analisi dell’autrice, ciò che rende veramente possibile l’emancipazione e l’uguaglianza lo dobbiamo a quei filosofi che sostituiscono la legge naturale con i diritti umani. Lo dobbiamo alla cultura dei Lumi. Non quella portata avanti da Rousseau il quale, ancora più sprezzante di Aristotele, rifiuta alle donne la possibilità di “coltivare” la ragione, ossia di ricevere un’istruzione adeguata, accusandole di usurpare diritti non dovuti. È con Condorcet che il progetto dell’Illuminismo comincia ad apportare chiarezza scientifica, a sostituire il biasimo con il sapere.
Ancora oggi si dà per scontato che le donne, anche le donne politiche scienziato astronauta medico ingegnere, siano invischiate nella domesticità alla quale, del resto, non si smette di ricondurle. Si mette in risalto la loro apparenza fisica, come se avesse in qualche modo a che fare con ciò che pensano, dicono e contro cui si battono o da cui si difendono.
Le donne vivono la loro presenza in posizioni di alta responsabilità come un’intrusione in un universo solidale, omogeneo, fratriarcale.1 In tali condizioni giungono a dubitare della loro legittimità. Forse il motivo per cui sovente si assiste a una sorta di metamorfosi riguardo le donne che hanno il potere – politico o economico – e che ricoprono ruoli apicali. Attivano una sorta di mascolinizzazione, evidente nei comportamenti, nelle espressioni verbali e, a volte, anche nell’abbigliamento. Quasi a voler celare la loro reale identità e tentare di uniformarsi o mimetizzarsi all’interno di questo ambiente fratriarcale che le circonda.
I teorici contemporanei della democrazia si appoggiano al postulato dell’universalismo: il demos moderno è inclusivo. Nei processi di democratizzazione vediamo emergere l’aspirazione a un’uguaglianza sociale, intesa come equivalenza, autonomia e partecipazione.2 L’equivalenza significa attribuire un valore uguale a individui che appartengono a gruppi sociali diversi ma che sono tuttavia riconosciuti e rispettati nella misura in cui condividono tutti una stessa umanità. Ammettere tutti i cittadini al diritto di cittadinanza non significa abolire le differenze – di ricchezza, status, classe, genere – bensì trascendere queste distinzioni in vista di un livello superiore di somiglianza umana.
Il libro
Giulia Sissa, L’errore di Aristotele. Donne potenti, donne possibili, dai greci a noi, Carocci Editore, Roma, 2023
1F. Gaspard, Du patriarcat au fratriarcat. La parité comme nouvel horizon du feminisme, in «Cahiers du genre», 2-3, 2011.
2P. Rosanvallon, La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma, 2013.
Una delle immagini che vengono in mente quando si pensa all’antica Roma è quella dei giochi gladiatori: enormi anfiteatri gremiti di spettatori che gridano ed esultano, mentre nell’arena uomini armati si affrontano in duelli all’ultimo sangue o combattono contro bestie feroci.
Come nacquero queste manifestazioni? Qual era il reale significato?
Sono questi i quesiti da cui parte il libro di Campanelli. Un racconto in chiave storica di un aspetto assolutamente particolare della Roma antica che ancora riecheggia nell’arte, nel cinema e soprattutto nello sport.
Chi erano i gladiatori? Lo ricorda in maniera molto dettagliata l’autrice che questi altro non erano che prigionieri di guerra, criminali, schiavi e talvolta volontari, pronti a mettere in gioco la propria vita per guadagnare fama, onori o semplicemente una seconda possibilità.
Impressiona molto la dedica con cui si apre il libro al lettore: alla memoria di tutti gli animali, le donne e gli uomini perseguitati e uccisi negli anfiteatri.
Riporta la mente alla forza attrattiva esercitata dai giochi gladiatori sulla follla. Un fascino cui è stato difficile sottrarsi anche dopo l’avvento del Cristianesimo.
Il popolo amava troppo gli spettacoli per potervi rinunciare, fossero lotte tra gladiatori, battute di caccia – venationes – o simulazioni di imponenti battaglie navali – naumachiae. La sete di sangue era così intensa che si giunse ad allestire rappresentazioni teatrali sostituendo all’attore professionista un condannato alla pena capitale, così da vederlo morire realmente.
E allora Campanelli si chiede come sia stato possibile che una civiltà tanto razionale e pragmatica come quella romana, fondata sul diritto e dove ogni azione doveva essere basata sul fondamento, abbia fatto della violenza gratuita su animali e uomini una forma di svago.
Impossibile credere che tutti i romani fossero affetti da un disturbo sadico della personalità, eppure le grandi mattanze di belve, i supplizi pubblici e soprattutto i duelli cruenti tra uomini rappresentavano il passatempo preferito, finendo per diventare anche un potente strumento di condizionamento ideologico e di propaganda politica.
Inoltre l’autrice sottolinea che, nella cultura del tempo, la compassione era sinonimo di debolezza. Gli spettacoli cruenti erano parte della vita quotidiana e sottoporre un condannato a castighi feroci era considerato iustum, ovvero «conforme alla giustizia», oltre che avere un’importante valenza educativa e formativa per l’intera comunità.
Le prime esibizioni di gladiatori si tennero a Roma alla metà del III secolo a.C., ma al tempo non erano ancora quella grandiosa e avvincente forma d’intrattenimento pubblico che avrebbe ammaliato fino allo stordimento il popolo in età imperiale. Ricorda l’autrice che i giochi gladiatori derivano da una pratica di carattere sacro e privato strettamente connessa al mondo dei morti.
Il duello cruento era un omaggio offerto al defunto dai propri eredi in occasione dei ludi novendiales, i giochi funebri che chiudevano il periodo di lutto della durata di nove giorni.
I numera – giochi gladiatori – prima di trasformarsi nel genere di intrattenimento più diffuso e gradito dalla plebe, rappresentavano un voto, un impegno solenne verso gli dèi e il defunto, nella convinzione che il sangue umano versato sulla tomba riconciliasse la vita terrena con l’aldilà.
Una tradizione già in uso nell’antica Grecia.
Il popolo romano assistette per la prima volta a uno spettacolo di gladiatori nel 264 a.C.
Negli stessi anni in cui comparvero i duelli gladiatori prese forma un altro genere di attrazione: la venatio, letteralmente «battuta di caccia». In realtà, rimanendo nell’ambito degli spettacoli, con questa parola gli antichi indicavano un’ampia serie di performance con animali, dalla semplice sfilata di specie esotiche come struzzi, giraffe, ippopotami e coccodrilli, al combattimento tra le belve, fino alla caccia nelle arene. A differenza dei numera, le cacce non avevano alcun valore sacrale e si configuravano piuttosto come un’attrazione strettamente connessa alla guerra di conquista e alla vertiginosa espansione dell’Urbe dalla penisola italica all’intero bacino del mediterraneo, eventi che permisero ai romani di entrare in contatto con animali esotici e sconosciuti.
Secondo i calcoli effettuati nel 2012 da Elliott Kidd, la perversa attrazione per le venationes avrebbe condotto, in cinque secoli di spettacoli, allo sterminio di circa due milioni e mezzo di animali in tutto il territorio dell’impero.1
Le naumachiae erano il più costoso e scenografico genere di spettacolo che gli antichi potessero concepire, capace di riesumare e far rivivere episodi bellici di epoche passate, con la differenza che gli attori che prendevano parte maneggiavano armi reali e spesso morivano davvero.
Esisteva anche una forma d’intrattenimento che Campanelli descrive come solo in apparenza molto diversa, segnata da un carattere di crudeltà ancora maggiore: le esecuzioni capitali. Non l’uccisione di un detenuto sulla pubblica piazza ma di vere rappresentazioni teatrali con tanto di canovaccio narrativo, maschere, costumi di scena, effetti speciali e accurate scenografie. Solo che a interpretare tali farse non erano degli attori professionisti, bensì donne e uomini torturati fino alla morte.
I gladiatori non erano solo dei «barbari» provenienti da nazioni selvagge fatti prigionieri e ridotti in schiavitù, molti di loro erano anche dei provinciali, altri giungevano persino dalla penisola italiana, Roma compresa, ed erano di condizione libera, sebbene in misura minore.
Entrando in una famiglia gladiatoria, tutti i combattenti, seppur con qualche eccezione, erano obbligati a risiedere all’interno delle caserme, dove tanto gli schiavi quanto gli uomini liberi venivano sottoposti alla rigida disciplina imposta dal lanista – istruttore o proprietario di una scuola gladiatoria – e a un regime di sorveglianza più o meno restrittivo. Il ludus era dunque un luogo molto più simile a una prigione che a una caserma e chi tentava di fuggire o di ribellarsi doveva tollerare la detenzione e subire pesanti punizioni corporale come la flagellazione e il ferro rovente.
La vita quotidiana all’interno dei ludi non era solo faticosa, ma anche scomoda. Lo stesso alloggio – di fatto una camera detentiva di non più di 10-15 metri quadrati, nel migliore dei casi 20 metri quadrati circa, sottolinea Campanelli – era occupato contemporaneamente da due o tre uomini, il più delle volte era privo di finestre e gli archeologi sostengono che non fosse nemmeno dotato di veri letti ma solo di giacigli di fortuna messi a terra.
D’altra parte, ricorda l’autrice, il disagio veniva compensato con una serie di servizi solitamente negati alla plebe urbana, a partire dall’assistenza medica. I gladiatori avevano a disposizione medici ma anche unctores, ossia i massaggiatori sportivi, che avevano il compito di ridurre la tensione muscolare e accelerare la guarigione delle contratture.
Per quanto strapazzati, i gladiatori dovevano rendere il massimo dal punto di vista fisico, diversamente il lanista non avrebbe potuto ricavarne alcun profitto.
Persino la dieta meritava un’attenzione particolare e a giudicare dal vitto si direbbe che il fisico dei gladiatori non fosse particolarmente muscoloso e asciutto come ci si aspetterebbe da un atleta. A dispetto delle durissime condizioni di vita, sottolinea Federica Campanelli quanto sia in realtà plausibile che questi uomini si nutrissero in maniera più che abbondante e con regolarità, assumendo cibo volto a favorire un buon apporto calorico e lo sviluppo di uno strato di adipe che li proteggesse dai colpi di arma da taglio cui erano esposti.
L’apertura al Cristianesimo da parte dell’impero sotto Costantino non ebbe effetti immediati sui numera, che continuarono a essere messi in scena almeno fino al principio del V secolo d.C. Al tramonto dei numera concorsero soprattutto ragioni di ordine economico, il venir meno di prigionieri di guerra – principale fonte di reclutamento dei gladiatori –, il mutato atteggiamento delle autorità pubbliche e anche il decadimento strutturale di teatri e anfiteatri.
Campanelli ricorda come l’aggressività è un impulso ancestrale, insito nella natura stessa dell’uomo, e ha costituito la prima «arma» quando gli uomini hanno dovuto combattere contro le altre creature viventi del pianeta per sopravvivere.
Ancora oggi sono milioni i seguaci di discipline sportive caratterizzate da competizione e una buona dose di aggressività, esiste tuttavia un’enorme differenza rispetto al passato: i combat sport come karate, boxe, arti marziali e wrestling mettono in scena una violenza solo simulata e anzi aiuterebbero a conoscere il proprio «lato oscuro» e a gestire gli impulsi aggressivi.
Nessun atleta contemporaneo rischierebbe menomazioni e finanche la vita per una professione miserabile, ciononostante si ha la tendenza a comparare la figura del gladiatore con le prodigiose stelle dello sport.
Dall’analisi di Campanelli emerge come, in realtà, i gladiatori erano poco più che scarti umani da dare in pasto all’arena, nulla a che vedere con il patinato e redditizio mondo sportivo attuale, soprattutto calcistico. Il mestiere del gladiatore non dava alcuna garanzia economica, quindi gli atleti moderni hanno davvero poco da spartire con i gladiatori.
Il libro
Federica Campanelli, La grande storia dei gladiatori. Dalle origini del mito agli ultimi combattimenti: tutto quello che c’è da sapere sui leggendari eroi dell’antica Roma, Newton Compton, Roma, 2023
1Elliott Kidd, Beast-Hunts in Roman Anphitheaters: the Impact of the Venationeson on Animal Populations in the Ancient Roman World in The Eagle Feather Undergraduate Research Journal – vol. 9, Università del Texas, Denton, 2012
Cosa può mai accadere di brutto sull’isola della felicità? Perché è in questo modo che tutti conoscono la piccola isola di Lauttasaaari, a pochi chilometri dal centro di Helsinki. Un’isola, una città e una nazione – la Finlandia – pressoché perfette sotto molti aspetti. Eppure Eeva Louko immagina una storia nella quale i tormenti della giovane protagonista la spingono a fuggire da quei posti, lontano, per ricominciare una nuova vita. Vi farà ritorno, Ronja, perché l’isola della felicità le ha portato via il padre, uccidendolo. Beh non proprio l’isola ma quello che vi accade e rimane nascosto.
Indagando a fondo su quanto accaduto, nel tentativo di far luce sugli eventi che hanno portato alla morte del padre, Ronja scopre un mondo sommerso, un uomo completamente diverso da quello che sapeva o immaginava essere suo padre, e tanti segreti e bugie in una piccola e isolata comunità. Ed è proprio su questo grande isolamento che il lettore viene invogliato, più volte, a riflettere. Sulla vita delle persone che vivono queste piccole realtà lontane dal resto del mondo, isolate per lunghi periodi, costrette, in un certo qual modo, a vivere insieme e condividere tutto. Anche i segreti. Che diventano di tutti per restare di nessuno.
Si è trattato di vendetta, regolamento di conti o di un brutale omicidio a sangue freddo? Ronja indaga sempre con maggiore foga nella speranza che, svelando il mistero, scopra anche chi fosse stato in realtà suo padre. E, soprattutto, che legame o ruolo avesse avuto nella scomparsa di due bambini dalla spiaggia di Kasinonranta nel 1975.
Perché la madre di quei bambini vuole far del male a lei? Che rapporti aveva con suo padre?
Domande che diventano veri e propri tormenti per la protagonista del libro costretta anche a fare i conti con un passato che credeva dimenticato, che pensava di aver superato con la sua nuova vita a Londra.
Indagando sull’omicidio di suo padre, Ronja si ritrova più volte a indagare se stessa, realizzando di non essere mai stata la figlia perfetta che sempre aveva creduto essere e così, non senza tribolazioni, la ricerca della verità diventa anche una forma di redenzione personale. Di riscatto dai propri sensi di colpa.
Delitto sull’isola di ghiaccio è il romanzo d’esordio di Eeva Louko ma, per certo, ella dimostra di conoscere a fondo il mondo della comunicazione e del “male”. La storia è costruita e narrata in ogni dettaglio con una capacità di scrittura che rendono notevole la lettura di questo libro. Una concatenazione di eventi nella quale ogni singolo momento trova la sua casella a formare il mosaico perfetto regalando al lettore suspence e intrattenimento. Un viaggio nella fantasia degli eventi ma sempre con i piedi ancorati al territorio di cui sembra quasi poter godere di odori e sapori. Svelando i misteri della storia che si è inventata l’autrice regala al lettore anche spaccati di vita reali dei luoghi narrati.
Il libro
Eeva Louko, Delitto sull’isola di ghiaccio, Newton Compton Editori, Roma, 2023. Traduzione di Paola Brigaglia.
L’autrice
Eeva Louko: reporter esperta di comunicazione, specializzata nelle storie crime e horror.
I miti in generale ma quelli dell’antica Grecia in particolare rappresentano un mare vastissimo di trame, frutto di stratificazioni e aggiustamenti avvenuti nel corso dei secoli. Le vicende di eroi, maghe, mostri leggendari e dèi capricciosi sono archetipi che risuonano nel nostro immaginario anche quando non ce ne rendiamo conto. Perché, ricorda Agizza, i motivi che ricorrono nel mito ritornano nel nostro quotidiano ben più di quello che potremmo pensare.
Nei millenni è avvenuto che un universo mitologico ascrivibile a un orizzonte culturale che andava dall’India all’Iran, al mondo medioasiatico, al mondo germanico e celtico antico, fino ai limiti dell’antica Grecia, dell’Italia e dell’Africa settentrionale, resta attuale e riconoscibile soltanto per i segnali mitologici greci e, evidentemente, per quelli latini e romani.
È possibile individuare, allo stato attuale, livelli di rilettura diversa del medesimo strato mitologico originario: ellenistico, medievale, arabo, moderno e contemporaneo. In Miti e leggende dell’antica Grecia, Rosa Agizza ha tentato di ricostruire, con uno sforzo davvero notevole di aderenza ai testi originari, un mondo di autenticità mitologica che, nelle ipotesi avanzate, continua ad appartenere all’immaginario, anche linguistico, della nostra attuale cultura.
Fin dalle prime pagine, anzi addirittura le prime righe, il lettore viene letteralmente catapultato in un mondo davvero mitologico. Riesce l’autrice a rappresentare temi con una struttura così notoriamente complessa, in modo non semplice ma interessante, avvincente e coinvolgente. Così in chi legge si sviluppa quella necessaria curiosità che lo spinge ad andare avanti nella lettura anche quando si imbatte, inevitabilmente per la tipologia di libro, in ostacoli rappresentati da tecnicismi o apparenti ripetizioni, che sarebbe meglio chiamare precisazioni, necessarie proprio perché funzionali allo scopo del testo.
Ciò che senz’altro traspare fin dalla stessa introduzione è la grande passione dell’autrice la quale, unita alla notevole conoscenza della materia, rendono la lettura un’esperienza davvero interessante. Moltissime sono le informazioni che catturano l’attenzione del lettore, perché sembrano uno stravolgimento del sapere comune ma, ben presto, si realizza che sono le dovute precisazioni a un sapere mal interpretato o pluri-interpretato, adattato e modificato in base a pregiudizi o fraintendimenti.
Paradossalmente si può anche scegliere di restare fedeli alla proprie conoscenze e di considerarle le corrette interpretazioni e trasmissioni della mitologia ma ciò egualmente non toglierebbe meriti al libro di Rosa Agizzi e alle sue ricerche, perché condotte con metodo e con correttezza professionale.
Il libro
Rosa Agizza, Miti e leggende dell’antica Grecia. La storia mitologica della cultura greca dagli dei dell’Olimpo agli eroi e ai mostri dei poemi omerici, Newton Compton Editori, Roma, 2023.
L’autrice
Rosa Agizza: laureata in lingue presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, ha condotto lavori sul campo in materia storico-tradizionale e collabora con riviste specializzate.
Il Medioevo comprende svariati secoli. Si tratta di un’epoca lunghissima caratterizzata da avvenimenti i quali, spesso, hanno cambiato il corso della storia. Di esso ci si ricorda più delle immagini stereotipate piuttosto che delle grandi evoluzioni e dei cambiamenti avuti. Delfina Ducci ha deciso di raccontare il Medioevo dall’interno, dal punto di vista delle persone “comuni” che non vengono citate nei libri di storia, se non per grandi categorie, ma che c’erano e, in qualche modo, hanno contribuito allo svolgersi e al cambiamento della storia. Oppure ne hanno dovuto subire le conseguenze.
Guardare da vicino la vita di agricoltori, mercanti, soldati e sacerdoti può essere un modo per conoscere meglio la cosiddetta «epoca di mezzo», per avere un punto di vista privilegiato sugli aspetti concreti che scandivano la realtà dei medievali. Uomini e donne alle prese con la loro condizione sociale, con i costumi dell’epoca, gli alimenti, le usanze, gli amori e la sofferenza, gli sforzi per fare della loro esistenza qualcosa da conquistare anche attraverso le armi, il duro lavoro o l’intelletto.
Lo scopo dell’autrice è quello di comprendere abitudini, usi e mentalità di un’epoca che ella considera profondamente diversa da quella attuale. Un’epoca lunga che ha segnato indelebilmente il cammino della stessa evoluzione umana. Basti pensare alle numerose Guerre Sante e alle attuali guerre religiose. Un’epoca diversa certo, ma che può sempre aiutare a comprendere le attuali evoluzioni di società più o meno evolute rispetto ad allora.
Delfina Ducci ha scelto uno stile narrativo insolito per un libro del genere. Il narrato si presenta al lettore quasi come un romanzo, seguendo quindi gli eventi e gli sviluppi di personaggi da lei voluti, raccontando i quali l’autrice racconta il Medioevo. Ma la storia narrata non è mero frutto di fantasia, piuttosto il risultato di un lavoro approfondito di ricerca e analisi. La presenza di personaggi di sua invenzione ha per certo aiutato l’autrice nell’indirizzare il narrato verso potenziali riflessioni che mettano in relazione il passato con il presente, creando analogie e similitudini o, per contro, evidenziando tratti distintivi dell’una o dell’altra epoca.
Dietro tanta presenza dell’autrice, il rischio è che la storicità del narrato venga in qualche modo compromessa, sfumando anch’essa nell’immaginario. I riferimenti costanti alle fonti documentali sono un aiuto concreto affinché ciò non avvenga.
Il libro
Delfina Ducci, Il Medioevo giorno per giorno. Storie e segreti per conoscere da vicino la vita di agricoltori, mercanti, soldati e sacerdoti della cosiddetta «epoca di mezzo», Newton Compton Editori, Roma, 2023.
L’autrice
Delfina Ducci: ricercatrice e autrice di saggi di carattere storico e artistico. Impegnata in attività giornalistiche e incontri di studio sull’universo femminile.
Emilio Salgari è forse più di tutti lo scrittore che ha incarnato la forza e la potenza della fantasia quando incontra la penna e la carta. I viaggi che non si possono fare fisicamente diventano la materia prima da plasmare con le parole, i desideri, le emozioni, le sensazioni, le idee. E così anche un “viaggio virtuale” può diventare reale, a almeno sembrarlo.
Ora, non si sa se Mia Another sia fisicamente mai andata in Giappone, ma per certo la sua fantasia e la sua scrittura trasmettono egualmente tutta la forza e la potenza che a un buon libro viene richiesto. Racconta la storia dei suoi protagonisti l’autrice ma, soprattutto, conduce il lettore in un viaggio in Giappone, una terra tutt’ora esotica e affascinante che sembra essere raccontata da una persona che lì davvero ci ha vissuto.
Tokyo a mezzanotte si apre al lettore con una sgradevole vicenda che ha visto coinvolta la protagonista. Una situazione destabilizzante, acutizzata dal trasferimento in una nuova terra, diversa e complessa. Una terra da scoprire, riscoprire e amare, come la stessa vita dopo un brutto colpo, allorquando ti accorgi che, nonostante tutto, non tutto è perduto e vale sempre la pena ricominciare.
La storia è raccontata in prima persona alternando le voci dei due protagonisti principali, con uno stile narrativo molto attento, curato in ogni dettaglio. Riesce l’autrice a coinvolgere il lettore fin dalle prime battute e per certo gli appassionati del genere non resteranno delusi anche dalla prorompente sensualità della narrazione.
Il dualismo presente nella vita della protagonista e il fatto che, letteralmente ella debba “farsi” in due per guadagnare il più possibile, si ritrova anche nel racconto di una città, Tokyo, duale: fredda e stretta da rigide regole anche comportamentali quella diurna, scottante e misteriosa quella notturna.
L’immagine che Hailey si era creata del Giappone, grazie anche ai racconti fantasiosi del fratello che lì si era trasferito e, a suo dire, si era realizzato professionalmente e umanamente, impattano non poco con la realtà nella quale la ragazza si ritrova a vivere, soprattutto nella fase iniziale.
Senza lasciarsi troppo tentare da immagini stereotipate e pregiudizi netti, l’autrice racconta di un Giappone vero, di un Paese alle prese con i tanti problemi e difficoltà della vita quotidiana, né più né meno di tutti gli altri Stati del mondo. A tratti potrebbe quasi sembrare che l’autrice manifesti un marcato giudizio filo-americano ma, in realtà, il tutto sembra essere funzionale alla storia raccontata, ricordando, tra l’altro, che la protagonista è americana di origine.
C’è un ulteriore aspetto del libro che merita qualche considerazione. La protagonista è una ragazza giovane sempre alle prese con lo smartphone, con le app e con i social e sembra essere convinta che questo le basti per conoscere il mondo e, soprattutto, Tokyo. Naturalmente una volta atterrata in questa nuova città tutto le appare molto diverso, complesso e caotico. Troverà la sua guida ma, per la gran parte della narrazione, non sembrerà la scelta migliore. Il punto di congiunzione tra lei e la sua “guida” sembrerà essere la determinazione che entrambi hanno nel non volersi arrendere e nel voler andare avanti a ogni costo. Come il tempo che non si può mai fermare. Come i giorni che passano inesorabili. Anche se il loro punto di incontro sembra labile e inafferrabile come quell’attimo, a mezzanotte, che unisce e al contempo divide due giorni consecutivi.
È un libro interessante, Tokyo a mezzanotte di Mia Another, non tanto e non solo per la trama in sé quanto per le sfumature che l’autrice riesce a dare a singoli eventi e al carattere dei protagonisti, come dei personaggi in generale, ben ideati e che rappresentano forse la vera forza del romanzo.
Il libro
Mia Another, Tokyo a mezzanotte, Newton Compton editori, Roma, 2021. Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma.
L’autrice
Mia Another: pseudonimo di una scrittrice che vive nel modenese. Dopo aver lavorato in un web magazine a tema hi-tech, ha iniziato la sua avventura nel self-publishing.
Uno dei meriti che vanno senz’altro riconosciuti ai fratelli Carracci, in particolare Annibale, è l’aver trasformato la vita quotidiana in opera d’arte. Celeberrimo ed esemplare il suo dipinto Bottega del Macellaio (o Grande Macelleria, 1585 ca., olio su tela, 190×271, Oxford, Christ Church Gallery).
Perché sono solamente la vita vera, l’ambiente reale che ci circonda, le persone che lo vivono, lo attraversano, lo modificano, consapevolmente o meno, il capolavoro di cui alla fin fine vale sempre la pena narrare.
Bene lo ha compreso Maurizio Ponticello, il quale da anni ormai indaga a fondo ogni remoto angolo o mistero della sua città, del suo ambiente, per svelarne aspetti reconditi o mal interpretati. Una passione la sua che non smette di meravigliare il lettore, per quello che trova leggendo certo, ma anche per l’impegno e la dedizione, la professionalità e la serietà con cui porta a termine i suoi lavori.
Da ottobre 2018 nuovamente in libreria con Napoli velata e sconosciuta, edito da Newton Compton, un libro sui luoghi e simboli dei misteri, degli dèi, dei miti, dei riti, delle feste. Napoli, la città forse più raccontata al mondo, la metropoli di cui si pensa di conoscere architettura e cultura. Eppure, ogni volta, leggendo i testi di Ponticello si resta basiti dal cumulo di pregiudizi, preconcetti e luoghi comuni che l’autore ha dovuto “spalare” prima di poter raccontare di quella meravigliosa opera d’arte diffusa che è la capitale partenopea.
«Napoli non è stratificata solamente nel proprio impianto urbanistico, anche per arrivarle al cuore occorre andare di strato in strato, sempre più a fondo. Il suo nucleo vibrante è celato, e tale resta agli occhi indiscreti che hanno per la fonte di Mnemòsine. Napoli non giungerà nuda alla meta. Né mai ci sarà una meta.»
Napoli velata e sconosciuta si compone di due parti ben distinte. La prima affronta il mito della fondazione, i caratteri nascosti della Sirena eponima, e «la cifra sacra su cui nacque la città nuova»; la seconda è centrata sull’analisi di «alcuni dettagli presi a modello» per esplorarli secondo «il principio esoterico delle considerazioni da dentro e le considerazioni da fuori». Durante la lettura però le due parti non così distinte e il lettore ha l’impressione di leggere un flusso continuo di informazioni, aneddoti, miti, leggende, storie che abbracciano il sacro e il profano, la leggenda e la tradizione, il passato e il presente. Con lo sguardo rivolto anche verso il futuro. Il criterio di indagine seguito da Ponticello è quello che lui stesso definisce “Metodo Tradizionale”, che muove dalle fonti originarie disponibili, mette insieme mito e storia e privilegia il linguaggio arcano del simbolo e della mitologia per interpretare la storia.
Pian piano che la velatura su Napoli e i suoi tanti misteri si solleva, grazie al certosino impegno di Ponticello, il lettore non può fare a meno di chiedersi se siano i napoletani ad abitare la città o se sia quest’ultima a vivere dentro di loro.
Napoli è poliedrica e l’analisi dell’autore non poteva non spaziare dall’antropologia alla storia, dalla letteratura alla filologia, dalla glottologia alle religioni, dalla sociologia all’etnologia. Un lavoro di ricerca immenso che a tratti potrà anche sembrare ostico alla lettura ma è senza dubbio motivato, ben strutturato e valido.
Dodici anni dopo la sua prima pubblicazione, Napoli velata e sconosciuta appare incredibilmente un libro ancora rivoluzionario nel suo genere, come lo definì, nell’introduzione al primo libro, Stefano Arcella. Incredibile appare anche il fatto che si sia resa necessaria la nuova edizione come tentativo di arginare, di nuovo, la diffusione di scritti imprecisi e «interpretazioni fuori luogo», la maggior parte delle volte dettate da «interessi di cupole e parrocchie».
Con un linguaggio ancor più diretto e provocatorio, Ponticello riporta quindi sugli scaffali l’opera prima, riveduta e ricontrollata, il suo baluardo contro il pregiudizio, l’imprecisione e il plagio. Un’opera letteraria che si rivela fuor di dubbio valida, nella struttura come nei contenuti.
La mattina del 2 novembre 1975 il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini viene rinvenuto in un campo incolto in via dell’idroscalo, lungo il litorale romano di Ostia. Sull’atroce delitto non è mai stata fatta veramente luce. Ombre e misteri ancora oscurano la verità, anche dopo così tanti anni.
Nel 2005, a distanza di trent’anni dall’omicidio, l’imputato al processo svoltosi tra il 1975 e il 1976, Pino Pelosi, dichiaratosi in prima istanza colpevole del reato, durante la partecipazione alla trasmissione televisiva Ombre sul giallocondotta da Franca Leosini, ritratta la sua versione e afferma di non essere lui il vero colpevole bensì altre persone di cui non conosceva la reale identità ma che lo avevano minacciato qualora non si fosse addossato la colpa. In seguito alle sue dichiarazioni il processo non fu riaperto ma il mistero è tutt’altro che concluso.
Un tragico evento che ha scosso gli animi dell’intera comunità letteraria del Novecento italiano e quella di numerosi cittadini di allora e di oggi, soprattutto in virtù delle considerazioni che scaturiscono ovvie pensando alla “scomodità” dei temi che Pasolini trattava nei suoi articoli di giornale, alla “delicatezza” degli argomenti sui quali indagava…
Un tragico evento che, per certo, deve aver scosso anche Massimo Lugli, cronista di nera per La Repubblica per quarant’anni. Molto deve essersi documentato Lugli sui fatti del ’75. Indagini, analisi, considerazioni, che gli sono rimaste in testa per anni. Informazioni che ha metabolizzato. Su cui ha riflettuto. Che sono poi diventate l’anello centrale dell’impalcatura intorno alla quale ha scritto il suo romanzoIl giallo Pasolini. Il romanzo di un delitto italiano. Un libro il cui protagonista sembra essere l’alter ego dello stesso autore, basta immaginarlo alle prime battute lavorative quaranta anni fa.
Tranne alcuni sparuti passaggi, Lugli sembra aver completamente abbandonato la scrittura “tecnica” del giornalista e, nel romanzo, utilizza un registro narrativo che sembra rifarsi molto più al parlato locale, alla Roma con i suoi sobborghi dove la storia è per intero ambientata. Uno stile narrativo molto diretto, a tratti spietato, in alcuni paragrafi molto cruento… in sintesi uno stile che si adatta molto bene ai contenuti della vicenda narrata.
Marco Corvino, protagonista del libro, indaga sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini lasciando credere a tutti quelli con cui viene in contatto di essere incaricato dal giornale per il quale lavora. Una menzogna che lo mette in pericolo quasi quanto il rischio che corre per essersi esposto sulla strada. Troppe domande si tramutano in breve tempo in rischio molto alto.
Raccontando del delitto Pasolini, Lugli offre al lettore uno spaccato della Roma e dell’Italia tutta degli anni Settanta, con la delinquenza di strada e le bande, i movimenti studenteschi, l’estremismo rosso e nero, il femminismo e l’esplosione di una società tutta in continua evoluzione, cambiamento.
Un romanzo, Il giallo Pasolini di Massimo Lugli, che mostra al lettore del nuovo millennio quanto distanti sembriamo essere da quei tempi e quanto in realtà ne siamo vicini, legati da un filo invisibile che unisce passato e presente. Una lotta continua dalla cui evoluzione deriverà il futuro.
I personaggi del romanzo sono tutti ben caratterizzati, raccolti dal volgo di una Roma tanto aristocratica quanto popolare, allora come oggi. Dai delinquenti di borgata ai poliziotti coriacei, dai colleghi giornalisti, trai i quali si notano figure che rimandano a nomi molto noti del panorama giornalistici italiano della seconda metà del Novecento e degli inizi del nuovo millennio, al “saggio” maestro di karate. Personaggi tutti che si alternano e si mescolano su quel simbolico palcoscenico che sono i capitoli del libro di Lugli, dando così vita e risalto a un teatro di luci e di ombre, di speranze e delusioni, gioie e dolori… nient’altro che lo spettacolo della vita.
Massimo Lugli, Il giallo Pasolini. Il romanzo di un delitto italiano
Newton Compton Editori, prima edizione ottobre 2019
Analisi dei testi L’incredibile storia della seconda guerra mondiale di Giovanni Cecini e L’uomo che fece perdere la guerra ai nazisti di Robert Hutton (Newton Compton Editori, Roma, 2019)
Una guerra, per quanto nefasta e criticabile, ha per sua natura una fine, connaturata nell’esaurimento delle possibilità di vittoria. Cosa caratterizza allora la seconda guerra mondiale?
La Germania e in parte anche il Giappone proseguirono il conflitto al mero scopo di distruggere l’umanità insieme a loro. Ecco spiegato, per Cecini, il motivo per cui questo fu un qualcosa al di sopra del conflitto militare, essendo un momento esistenziale della storia dell’umanità.
Il ricorso all’ideologia esasperata, più che la violenza in se stessa, fu la vera discriminante nel ritenere il Tripartito condannabile dall’intera umanità, ancor prima della sconfitta in campo.
I “genocidi industriali” del Reich e l’apocalisse infernale delle due bombe atomiche sul Giappone hanno messo negli anni a seguire in profonda crisi morale il senso etico dell’esistenza dell’uomo.
Si parla spesso del dramma provocato dai bombardamenti a tappeto e si ignorano invece i “frequentissimi casi di cannibalismo tra la popolazione civile” come tra le stesse truppe combattenti. Si citano, anche a sproposito, le cosiddette “marocchinate” ma si tende a minimizzare come lo “stupro fosse un autentico mezzo bellico in tutti gli eserciti, nel Tripartito come tra gli Alleati”.
Esempi che da soli basterebbero a rendere l’idea di quanto devastante sia stato il secondo conflitto mondiale. Eppure, come accaduto e accade per ogni grande evento storico, si sceglie a tavolino cosa tramandare. Tutto il resto deve finire nel dimenticatoio. E così sarebbe se non ci fossero studiosi come Cecini. Tutti i conflitti bellici in realtà, siano essi mondiali e non, andrebbero analizzati come ha fatto Giovanni Cecini e magari anche in questo modo somministrati agli studenti, soprattutto quelli dei gradi superiori. Sicuramente risulterebbe loro più utile, interessante e stimolante studiarli. Piuttosto che nella classica versione cronologica, inaridita da nomi, luoghi e date.
Potrebbe risultare essere un modo migliore per comprendere gli accadimenti, le motivazioni, gli errori e le conseguenze. Diventando anche uno stimolo per moniti futuri.
L’incredibile storia della seconda guerra mondiale di Giovanni Cecini è un libro metalogico, all’interno del quale il conflitto bellico non è semplicemente raccontato, bensì prima scomposto per essere poi ricomposto, sebbene su piani di analisi differenti. L’autore utilizza la metafora dello specchio frantumato, avendo egli avuto cura di raccontare quel che si vedeva nei singoli frammenti, diversi tra loro per forma e dimensione. Un libro costruito quindi sulla riflessione che invita per certo a riconsiderare il solido mainstream venutosi a creare, guardandosi bene però dall’incitare allo scandalo o alla scoperta sensazionale. Nulla di tutto questo si troverà all’interno del testo. Quella di Cecini è un’analisi accurata, ponderata e basata su dati e fatti concreti, reali. Un’analisi investigativa condotta con grande competenza e professionalità.
La documentazione e l’analisi storica infatti non andrebbero mai trattate al pari del gossip o della cronaca nera. La volontà di diffondere un vero, o presunto tale, scoop non è mai di aiuto a chi vuol fare chiarezza.
Analizzare a fondo i fatti, le decisioni, le scelte e le costrizioni… scandagliare il tutto come fa un sonar tra i fondali marini, senza cadute scandalistiche o pregiudizi di sorta, aiuta senz’altro a meglio comprendere le ragioni di dette scelte, giuste o sbagliate che siano.
Studiare le congiunture del particolare momento storico di riferimento, raffrontarle con altre situazioni, analoghe oppure opposte, riflettere sui danni causati e le altre conseguenze… tutto ciò contribuisce in larga misura ad acquisire maggiore consapevolezza di passato e presente e dovrebbe essere anche di grande supporto per comporre al meglio il futuro.
Non sono per certo necessarie leggende metropolitane o falsità, le odierne fake news, per rendere avvincente o intrigante un conflitto bellico.
Lo storico deve voler comprendere, non accontentarsi di ricevere a scatola chiusa delle verità consolatorie e di comodo. Vale anche lo studioso e lo studente.
Ma qual è stato il senso più autentico della seconda guerra mondiale?
Cecini sottolinea più volte nel testo come non sia possibile dare una risposta univoca a questa domanda. Il conflitto è stato ed ha rappresentato tante cose, diverse e anche opposte tra loro.
Negli anni successivi al conflitto, e soprattutto di recente, molte volte si è messo in dubbio “il valore morale” degli alleati, perché spesso il loro ruolo è stato mitizzato e “portato su un piano diverso da quello meramente storico”.
Di sicuro c’è che, grazie proprio alla seconda guerra mondiale, l’America è diventata a tutti gli effetti la prima potenza economica a livello mondiale, mentre la Cina e l’Unione Sovietica hanno assoggettato milioni di liberi cittadini con la forza e la paura, imponendo loro il proprio credo politico.
Il Paese che invece ne è uscito vittorioso solo sulla carta sembrerebbe essere stato il Regno Unito. Partito agli inizi del Novecento come unica e indiscussa superpotenza mondiale, nel giro di quarant’anni si è visto scippare il titolo prima dall’America e poi dall’Unione Sovietica. Uno strappo mai completamente risanato.
Chi invece è riuscita a superare anche il crollo del vecchio impero coloniale è stata la Francia perché, come ricorda e sottolinea Cecini, l’Africa è quasi più francese oggi di ottant’anni fa.
Ad ogni modo, tutte le grandi potenze interessate al conflitto sono le stesse che oggi vanno a comporre il G8, con la sola aggiunta della Cina, paese che riveste un peso sempre maggiore nel contesto socioeconomico internazionale.
La grande eredità che ha lasciato la seconda guerra mondiale, per anni nei popoli di tutto il mondo, è stata la speranza di un mondo migliore. Ma, senza ombra di dubbio, e bene fa Cecini a ricordarlo nel suo libro, la divisione in blocchi contrapposti, il mancato giudizio verso tutti i criminali di guerra, nonché l’esasperazione della Guerra Fredda hanno di molto diluito i grandi e buoni proposito scaturiti al termine del conflitto.
Se ci si dimentica che molti dei problemi attuali non sono altro che conseguenze della seconda guerra mondiale, allora davvero si rischia non solo di “perdere un patrimonio di esperienze molto prezioso” ma anche e soprattutto di “rendere vane le morti di milioni di persone”.
Commentando L’uomo che fece perdere la guerra ai nazisti di Robert Hutton, Tony Robinson ha affermato:
«In un’epoca in cui lo spettro dell’antisemitismo torna a fare paura, questo incredibile libro è indispensabile per ricordare che non siamo immuni alla minaccia del fascismo»
Il libro di Hutton nasce con lo scopo precipuo di voler raccontare una storia deliberatamente celata, come spesso accade, nella presunzione o illusione che non parlare di qualcosa di sgradevole aiuti a cancellarlo o, quantomeno, a fare in modo che rimanga nell’ombra e finisca quanto prima nel dimenticatoio anche per coloro che ne sono, in tutto o in parte, a conoscenza.
Ciò lo si fa anche per evitare di dare un’immagine di sé o del proprio Paese sbagliata, o comunque non corrispondente a quella che invece si vuole dare.
Hutton, al pari di quanto fatto da Cecini, ha narrato di un qualcosa che ha molto di incredibile, ma lo ha fatto con rigore e serietà, senza scoop sensazionalistici o allarmismi complottisti. Lo ha fatto semplicemente raccontando la verità, riportando date, dati, nomi e fatti concreti.
Si tratta di argomenti spinosi e questo è evidente, come lo è il fatto che a partire dal 2 settembre 1945 di tante cose si è preferito non parlare più. Troppo era accaduto. Bisognava solo mettere un punto fermo, voltare pagine e ricominciare. Ricostruire interi paesi manche anime ed esistenze.
Così facendo però non si è data la possibilità di analizzare molti aspetti ed eventi. Accadimenti e movimenti di pensiero che si è creduto di aver eliminato per sempre. Oggi, purtroppo, scopriamo che così non è stato. In tanti paesi europei certe idee hanno sempre continuato a bruciare, come fuoco sotto la cenere, magari anche in virtù del fatto che di ciò non se ne doveva parlare.
Il narrato del libro di Hutton è una storia vera.
Sin dal 1945 la Gran Bretagna “ha raccontato a se stessa una storia della guerra”. In questa narrazione, non solo il Paese si opponeva da solo alle forze militari del fascismo ma era anche straordinariamente resistente all’ideologia stessa. Mentre altre nazioni soccombevano a idee simili o collaboravano con gli invasori, la Gran Bretagna restava salda. Quella forza di carattere salvò non solo il Regno Unito ma l’Europa tutta.
Questa la versione narrata dagli inglesi agli inglesi, come al resto del mondo, e riportata da Hutton nel testo. Ma “l’MI5 conosceva una storia diversa”. Ed è di quella che racconta l’autore.
Verso la fine della guerra, i servizi segreti avevano identificato centinaia di uomini e donne britannici, in apparenza leali ma che bramavano una conquista da parte dei nazisti. Alcuni di loro si erano addirittura spinti oltre, rischiando finanche la vita per aiutare il Fuhrer. La gran parte delle testimonianze sono andate o sono state distrutte, eppure permangono le trascrizioni di oltre seicento conversazioni, avvenute tra il 1942 e il 1944, nelle quali si legge di come questi cittadini britannici discutono su come sia meglio muoversi per “tradire il proprio Paese con la Germania”.
È stato possibile, per Hutton, raccontare questa storia grazie alla decisione di rendere pubblica una selezione di dossier storici dell’MI5.
Solo così ha potuto vedere la luce L’uomo che fece perdere la guerra ai nazisti, che ricostruisce nel dettaglio l’operato dell’agente segreto inglese identificato con il nome in codice Jack King.
Un libro che è stata anche una grande sfida per l’autore. Nel tentativo continuo di voler descrivere l’intero quadro attraverso l’assemblaggio di un puzzle di cui non possiede tutti i pezzi. Alcuni ancora rimangono un mistero. La speranza, per Hutton, è che in futuro altri dossier vengano desecretati, anche se è consapevole che la scoperta di nuove informazioni potrebbe rivelare errori, naturalmente commessi in buona fede, nella ricostruzione da lui stesso fatta nel testo.
I libri di Giovanni Cecini e Robert Hutton hanno davvero un valore incredibile per la conoscenza e l’analisi di un periodo della recente storia che andrebbe sezionato tutto per essere ben compreso. Esattamente come ha fatto Cecini e, in un certo qual modo, lo stesso Hutton che ha puntato un riflettore su un punto preciso e poi ha zoomato quanto più gli è stato possibile fare. L’incredibile storia della seconda guerra mondiale e L’uomo che fece perdere la guerra ai nazisti sono due lavori accurati, precisi, interessanti e assolutamente necessari.
Bibliografia di riferimento
Giovanni Cecini, L’incredibile storia della seconda guerra mondiale. Strategie, armi, protagonisti del conflitto che ha cambiato le sorti del mondo, Newton Compton Editori, Roma, settembre 2019.
Robert Hutton, L’uomo che fece perdere la guerra ai nazisti. Nome in codice Jack King: l’agente segreto inglese che sconfisse Adolf Hitler, Newton Compton, Roma, ottobre 2019.
In tempi normali, i populisti restano ai margini della società, ne rappresentano solamente una piccola parte. Ma in presenza di gravi crisi o traumi collettivi, come una guerra o una depressione economica, questi gruppi minoritari possono trasformarsi in movimenti di massa e diventare la maggioranza.
È quanto accaduto negli anni Trenta in Europa in seguito alla crisi del ’29, o negli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Ed è ciò che è accaduto in Italia nel marzo 2018.
Il punto centrale è l’ingiustizia economica, la sproporzione tra i sacrifici chiesti alla classe media e a quella medio-bassa, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e i super ricchi ingrassano persino di più.
È questa la tesi esposta da Alan Friedman in Questa non è l’Italia, edito a settembre 2019 da Newton Compton Editori. Una visione condivisibile in toto che accenna ai motivi propulsori dei movimenti populisti e sovranisti che acquistano sempre maggiore consenso in Italia, in Europa e in genere nei paesi occidentali.
Il saggio si apre al lettore così con una notevole introduzione al fenomeno di stretta attualità e con lucide considerazioni sul come queste insoddisfazioni della classe medio e medio-bassa vengano intercettate da “astuti demagoghi” che le trasformano in slogan e promesse elettorali.
Friedman riporta nel testo una accurata cronistoria di quanto accaduto nel tempo in Africa, Medio oriente e Europa. Le decisioni e gli accordi che hanno portato direttamente Stati e popoli alla situazione attuale, a crearla o subirla.
Politiche sui migranti anche apparentemente distanti tra loro, nel tempo e nello spazio, oppure simili ma che hanno generato conseguenze diverse.
Leggi, decreti, accordi, trattati, muri, barriere, campi che sono prigioni, diritti che diventano privilegi, doveri che divengono slogan, propaganda spacciata per speranza, persone che diventano numeri o peggio merce di scambio, finanziamenti che sono ricompense e un’umanità intera che mostra da un lato e subisce dall’altro il suo volto peggiore.
La seconda parte del libro, molto più corposa della prima, si rivela un po’ meno interessante e un po’ troppo pedante, laddove l’autore si limita a elencare e commentare, o meglio criticare acerbamente, una lunga serie di fatti e accadimenti noti.
Principalmente si concentra su Steve Bannon, Matteo Salvini, Donald Trump, Luigi di Maio, Beppe Grillo e la Casaleggio Associati. Persone che Friedman non stima molto, per usare un eufemismo, contrariamente a Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e Dominique Strauss-Kahn per i quali invece l’autore prova molta ammirazione. Dominique Strauss-Kahn. Proprio lui. Ma Friedman ne parla in maniera positiva dal punto di vista professionale, affermando che fosse da sempre noto a tutti la sua ossessione per le donne ma che questa è un’altra storia. Non c’entra.
La visione politica ed economica dell’autore è ben nota e viene più volte rimarcata dallo stesso nel testo, anche con commenti e giudizi un po’ troppo offensivi, almeno nell’ottica di chi scrive.
In Questa non è l’Italia vi sono numerosi passaggi che ricordano troppo il linguaggio e i metodi utilizzati da chi viene ripetutamente redarguito dallo stesso autore proprio per queste volgarità. Linguaggio volgare e incitazione all’odio sono le accuse sovente rivolte ai demagoghi populisti da Friedman.
Se combatti la violenza con la violenza ne risulterà solo altra violenza. Se combatti la volgarità con la volgarità, il risultato sarà solo altra volgarità.
“Abbassarsi” al livello di chi si critica proprio per il suo linguaggio volgare, per i suoi modi rozzi, per l’incitamento all’odio, in generale non è mai una scelta felice. Il caso particolare non fa eccezione.
Per fare un esempio: definire “sciroccati” esponenti di forze politiche democraticamente eletti non in linea con il proprio pensiero non è molto edificante. Legittimo non condividere idee e progetti. Altra cosa è lasciarsi andare a queste derive di stile.
«(Salvini, ndr.) non può contare su Farage. Né su Orbán. E neanche sulla Polonia. Solo su Le Pen, una manciata di estremisti dell’Europa dell’Est e sciroccati vari.»
Decisamente più gradite al lettore le parti in cui l’autore compie un’accurata critica basata sui fatti, i contenuti, le azioni concrete, sulla confutazione di tesi con dati e prove attendibili.
Friedman si sofferma molto nel raccontare, in particolare, la storia di Bannon e quella di Salvini con l’intento, sopratutto per il primo, di dimostrare l’evanescenza del potere che ostenta ma che, a conti fatti, non ha. Nessuna obiezione al riguardo. Soltanto che il nocciolo del problema non può di certo essere questo. Si può anche dimostrare con certezza assoluta che Bannon, Salvini, tutti i leader populisti e quelli di partiti estremisti non abbiano in realtà alcun potere ma ciò non rappresenterebbe di certo una soluzione.
Bannon, Salvini e via discorrendo sono degli attori del particolare momento storico in atto, sono intercambiabili e sostituibili in qualunque momento. Il punto è semmai capire perché costoro acquisiscono sempre maggiore consenso. Studiare le dinamiche che hanno portato e portano le persone, i cittadini, gli elettori a manifestare sempre più apertamente e con convinzione interesse e appoggio verso questi movimenti politici.
Ed è esattamente per questo che la prima parte del testo di Friedman risulta molto più interessante della seconda.