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Irma Loredana Galgano

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“Storia delle banche centrali e dell’asservimento del genere umano” di Stephen Mitford Goodson (Gingko Edizioni, 2018)

22 lunedì Apr 2019

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economia, GingkoEdizioni, monocolooccidentale, NWO, recensione, saggio, StephenMitfordGoodson, Storiadellebanchecentrali

Un’analisi storica, prima ancora che economica, quella portata avanti da Stephen Mitford Goodson in Storia delle banche centrali e dell’asservimento del genere umano, uscito in Italia con Gingko Edizioni a ottobre 2018, nella versione tradotta da Isabella Pellegrini del titolo originale A History of Central Banking and the Enslavement of Mankind (Black House Publishing Ltd, London).
Un libro che vuole dimostrare l’assunto che i problemi legati all’usura abbiano ostacolato l’essere umano, riducendolo in schiavitù, fin dall’inizio della civilizzazione.

Storia delle banche centrali di Stephen Mitford Goodson, almeno nella parte iniziale, sembra un’enciclopedia storica “parallela” al resoconto storiografico fedele al mainstream. È un racconto dettagliato, pieno di riferimenti bibliografici e fonti documentali. Una versione e una visione che si è per certo liberi di non condividere ma che potrebbe aiutare a meglio comprendere tanti punti e nodi focali della storia occidentale.
Soprattutto nella prima parte, il libro di Goodson è ricco di citazioni e riferimenti a fonti bibliografiche e documentali e risulta molto interessante per il lettore. Nella seconda invece il livello generale dell’opera risente, in particolare, di alcune affermazioni proprie dell’autore che lasciano trasparire una certa ingenuità o, peggio ancora, un pregiudizio.

Il testo di Goodson parla molto delle attività legate a famiglie di ebrei come anche delle idee economiche e finanziarie di Gottfried Feder, economista noto soprattutto per essere il mentore di Adolf Hitler e questi sono temi sempre delicati, basta un attimo per essere tacciati di antisemitismo o filonazismo. Goodson lo scorre lento il filo del rasoio e racconta nel dettaglio, con tanto di riferimenti bibliografici e documentali, tutto quanto è riuscito a scoprire. Ma non è in questo che pecca di ingenuità o pregiudizio. Il suo resoconto abbraccia l’intera storia globale occidentale di cui le azioni degli usurai e banchieri ebrei ne costituirebbero solo una parte.

«A partire dalla Seconda Guerra Mondiale, nel mondo occidentale un numero sempre maggiore di donne sposate, fuorviate dalla malevola propaganda femminista e da quella per la parità dei sessi, è stato costretto ad adoperarsi per la ricerca di un impiego affinché la propria famiglia riuscisse a far fronte al pagamento di interessi in continua crescita».
«Il risultato diretto di questo sistema finanziario iniquo è stata la compromissione di una vita familiare normale».

Ecco due esempi di cosa il lettore non avrebbe mai voluto leggere in un testo, a suo modo rivoluzionario, come quello di Goodson. D’altronde egli stesso inizia il suo resoconto sui danni inferti all’umanità dal sistema usuraio e bancario riconducendoli addirittura al periodo del crollo dell’impero romano d’occidente, allorquando di “malevola propaganda femminista” e “parità dei sessi” proprio non si può parlare.
Che necessiti un cambiamento radicale della società, un ridimensionamento dei poteri della finanza internazionale, delle banche e un approccio diverso verso moneta e denaro è fuor di dubbio vero ma, forse, l’approccio più ottimale è quello avanzato da Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald in Creare una società dell’apprendimento (Einaudi, 2018). Focalizzarsi su apprendimento e conoscenza per ottenere un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale. Gli autori lo riferiscono alla potenziale crescita dei paesi in via di sviluppo e a un riequilibrio rispetto a quelli sviluppati, ma la loro teoria ben si adatta a essere estesa a tutte le economie.

Nelle stesse parole di Goodson, d’altronde, si legge un certo rammarico per quei paesi, compreso il suo, che hanno scelto di seguire semplicemente il metodo più diffuso e quotato, senza neanche provare a interrogarsi su possibili ed eventuali alternative. E questo può o potrà avvenire solo attraverso una profonda conoscenza di storia, geopolitica, economia e via discorrendo.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Gingko Edizioni per la disponibilità e il materiale



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© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

L’Asia ha conquistato il mondo? Questo è davvero “Il secolo asiatico?”

03 mercoledì Apr 2019

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Fazi, Ilsecoloasiatico, monocolooccidentale, Occidente, Oriente, ParagKhanna, recensione, saggio

Mentre l’Occidente tutto è stato impegnato nella lotta al terrorismo e nei vari tentativi di far tenere botta all’economia, fortemente provata dalla grande crisi, il continente asiatico ha continuato a crescere, svilupparsi, innovarsi al punto da diventare non solo il principale concorrente ma superare nettamente gli avversari. Ovvero Europa e Stati Uniti.
La «zona economica asiatica», quella parte di mondo compresa tra la penisola arabica e la Turchia a occidente e il Giappone e la Nuova Zelanda a oriente, frutta il «50% del Pil globale e due terzi della crescita economica globale». L’Asia produce ed esporta, oltre a importare e a consumare, «più beni di qualsiasi altra regione al mondo», e gli asiatici «commerciano e investono più tra di loro che con l’Europa o il Nord America».

In Asia si trovano molte delle economie, delle banche e imprese tecnologiche e industriali, nonché «la maggior parte degli eserciti più grandi al mondo». Ignorare tutto questo per decenni non ha prodotto uno svilimento della crescita e del progresso portato comunque avanti da tanti paesi del blocco asiatico. Ignorarlo tuttora, nella speranza che le ormai vetuste potenze occidentali ritrovino d’un tratto il loro vigore e splendore, quasi per magia, è un atteggiamento per certo controproducente. Parag Khanna avverte tutti di preparasi a «vedere il mondo dal punto di vista asiatico», perché l’asianizzazione del mondo nel ventunesimo secolo è orami una realtà, esattamente come lo è stata l’occidentalizzazione dello stesso nel secolo passato.

Esce in prima edizione a marzo 2019 con Fazi Editore Il secolo asiatico? di Parag Khanna, tradotto da Thomas Fazi dalla versione originale in inglese The future in Asian. Commerce, Conflict, and Culture in the 21th century. Un saggio molto articolato, lungo ben 522 pagine, tutte necessarie. Parallelamente a un’attenta analisi geo-politica ed economica, Khanna porta avanti nel testo anche un dettagliato resoconto storiografico di quanto accaduto e perché, utilissimo al lettore per meglio comprendere alcune dinamiche di cui poco si continua a parlare ancora adesso, purtroppo.

Esordisce l’autore ricordando le parole attribuite a Napoleone, allorquando il generale francese, due secoli or sono, avrebbe detto, parlando della Cina: lasciatela dormire, perché al suo risveglio il mondo tremerà. A svegliarsi non è stata solo la Cina ma l’intero continente asiatico e a tremare non è solo la Francia ma l’intero Occidente. Per farsene un’idea basta leggere i titoli, gli articoli e, soprattutto, i commenti alla firma degli accordi tra Italia e Cina, ratificati proprio in questi giorni. Il filo rosso che lega questa sorta di linea difensiva mediatica sembra essere la paura che l’Italia venga sopraffatta dalla dirompente economia cinese, che questo Paese asiatico possa sopraffare la nostra economia e rompere i legami con i vecchi e forti alleati di sempre. Il tutto proposto come un qualcosa che potrebbe accadere. In realtà la firma dei 29 punti dell’accordo siglati tra Italia e Cina non vanno a intaccare un bel nulla né a modificare niente del cambiamento che è già realtà e che tocca il nostro Paese come tutto l’Occidente in maniera trasversale.

La Belt and Road Initiative (Bri), definita come la nuova Via della Seta, è «il più grande piano coordinato di investimenti infrastrutturali della storia umana», l’equivalente di ciò che ha rappresentato per il XX secolo «la creazione delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale e del piano Marshal». Un qualcosa che è già realtà con o senza la ratifica degli accordi tra Italia e Cina. Si può pensare a esso in maniera positiva o negativa ma non si potrà mai negare che rappresenta un cambiamento epocale, iniziato nel maggio del 2017, quando «sessantotto paesi che comprendono i due terzi della popolazione e la metà del Pil mondiale si sono riuniti a Pechino».
Cambiamenti epocali, esattamente come quelli avvenuti nel secolo scorso e di cui mai nessuno ha dubitato o messo in dubbio l’utilità e le procedure. Eppure questi di oggi spaventano tanto. Perché? Il motivo è semplice: «la Bri è stata concepita e lanciata in Asia e sarà guidata dagli asiatici». E, soprattutto, gli occidentali non solo non sono riusciti a stopparla sul nascere ma non sembrano avere neanche idea di come riuscire a fermarla.

L’Asia ha da tempo ormai imparato a fare i conti con l’impatto della storia occidentale sul suo presente, «adesso tocca all’Occidente fare i conti con l’impatto dell’Asia sul proprio futuro».
Siamo alle prime fasi dell’asianizzazione del mondo, per cui molte incognite ancora sussistono. Si chiede l’autore come gestirà l’Asia tutte le trasformazioni geopolitiche, economiche, sociali e tecnologiche. Come risponderanno le potenze occidentali all’ascesa dell’Asia e, soprattutto, come si adegueranno gli asiatici a tali reazioni.
È una Storia che si sta ancora scrivendo ma che non basterà ignorare o criticare per essere arrestata. Ipotizzando lo si possa o lo si debba poi effettivamente fare.

Il secolo asiatico? di Parag Khanna è una lettura impegnativa ma fuori di dubbio utile necessaria illuminante. Un testo valido nella scrittura e nel contenuto. Un libro per certo consigliato.


Articolo originale qui


Disclosure: Fonte immagine di copertina, sinossi, biografia dell’autore e scheda libro www.fazieditore.it



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Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018)

08 martedì Gen 2019

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BruceGreenwald, Creareunasocietadellapprendimento, cultura, economia, Einaudi, Globalizzazione, JosephStiglitz, monocolooccidentale, recensione, saggio

Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale è un testo che guarda all’economia globale in modo differente rispetto al neoclassicismo imperante. Che focalizza il ragionamento sul concetto di apprendimento come elemento cruciale per la crescita dell’economia di un paese e per superare il divario tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo.
Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald decidono di rendere omaggio a Kenneth Arrow e alle sue teorie economiche organizzando una serie di conferenze annuali negli Stati Uniti e di trasformare le relazioni in un libro, tecnico, che impiega la matematica per spiegare il rigore scientifico delle tesi avanzate. In seguito viene pubblicata una versione meno impegnativa del titolo, dal quale vengono estrapolate le formule matematiche. Un’edizione divulgativa che viene tradotta in Italia da Maria Lorenza Chiesara per la casa editrice Einaudi.

Per Stiglitz e Greenwald nessuno come Arrow, a livello individuale, ha fatto tanto per cambiare il nostro modo di guardare all’economia e alla società al di là dell’economia, negli ultimi sessant’anni. Creare una società dell’apprendimento è necessario per promuovere gli standard di vita anche nelle economie ben al di qua della frontiera, che non si trovano all’avanguardia del progresso scientifico e tecnologico. I governi dovrebbero concentrarsi su cosa crei una società dell’apprendimento. Mentre alcune delle politiche che gli economisti hanno sostenuto in passato l’hanno di fatto ostacolata.
Negli ultimi decenni è diventato usuale descrivere l’economia verso cui ci stiamo dirigendo come una “economia della conoscenza e dell’innovazione”. Minore attenzione viene invece data a cosa ciò significhi per l’organizzazione dell’economia e della società.

Gli autori citano Solow allorquando affermano che la maggior parte dei miglioramenti relativi agli standard di vita sono il risultato di incrementi di produttività, ossia l’aver imparato a fare le cose meglio. Se è vero quindi che la produttività è frutto di apprendimento e che gli aumenti di produttività, ovvero l’apprendimento, sono endogeni, allora uno dei punti focali della politica dovrebbe essere quello di incrementare l’apprendimento all’interno dell’economia. Incrementare la capacità di imparare e gli incentivi a farlo. Imparare a imparare. Dunque, colmare i divari di conoscenze che separano le imprese più produttive dalle altre.
Creare una società dell’apprendimento dovrebbe quindi essere uno degli obiettivi principali della politica economica. Se si crea una società dell’apprendimento ne risultano un’economia più produttiva e uno standard di vita migliore. Nel testo, Stiglitz e Greenwald mostrano come molte delle politiche concentrate sull’efficienza statica – allocativa – possano invece ostacolare l’apprendimento e come di fatto politiche alternative possano portare a superiori standard di vita, visti nel lungo periodo.

Seguendo le teorizzazioni di Arrow, Stiglitz e Greenwald avanzano l’ipotesi del maggiore innalzamento degli standard di vita che potrebbe indurre una società dell’apprendimento rispetto a quanto riescano invece a farlo piccoli e isolati miglioramenti di efficienza economica o il sacrificio dei consumi correnti per intensificare il capitale, soprattutto per i paesi in via di sviluppo. Buona parte della differenza tra i redditi pro capite di questi paesi e quelli dei paesi più avanzati è attribuibile a un gap di conoscenze. Adottare politiche in grado di trasformare le loro economie e le loro società in “società dell’apprendimento” li renderebbe in grado di colmare questo divario e ottenere una crescita dei redditi significativa.
La trasformazione in società dell’apprendimento che si è verificata durante il XIX secolo nelle economie occidentali, e più di recente in quelle asiatiche, infatti sembra aver avuto un impatto maggiore sul benessere degli esseri umani di quello esercitato dai miglioramenti di efficienza allocativa o dall’accumulazione di risorse.

Al centro dell’indagine condotta dagli autori vi sono due interrogativi fondamentali:
– I mercati, di per sé, portano a un livello e a un modello di apprendimento e innovazione efficienti?
– E se no, quali sono gli interventi governativi desiderabili?
Per Stiglitz e Greenwald non esiste alcuna presunzione di efficienza dei mercati rispetto alla produzione e alla disseminazione di conoscenze e apprendimento. Piuttosto il contrario. I mercati sono “efficienti in senso paretiano”, ovvero non possono migliorare ulteriormente le condizioni di qualcuno senza che quelle di un altro peggiorino. Arrow aveva già riconosciuto la pervasività dei fallimenti del mercato nella produzione e disseminazione di conoscenze, sia come risultato dell’allocazione di risorse alle attività di ricerca e sviluppo sia come effetto dell’apprendimento.
Nel testo si insiste molto sul ruolo decisivo che ha il governo nel proporre e mettere in atto decisioni che diano l’indirizzo corretto al potenziamento dell’apprendimento nell’economia come in tutta la società.

I governi svolgono un ruolo centrale nell’ambito di istruzione, salute, infrastrutture e tecnologia; e le politiche per ciascuna di queste aree, così come le spese e il loro equilibrio, contribuiscono senz’altro a plasmare l’economia. Le politiche di aggiustamento strutturale hanno finito per soffocare la crescita dei paesi, soprattutto di quelli con un’economia emergente.
Invece di promuovere i settori di apprendimento, le politiche imposte ai paesi in via di sviluppo dalle istituzioni economiche internazionali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) hanno scoraggiato il comparto industriale di molti di essi, soprattutto in Africa. Il risultato è che, negli ultimi trent’anni, l’Africa ha sofferto di un processo di deindustrializzazione. Focalizzando l’attenzione sull’efficienza statica, queste istituzioni internazionali trascurano del tutto l’apprendimento e le dinamiche a esso associate. Spesso – o anche tipicamente – la creazione di posti di lavoro non ha tenuto il passo con la loro distruzione, cosicché i lavoratori si sono spostati da settori protetti a bassa produttività a condizioni di disoccupazione, dichiarata o nascosta, a produttività ancora più bassa. Una delle critiche che si possono rivolgere al Washington Consensus (ovvero al blocco di politiche di aggiustamento strutturale condotte in Africa) è di aver tentato di imporre politiche corrispondenti alla convinzione che un’unica cosa vada bene per tutti. Ovvio che così non è, come non lo è il credere possa essere di aiuto osservare quanto fatto in passato da paesi con livelli di reddito pro-capite similari o leggermente superiori. Oggi il mondo è diverso da quello di un tempo sia in termini di geoeconomia e geopolitica globale sia di tecnologia.Le differenze tra i paesi aiutano a spiegare anche perché in alcune economie le imprese pubbliche funzionino bene mentre in altri no.

Aiutano anche a spiegare i limiti della globalizzazione: le imprese locali hanno un vantaggio competitivo sul piano della conoscenza delle situazioni locali. Buona parte delle informazioni di natura finanziaria è reperibile principalmente a livello locale. Un impiego efficace del capitale richiede il ricorso a istituzioni finanziare del posto. Purtroppo, le politiche del Washington Consensus, che spingevano per la liberalizzazione del mercato finanziario e del capitale, non considerarono l’importanza di questa concorrenza locale.
Le banche straniere riuscivano a sottrarre correntisti alle banche locali perché venivano percepite come più sicure, ma si trovavano in svantaggio informativo rispetto alle banche locali riguardo alle aziende locali piccole e mediopiccole. E fu quindi naturale che i prestiti venissero dirottati verso il governo, i consumatori e le grandi aziende nazionali, compresi i monopoli e oligopoli locali: in tal modo l’apprendimento e l’imprenditorialità locali potrebbero esserne stati danneggiati e la crescita esserne uscita indebolita.

Le politiche industriali devono seguire una strategia che tenga conto non soltanto delle circostanze presenti in un paese, ma anche della sua probabile situazione futura. Sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo i governi devono plasmare la direzione dell’innovazione e dell’apprendimento. Buona parte dell’innovazione nelle economie industriali avanzate è stata diretta a risparmiare lavoro; ma in molti paesi in via di sviluppo esiste un’eccedenza di lavoro, e il problema è la disoccupazione. Le innovazioni che risparmiano lavoro esasperano questa sfida sociale cruciale. E anche quando le innovazioni che consentono di risparmiare lavoro non portano disoccupazione, hanno comunque conseguenze negative dal punto di vista della ricchezza, perché abbassano i salari.

Le regole e le regolamentazioni adottate nel processo di “liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati finanziari” negli Stati Uniti e nel Regno Unito hanno portato, secondo l’analisi di Stiglitz e Greenwald, a istituzioni finanziarie arroganti, sostenute dalle implicite garanzie delle autorità monetarie e in ultima istanza dal contribuente. Molti governi non hanno fatto buon uso della politica di regolamentazione monetaria e finanziaria, e in alcuni casi questo cattivo uso può essere ricondotto a un problema di governance. Ma questo non è un valido motivo perché i governi rifuggano dall’impiego di una politica di regolamentazione monetaria e finanziaria. Il capitale e i servizi finanziari interni a un paese possono sostenere l’apprendimento; al contrario, i servizi finanziari forniti da soggetti stranieri possono far sì che gli investimenti e l’apprendimento vengano ridiretti all’esterno del paese, ostacolando in tal modo di fatto la creazione di una società dell’apprendimento. I governi occidentali (in modo diretto e attraverso le istituzioni finanziarie internazionali) hanno esercitato forti pressioni sui paesi in via di sviluppo affinché deregolamentassero e liberalizzassero i rispettivi mercati finanziari. Tali raccomandazioni non tenevano in considerazione i fallimenti del mercato finanziario che avevano condotto proprio alla realizzazione della necessità di una regolamentazione del settore finanziario, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Guidando la finanza verso i settori di apprendimento si può potenziare la crescita totale.

In via conclusiva, Stiglitz e Greenwald sottolineano la necessità non solo di identificare le politiche che potrebbero portare alla creazione di una società dell’apprendimento ma, soprattutto, che queste politiche vengano applicate. Il modello neoclassico ignora questo fattore, perché non soltanto non presta attenzione all’importanza di allocare risorse ad apprendimento, ricerca e sviluppo, ma anche perché presuppone che tutte le imprese seguano le pratiche migliori e dunque non abbiano niente da imparare.
Molte delle politiche discusse nel testo comportano o comporterebbero una perdita nel breve periodo ma un guadagno a lungo termine. Si parla molto oggi di economia dell’innovazione o di economia della conoscenza, e molti progressi sono stati registrati, ma le piene implicazioni del loro lavoro per il modello neoclassico, cruciale per esempio nell’analisi di Solow, non hanno ancora trovato il posto che meritano.
Le innovazioni sociali sono egualmente importanti rispetto alle innovazioni tecnologiche, sulle quali gli economisti si concentrano di solito: il progresso della società umana dipende da tali innovazioni così come dipende dai miglioramenti della tecnologia.

Bibliografia di riferimento

Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento, Giulio Einaudi Editore, 2018 (traduzione di Maria Lorenza Chiesara dal titolo originale Creating a learning society: A new approach to growth, development, and social progress. Reader’s edition, Columbia University Press, 2014 e 2015)


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Giulio Einaudi Editore per la disponibilità e il materiale


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Dove sta l’umanità? “Carnaio” di Giulio Cavalli (Fandango Libri, 2018)

28 venerdì Dic 2018

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Carnaio, Fandango, flussimigratori, GiulioCavalli, migrazioni, monocolooccidentale, recensione, romanzo

Cadaveri ripescati in mare. Ecco qual è l’immagine che Giulio Cavalli sceglie come overture del suo nuovo romanzo Carnaio, edito da Fandango Libri. Il fotogramma più cruento e drammatico di questa enorme e globale emergenza che sono diventate le migrazioni di popoli.
Perché alla fin fine, se passassimo al setaccio l’intero “problema”, non resterebbero che la morte e il dolore. Oppure entrambi.

Morte e dolore che finiscono, inevitabilmente, per alimentare dibattiti infiniti generati, si racconta, dal bisogno di solidarietà e umanità. Motivati, in realtà, per la gran parte, da ipocrisia o peggio opportunismo.
E non dimentica certo di parlare di tutto questo Giulio Cavalli in Carnaio. Racconta nel dettaglio tutta la grande ipocrisia che si può accumulare anche in un piccolo paese arroccato su delle aspre scogliere, abitato per la maggiore da pescatori o figli di pescatori, da sindaci figli di sindaci, da preti che non perdono occasione per fare la morale anche quando tutti sanno che facilmente si lasciano tentare dal gentil sesso, anche senza il gentile.

Carnaio sembra essere un romanzo corale, grazie soprattutto all’espediente narrativo adottato dall’autore di dare voce a più protagonisti. In questo modo lo stesso accadimento viene osservato e commentato da diversi punti di vista e il lettore può “ascoltare”, ovvero leggere, le differenti opinioni in merito, esattamente come accadrebbe e come accade per un fatto reale.
Il narrato di Cavalli è originato dalla sua fantasia di scrittore certo ma è egualmente molto realistico, cruento e “crudele”. Nel senso che descrive, immaginando una storia, esattamente quello che accade da anni, decenni e che ha trasformato, purtroppo, il Mare nostrum in un’immensa pozza di morte, ingiustizie, dolore, indifferenza e opportunismo.

Cavalli è politicamente attivo e, giornalisticamente parlando, molto prolifico. La sua opinione, categorica, in merito a quanto sta accadendo non è certo un mistero, eppure egli riesce, con la dote che è propria di chi è scrittore e non semplicemente perché tale si dichiara, che siano il racconto e la narrazione a parlare, non i pregiudizi e i preconcetti che possono scaturire da posizioni eccessivamente rigide.
Ovvio che il libro è scritto dall’autore, e sempre lui ha scelto cosa far dire ai protagonisti e cosa no, ma l’impostazione del narrato, pur nella sua causticità, lascia libero il lettore di formarsi una propria opinione. In questo caso in base alla propria coscienza. E alla propria umanità.

Nel testo si ritrovano tutti gli aspetti e gli sviluppi del fenomeno migratorio che campeggia nei titoli di giornali e telegiornali quasi sempre per notizie o eventi drammatici, disastrosi. Una crisi umanitaria derivata dalla degenerazione dell’umanità che ha scelto di votarsi e immolarsi verso la crescita economica a ogni costo. Inarrestabile. Anche laddove è palese ormai che a rimetterci sono la stessa umanità e il pianeta che la ospita.

Giulio Cavalli è un ottimo narratore, sa bene cosa raccontare e come farlo. La domanda da porsi è: quale sarà il messaggio che il lettore vorrà raccogliere?
Si sceglierà di aver letto un semplice romanzo oppure si ammetterà di aver letto la versione romanzata di una triste realtà? Si preferirà archiviare il libro come semplice narrativa oppure si ammetterà di avere tra le mani la versione letteraria del resoconto “storico” di una struggente attualità?
L’autore ha lasciato libero il lettore di fare le proprie scelte. Non poteva fare altrimenti del resto.

In Carnaio Giulio Cavalli mantiene intatta la sua grande capacità di scrittura. Uno stile coinvolgente che cattura il lettore fin dalle prime battute. Quasi un rapimento sensoriale per l’intera durata della lettura di quella che acquisisce a tutti gli effetti i connotati di una accuratissima pièce teatrale. Una scena costruita intorno a un fenomeno troppo carico di dolore e sofferenza per poter lasciare umanamente indifferente chi legge. Al pari di quando si apprendono simil eventi nei resoconti di cronaca. Peggio se nera. Sprazzi di solidarietà ed empatia che vanno o andrebbero poi tradotti in mutazioni radicali di comportamenti singoli e globali altrimenti si rischia la banale retorica. Ma questo è un altro discorso. Chi scrive concorda con l’autore nel lasciare piena libertà al lettore o allo spettatore, in base alla coscienza che ognuno ha o ritiene di avere.


Articolo originale qui


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Il Buddhismo contro l’imbarbarimento del caos. “Le ragioni del Buddha” di Diego Infante (Meltemi, 2018)

08 sabato Set 2018

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DiegoInfante, LeragionidelBuddha, Meltemi, monocolooccidentale, Occidente, Oriente, recensione, saggio

Dare un senso al proprio stare al mondo. Domande esistenziali che tutti e ognuno, magari inconsciamente e inconsapevolmente, si pongono o dovrebbero porsi. E, laddove non trovano libero sfogo o accesso, generano con ogni probabilità un processo lesivo dell’essere interiore che, inevitabilmente si ripercuote in quello esteriore, nelle relazioni e nello stare al mondo e nel mondo.
Qual è lo scopo del vivere l’esistenza terrena? Quale il senso di “vivere” gran parte di essa rinchiusi in prigioni di cemento più o meno grandi o in scatole di ferro accessoriate con ruote e ogni “confort”?

La società moderna «costituisce il brodo di coltura ideale per il sorgere di nuove domande», non più «esigenze dettate dalla sussistenza, quanto la necessità» di dare, appunto, un senso al proprio stare al mondo. Che non può e non deve ridursi al consumo di risorse e all’accumulo di beni materiali e denaro.

In un’epoca in cui l’istruzione, l’informazione, la comunicazione sembrano svolgersi sempre più caoticamente, a colpi di lanci e smentite, promesse e dinieghi, slogan e titoloni… una vorticosa giostra che pare essere stata creata apposta per nascondere il vuoto, di senso soprattutto, il libro di Infante assume quasi un valore catartico. Un invito non ad abbracciare una qualsivoglia religione o ideologia quanto, piuttosto, a praticare una accurata e profonda riflessione sul mondo come su noi stessi. Riflettere, per esempio, sul dualismo kantiano tra il mondo noumenico e quello del fenomeno. Sulla realtà come volontà e come rappresentazione, ovvero «il mondo come noi ne facciamo esperienza».

Si pensi alla realtà immaginata e costruita per i bambini occidentali, fatta di sontuose feste di compleanno, regali sotto l’albero, beni di consumo mutevole e superflui, spesso inutili eppure spacciati e sentiti come assolutamente necessari. Una rappresentazione talmente distorta di quella che è la realtà, di quello che è il mondo reale da apparire surreale se non proprio paradossale che in tanti, adulti prima ancora dei bambini, tuttora ci credano. Il mondo fuori dai format televisivi, cinematografici e pubblicitari, quello in cui vivono milioni di persone che si cerca costantemente di incantare con la ‘felicità consumistica’ del mondo occidentale, la cui economia verte interamente «sul foraggiamento dei desideri».

«Non è peregrino affermare che l’Occidente abbia costruito il proprio paradigma nella più completa ignoranza del meccanismo per cui per ogni azione si generano forze inverse e contrarie». E volendo contestualizzare il discorso nel dibattito, in questo periodo caldissimo, sui migranti, si nota che la discussione si sviluppa sul tema dell’accoglienza, nella declinazione dei favorevoli e dei contrari, della necessità o nel dovere che l’Occidente deve assumersi per dare una possibilità a tutti loro di costruirsi una nuova vita, quanto più simile possibile a quella immaginata o vissuta per se stessi. Nessuno, o quasi, pensa invece che la soluzione vada ricercata nella rinuncia dell’Occidente tutto in primo luogo ai suoi innumerevoli e inappagabili “desideri” che si traducono in consumo, in spreco di risorse, suolo e spazio che non competono solo agli occidentali bensì agli abitanti dell’intero pianeta.

Cita Infante nel testo una esemplare frase di Tiziano Terzani: «Se l’Homo sapiens, quello che siamo ora, è il risultato della nostra evoluzione dalla scimmia, perché non immaginarsi che quest’uomo, con una nuova mutazione, diventi un essere più spirituale, meno attaccato alla materia, più impegnato nel suo rapporto con il prossimo e meno rapace nei confronti del resto del mondo?»
Di sicuro questa mutazione non avverrà fin quando il paradigma di una felicità raggiungibile solo attraverso l’economia di appagamento dei desideri sarà considerato un imperativo. Solo attraverso la rinuncia, la ricerca interiore prima che esteriore, la solidarietà e l’empatia contrapposte all’individualismo sfrenato si potrà sperare in un reale e profondo cambiamento. Inutile utopia per alcuni, speranza per altri.

Di sicuro c’è che finora tutte le ideologie indistintamente davano «la certezza morale necessaria per giustificare la violenza in funzione di un mondo migliore», inducendo ad accettare come «un fatto scontato che qualcuno debba morire perché gli altri possano vivere liberi e felici». La citazione di Pankaj Mishra restituisce nella giusta ottica gli errori di fondo di una cultura basata sul profitto e sul benessere propri, e sul disinteresse pressoché totale per gli altri, usati spesso solo come anonimi destinatari di una beneficenza e di gesti caritatevoli volti a rappresentare la propria presunta bontà d’animo nonostante la conscia violenza inflitta, direttamente o indirettamente, al mondo e ai suoi abitanti. In altre parole ipocrisia e apparenza, che poi, in fondo, sono le fondamenta della cultura dell’immagine e della rappresentazione su cui sembra essere stato costruito tutto l’impianto del progresso occidentale.

Nelle differenze enormi con gli insegnamenti buddhisti Infante riesce a trovare se non proprio similitudini almeno potenziali punti di incontro che potrebbero costituire altrettanti punti di partenza per un buddhismo che accompagni l’Occidente nel suo percorso accelerativo: «l’accelerazione potrebbe innescare la messa in discussione e quindi il capovolgimento di prospettiva». Un “viaggio” per guardare lontano laddove la distanza può fungere «da specchio per guardare vicino e soprattutto dentro».
Esattamente la svolta che fu caratteristica di «un grande viaggiatore qual è stato Tiziano Terzani»: un viaggio dentro e non fuori. Un viaggio la cui meta non era un luogo fisico ma un posto della mente, uno stato d’animo, «una condizione di pace con se stesso e col mondo».

Anche Le ragioni del Buddha di Diego Infante rappresenta, per certi versi, un viaggio che il lettore compie attraverso la narrazione dell’autore sul sentiero da lui tracciato o su quello della propria mente. Un viaggio lento, a volte accidentato, ma pregno di significati. Un peregrinare tra domande e risposte seguendo i lineamenti di uno stile narrativo intenso, molto ricercato. Una ricercatezza che si denota sia nel fraseggio come anche nell’impiego di vocaboli di non largo utilizzo. Un percorso di scrittura e un ragionamento avallati da numerose citazioni e riferimenti bibliografici che spaziano dai testi di Baumer a Dumont o Kumar, il più volte citato Terzani e numerosi altri autori. Un libro articolato, ben strutturato e ben riuscito nello scopo dichiarato e prefissosi dall’autore.


Source: Si ringrazia l’autore Diego Infante per la segnalazione e il materiale.


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“Lo chiamano populismo ma è resilienza di democrazia”. Analisi del decennio di crisi economica che ha cambiato il mondo ne “Lo schianto” di Adam Tooze (Mondadori, 2018)

04 martedì Set 2018

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AdamTooze, Loschianto, Mondadori, monocolooccidentale, NWO, Occidente, Oriente, recensione, saggio, terrore

Cento anni dopo il primo conflitto mondiale i governi e i popoli dell’intero pianeta si pongono i medesimi interrogativi, di nuovo.
Come si accumulano rischi enormi, poco compresi e poco controllabili? In che modo quadri di riferimento anacronistici e obsoleti ci impediscono di capire cosa sta succedendo intorno a noi? Il motore di ogni instabilità è forse lo sviluppo disomogeneo e combinato del capitalismo globale? Possiamo raggiungere una stabilità e una pace perpetue?
Di nuovo, le medesime domande perché sono queste che «accompagnano le grandi crisi della modernità».

In Crashed, edito in Italia da Mondadori ad agosto 2018 nella versione tradotta da Chiara Rizzo e Roberto Serrai e intitolata Lo schianto, Adam Tooze analizza gli ultimi dieci anni, dal 2008 al 2018, dalle origini della crisi prima finanziaria poi economica che ha investito, a quanto hanno detto, a più riprese l’intero sistema globale. Per la gran parte menzogne o giustificazioni a provvedimenti che i governanti hanno ritenuto essere improrogabili. Per gestire la crisi dell’eurozona dopo il 2010, per esempio, condotta seguendo una logica che non è stata altro che «una ripetizione dei salvataggi bancari del 2008, ma questa volta sotto mentite spoglie».

E così, mentre ai contribuenti europei venivano richiesti enormi sacrifici, i medesimi chiesti in precedenza ai cittadini americani, «banche e altri istituti di credito erano pagati col denaro riversato nei paesi che beneficiavano del salvataggio». Tutto perché al centro della crisi eurozona venivano messe le politiche del debito sovrano. «Come i responsabili della UE sono ora disposti ad ammettere pubblicamente», questo non aveva alcun fondamento sul piano economico. La sostenibilità del debito pubblico può diventare un problema, a lungo termine. La Grecia, per esempio, era insolvente. Ma l’eccessivo debito pubblico non era il denominatore comune della più ampia crisi dell’eurozona. Il denominatore comune era «la pericolosa fragilità di un sistema finanziario eccessivamente legato all’indebitamento» e troppo dipendente «da finanziamenti a breve termine basati sul mercato».

La Federal Reserve statunitense si è proposta fin da subito come fornitore di liquidità di ultima istanza per il sistema bancario globale. Ma cosa vuol significare davvero il fatto che la finanza e l’economia globali dipendono, in ultima istanza, dalla decisioni del governo americano?
La crisi dei mercati emergenti (Messico, Corea, Thailandia, Indonesia, Russia, Argentina) degli anni Novanta ha mostrato a tutto il mondo «con quanta facilità uno Stato possa perdere la propria sovranità». Nel 2008, «nessuna delle vittime degli anni Novanta» è stata costretta a ricorrere al Fondo monetario internazionale. Una lezione che i paesi dell’eurozona sembrano non aver imparato neanche ora.

La crisi nell’eurozona è stata affrontata in maniera disomogenea, «una confusione di visioni contrastanti» che hanno portato alla messa in scena di un «dramma sconfortante di occasioni mancate, di fallimenti nella leadership e di fallimenti nelle azioni collettive». Generando un danno sociale e politico da cui «il progetto della UE potrebbe non riprendersi mai più».

La crisi finanziaria ed economica del 2007-2013 si è trasformata, tra il 2013 e il 2017, «in una crisi politica e geopolitica globale dell’ordine mondiale uscito dalla guerra fredda», le cui ovvie implicazioni politiche «non dovrebbero essere schivate». Pulsioni di rinnovamento e aneliti di cambiamento sono giunti da ogni parte ma «contro la sinistra le brutali tattiche di contenimento hanno fatto il loro lavoro». Si pensi a quanto accaduto, per esempio in Grecia. Invece non altrettanto è accaduto per la destra che ha resistito ed è avanzata nel consenso e nella determinazione. Si pensi a quanto sta accadendo, per esempio, in Austria.

Questa «nuova politica» del periodo successivo alla crisi è stata demonizzata come populismo, trattata alla stregua degli anni Trenta o attribuita alla «malvagia influenza della Russia», invece va osservata, sottolinea Tooze, come un segno della vitalità della democrazia europea davanti al «deplorevole fallimento dei governi» riassumibile forse nelle parole di Jean-Claude Juncker citate nel testo: «Quando le cose si fanno serie, bisogna mentire».

La tesi portata avanti da Tooze ne Lo schianto è di collocare la crisi bancaria nel suo contesto più ampio, politico e geopolitico, oltre che, naturalmente, finanziario ed economico perché è necessario «confrontarci con l’economia del sistema finanziario». La narrazione offerta dall’autore tenta di mostrare «la percezione dall’interno del funzionamento – o del non funzionamento – della circolazione del potere e del denaro» e di chiarire le dimensioni dell’interdipendenza del sistema globale nonché «l’estrema dipendenza del sistema finanziario globale dal dollaro». E l’importanza delle conseguenze di tutto ciò. Per tutti.


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Il ‘trumpismo’ decreterà la fine della più ‘grande’ democrazia occidentale? “TRUMPLAND” di Luca Celada (manifestolibri, 2018)

30 mercoledì Mag 2018

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LucaCelada, manifestolibri, monocolooccidentale, NWO, Occidente, recensione, saggio, TRUMPLAND

 

Stando a quanto scrive Luca Celada in TRUMPLAND. Scheletri e fantasmi dell’America nazional-populista, edito da manifestolibri, il rischio di vedere l’inabissamento della democrazia americana c’è ed è anche molto alto. Il ‘trumpismo’ imporrà «una necessaria resa dei conti? O è semplicemente il prologo al degrado definitivo, all’inferno hobbesiano che anticipa secoli bui di un declino oscurantista?». Celada teme che ciò possa riguardare non solo l’America ma l’Occidente intero con ripercussioni sull’intero pianeta.

L’autore sembra dimenticare però che, per la gran parte degli abitanti del pianeta, questo “buio” così temuto per l’Occidente è realtà da secoli ormai. Per tutto il tempo che è servito allo stesso Occidente a cercare di convincere tutti che il libero mercato, incluso quello finanziario, avrebbe rappresentato la crescita estrema del pianeta. Una folle corsa verso il tanto agognato benessere che sta involvendo e rapidamente anche in una rovinosa caduta libera verso la distruzione, l’autodistruzione. Il presidente degli Stati Uniti viene indicato come un problema e, per tanti versi, lo è ma il nocciolo fondamentale è che non si riesce a vedere oltre, a guardare a un mondo che sia profondamente e realmente diverso, che non sia per intenderci neoliberista, capitalista, lobbista e finanziario.

Il dilemma americano, sottolinea Celada, è in gran parte quello di tutto l’Occidente, «e coincide con quello delle sinistre, che ovunque stentano a trovare una risposta adeguata alla crisi del tardo neoliberismo». Invece di dedicare ogni energia e ogni strumento a disposizione per risolvere questo vero problema le sinistre, in America come in Europa, rifiutano finanche di ammettere le sconfitte elettorali, la constatazione di essersi staccate dalla realtà nella quale vive il popolo che loro amano sempre più chiamare semplicemente “elettorato”.

È vero, come sostiene Celada in TRUMPLAND, che i proclami del presidente non servono, ma altrettanto inutili sono le ideologie e fors’anche le idee laddove non trovano la concretizzazione in leggi e provvedimenti efficaci. L’amministrazione Obama che tanto viene osannata e giudicata tra le migliori, e forse lo è anche stata, ha comunque continuato a siglare accordi esteri per la fornitura di armi e materiale bellico e la tanto declamata riforma sanitaria continuava a lasciare senza copertura sanitaria decine di migliaia di cittadini americani e, anche per coloro che rientravano nell’assistenza, le coperture erano risicole. “Meglio di niente” si potrebbe obiettare. Anche se lo spirito migliore sarebbe non di scegliere il male minore ma chiedere a gran voce il giusto. Il punto piuttosto è un altro: gli americani abbienti sono disposti ad accollarsi questi oneri? Il risultato elettorale delle presidenziali del 2016 parlano abbastanza chiaro.

Angelo Mincuzzi, autore insieme a Hervé Falciani de La cassaforte degli evasori (Chiarelettere, 2015), in un’intervista ha dichiarato: “tra i documenti della banca risulta chiaramente come i clienti della HSBC preferissero perdere i soldi in operazioni finanziarie sbagliate, a volte anche venire truffati dai gestori, ma la cosa che non volevano assolutamente era pagare le tasse su quei soldi”. Pagare le tasse equivale a contribuire a sostenere il welfare. E loro non lo vogliono fare.
È vero che la presidenza Trump l’ha strappata per i voti dei grandi elettori ma lo è anche che quasi 63milioni di americani hanno scelto di votare per lui. E non sono certo pochi.

Se almeno, in tutti questi anni, la gran parte dei media e dei giornalisti non si fossero, al pari di governi e amministratori, piegati ai diktat del mercato e della finanza forse non si sarebbe mai arrivati al punto in cui invece si è rovinosamente giunti.
La domanda da porsi è: “in che percentuale media e stampa raccontano e hanno raccontato la verità, sempre e comunque?”

Nel suo documentario, omonimo del libro di Celada, Micheal Moore sostiene che «ogni dipendente licenziato, anonimo, dimenticato, che fa parte della cosiddetta classe media, ama Trump. Lui è il cocktail umano esplosivo che loro stavano aspettando. La bomba a mano umana che potevano tirare legalmente sul sistema che gli aveva rubato la vita». Chi li ha portati a questo livello di rabbia e disperazione?

Elencare i difetti e gli errori di Trump serve fino a un certo punto. Se i media americani, per esempio, avessero sempre raccontato la verità invece di portarlo a diventare una star amata dal pubblico per i suoi già improbabili programmi forse il popolo americano non avrebbe preso così tanto sul serio la sua candidatura alle presidenziali. Troppo spesso e per troppo tempo i cronisti, di tutto l’Occidente, sono stati al servizio degli “stregoni della notizia” e quindi ogni loro allontanamento da questa “retta” linea viene automaticamente vissuto come una sorta di tradimento anche dallo stesso presidente americano il quale, «sparando a zero dalla postazione Twitter della Casa Bianca sulle riviste che gli negano la copertina di uomo dell’anno, chiedendo la chiusura di network, declassando l’intera categoria dei giornalisti a “nemici della patria”», in fondo non fa che manifestare il suo stupore. Quante copertine e quante apologie gli hanno dedicato osannando le sue doti di imprenditore e uomo d’affari e celando tutto il resto? Relazioni e amicizie che naturalmente continua a coltivare anche ora che è diventato presidente.

Per Celada l’America ancora non si capacita di ciò che è accaduto ma stiamo parlando di un Paese davvero “grande”, immenso, vasto e per comprendere gli americani non bisogna seguire l’informazione da format o da spot che viene propinata al pubblico mondiale in tutte le salse. Il Paese più democratico e liberale che esista al mondo. No, la vera America e la sua reale popolazione è quella che sta dietro le telecamere, lontano dai riflettori, “nascosta” e disseminata lungo un vastissimo territorio conquistato e dominato proprio in nome del tanto caro a Trump imperativo o mantra come dir si voglia che vede e vuole la supremazia assoluta e incondizionata dei bianchi su tutte le altre etnie.

Luca Celada non disdegna di sottolineare più volte all’interno del libro la sua consapevolezza che il neo presidente americano, la first family e le loro azioni rappresentano e incarnano, per certi versi, il male assoluto per l’America certo ma anche per l’intero pianeta. Ciò che realmente sorprende il lettore non è il resoconto dettagliato delle azioni di Trump, prevedibili e già note per chi sceglie di informarsi comunque e diversamente, bensì il fatto che l’autore, corrispondente Rai a Los Angeles per 20 anni e inviato per «Il Manifesto» abbia dovuto scrivere un libro e pubblicarlo con una casa editrice indipendente per raccontarle.

TRUMPLAND di Luca Celada è scritto con un ritmo serrato, come se l’autore avesse dovuto faticare per riuscire a far rientrare tutto quello che riteneva necessario scrivere e che, per questo, abbia dovuto “aumentare la velocità”. Lo stile è deciso. Celada voleva chiaramente che al lettore arrivasse in modo inequivocabile il messaggio e le informazioni che intendeva divulgare.


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Continuare a lavorare per un mondo migliore. “L’ultima lezione” di Zygmunt Bauman (Editori Laterza, 2018)

26 giovedì Apr 2018

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Laterza, Lultimalezione, monocolooccidentale, Occidente, ordinemondiale, Oriente, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, ZygmuntBauman

Esce in prima edizione a gennaio 2018 per Laterza L’ultima lezione di Zygmunt Bauman nella versione tradotta da Valentina Pianezzi e Fabio Galimberti, che si è occupato de L’eredità del XX secolo e come ricordarla; contenente anche un saggio di Wlodek Goldkorm. Un libro con un grande insegnamento positivo, come sottolinea nella prefazione Fabio Cavallucci: «La crisi della storia, le avversità della natura, persino la natura spesso malvagia dell’uomo non possono impedirci di continuare a operare, a costruire, a lavorare per un mondo migliore». Un saggio frutto delle più profonde e importanti analisi di Bauman orientate dallo sforzo costante di individuare i fili nascosti della trama della vita sociale e di trasformare in senso comune le idee maturate nella propria ricerca intellettuale. Unico modo per garantire «quell’osmosi feconda tra riflessione e vita condivisa», come evidenzia lo stesso editore nella sua nota.

Un filosofare, quello di Zygmunt Bauman, che nasce spesso da «teorizzazioni delle sue vicende biografiche», ricorda a margine del saggio Goldkorm. Una biografia che ne ha di cose da raccontare, pregna di esperienze difficili e che hanno portato l’autore a vedere davvero il mondo con occhi diversi. Una visione globale del pianeta che abbraccia soprattutto i popoli e non, come si vorrebbe, soltanto le economie. Un’analisi obiettiva e a tratti ‘spietata’ degli errori commessi e protratti nell’affrontare conseguenze gravi, come le migrazioni globali di popoli, con una visione ancora troppo nazionalista e faziosa.

Un rifiuto nel vedere e soprattutto nel tentare di capire quanto sta accadendo nel mondo, il perché intere popolazioni sono costrette a migrare, nel razionalizzare, coscientemente o meno, che quanto sta accadendo a loro è, alla fin fine, casuale, nel senso che potrebbe un giorno accadere anche a noi. E se da un lato è vero che qualsiasi cosa accade nell’universo è casuale, lo è anche che le guerre «possiamo fare in modo che non scoppino». Tuttavia nello Stato moderno si preferisce scegliere la strada del rifiuto e della negazione con «l’esclusione di tutto ciò che è ingestibile e pertanto indesiderabile». Arrivando ripetutamente agli “omicidi categoriali”, allorquando «uomini, donne e bambini sono stati sterminati perché assegnati a una categoria di esseri da sterminare». E Bauman parla in maniera approfondita degli ebrei, degli armeni, dei kulaki, dei musulmani, degli induisti… sottolineando come «tutti i continenti della terra hanno avuto i loro hutu che hanno massacrato i loro vicini tutsi, e ovunque i tutsi del luogo hanno ripagato con la stessa moneta i loro persecutori».

Edith Birkin, “A Camp of Twins – Auschwitz” – 1980/1982

Quello che conta è arrivare in cima e rimanerci, essere il più forte. L’inattaccabile. Mascherando la ferocia con la necessità di sopravvivere, un valore che «vale la pena perseguire di per sé, non importa quanto elevato possa essere il costo per gli sconfitti, e fino a che punto possano uscirne depravati e degradati i vincitori». Una lezione che Bauman stesso definisce “terrificante”.

Nel nostro mondo di modernità liquida, di rapida disintegrazione dei legami sociali e dei loro contesti tradizionali, le comunità, così come le società, possono essere soltanto conquiste, «artifizi di uno sforzo produttivo». E l’omicidio categoriale va inteso ormai come un sottoprodotto, «un effetto collaterale o una scoria della loro produzione». Per Bauman, la rilevanza dell’olocausto «risiede nel suo ruolo di laboratorio», dove sono state condensate, portate in superficie e rese visibili «certe potenzialità, precedentemente diluite e sparpagliate, delle forme moderne e largamente condivise di convivenza umana». La lezione più importante che dà è il rivelare «il potenziale genocidiale innato nelle nostre forme di vita e le condizioni in presenza delle quali tale potenziale più produrre i suoi frutti letali».

Per tagliare alle radici la tendenza genocida «si deve dichiarare inammissibile il sistema dei due pesi e delle due misure», del trattamento differenziato e della separazione, che getta le basi per «una battaglia per la sopravvivenza condotta come gioco a somma zero». La “concorrenza sfrenata per la violenza” si alimenta dello stesso «disordine mondiale su cui prospera la concorrenza sfrenata per i profitti». Non esistono soluzioni locali a problemi globali e, in un pianeta in via di globalizzazione, «i problemi umani possono essere affrontati e risolti solo da un’umanità solidale».

Un grande saggio L’ultima lezione di Zygmunt Bauman, un testo che espone senza pregiudizi quanto accade o è accaduto e che propone delle soluzioni assolutamente non di parte, come è giusto che sia, se risolutive si vuole esse siano. Un libro assolutamente da leggere.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Gruppo Editoriale Laterza per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro e biografia autore www.laterza.it


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Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano

17 sabato Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli, Recensioni

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AndreaFoffano, articolo, BanaAlabed, CaroMondo, GiuliettoChiesa, LatrappolaDaesh, monocolooccidentale, Occidente, paura, Piemme, PierreJeanLuizard, Putinofobia, recensione, RosenbergSellier, saggio, Siria, Solfanelli, terrore, Terrorismo, tre60

I governi di tutto il mondo basano le proprie decisioni sui rapporti informativi dei servizi di intelligence, strutture di sicurezza cui spetta il compito di reperire tutte le informazioni possibili necessarie alle autorità per compiere le proprie scelte e prendere le relative decisioni. Un potere enorme racchiuso nelle mani di una rete di persone pressoché invisibili, ma che esistono e agiscono, anche se all’ombra di governi e istituzioni, determinandone però la linea e le iniziative. Andrea Foffano, docente di sicurezza e intelligence presso ASCE e ANVU-ISOPOL, sottolinea come alcune notizie di carattere internazionale sono in grado di poter stabilire l’andamento politico, sociale ed economico di un’intera comunità nazionale. Anche laddove queste informazioni fossero volutamente forzate o addirittura falsate. Infatti, uno dei principi cardine dell’attività d’intelligence, svolta da tutti i servizi di informazione del mondo, non è altro che l’imperativo: usa tutto e tutti per raggiungere i tuoi scopi.
Quali sono allora gli scopi dei servizi di intelligence e quali quelli degli stati per cui lavorano?

Per esemplificare il lavoro svolto da servizi segreti e governi Foffano analizza il conflitto civile siriano partendo da quanto accaduto due anni prima l’inizio della guerra. Ovvero allorquando nel tratto di mare compreso tra l’Iran e la penisola del Qatar, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti energetici di gas naturale, usufruibile da entrambi i Paesi. La Siria, al cui governo si trovavano gli Alauiti del Presidente Bashar al-Assad, fedeli alleati degli Sciiti iraniani, negò il consenso al transito delle strutture di trasporto sul proprio territorio nazionale per la Qatar-Turkey pipeline, che avrebbe dovuto collegare l’Europa con il Qatar. Mentre diede il proprio consenso per il passaggio dell’Islamic pipeline progettato dall’Iran. Washington decise di intervenire in difesa dei propri alleati (Qatar e Arabia Saudita) e iniziò a sostenere militarmente le fazioni ribelli che, dopo l’avvento della Primavera Araba in Siria, avevano iniziato a opporsi al regime di Assad. Parallelamente, l’Arabia Saudita iniziò a finanziare in modo massiccio molti dei gruppi terroristici e jihadisti che si opponevano allo stesso regime.

Secondo quanto riportato in un’inchiesta del NewYork Times, l’Arabia Saudita avrebbe finanziato la guerra segreta della CIA in maniera continua e massiccia, si parla di circa un miliardo di dollari da parte degli Stati Uniti e svariati miliardi di dollari provenienti da ricchi e anonimi finanziatori sauditi. Un servizio segreto estero che fornisce sistemi d’arma di ultima generazione a gruppi ribelli divenuti poi estremisti, jihadisti, terroristi è di sicuro una scomoda verità. Modi di agire che ricordano molto, forse troppo, la guerra russa in Afghanistan, con gli americani intenti a sostenere militarmente i Talebani e i Mujaheddin. Americani e sauditi, con il sostegno fondamentale del Pakistan e dei pashtun della zona tribale, avevano creato a Peshàwar il più grande centro jihadista del mondo. Come ricorda Pierre-Jean Luizard, storico e direttore del Centre national de la recherche scientifique, del tempo in cui gli jihadisti erano i nostri eroi che combattevano contro l’Impero del Male, e solo in un secondo momento si trasformarono in barbari che avevano portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Per Luizard, il regime siriano ha avuto sempre alcuni difetti agli occhi degli occidentali. In primis per il diniego a una pace con Israele che non prevedesse la restituzione del Golan, occupato dall’esercito ebraico nel 1967. Continua ad avere ottimi rapporti con Mosca, alleato della repubblica sciita dell’Iran e a sostenere militarmente gli Hezbollah, l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006. Appartiene a quell’asse della resistenza che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo. Insomma, il nemico perfetto che ha fatto della Siria il terreno ideale per una guerra santa.

Secondo Joshua Landis, uno dei massimi esperti mondiali della politica siriana, circa il 60-80% delle armi che gli Stati Uniti hanno introdotto nel paese sono finiti nelle mani di gruppi terroristici jihadisti riconducibili ad al-Qaeda. Ma se a qualcuno venisse in mente di trovare le prove per accusare gli Stati Uniti di fomentare la guerra in Medio Oriente, avverte Foffano, sappia che andrà incontro a un fallimento certo. Il conflitto in atto in Siria appartiene a una nuova tipologia di guerra: quella per procura, nella quale gli attori in campo mascherano il proprio intervento tramite il sostegno, più o meno indiretto, ad una delle parti in causa. Scontri nei quali il secondo livello, ovvero la guerra delle informazioni, risulta alla fin fine più potente e pericoloso del primo, gli scontri armati sul campo. Almeno per gli Stati che non risultano in apparenza coinvolti direttamente nello scontro perché per quelli direttamente chiamati in causa e soprattutto per le popolazioni ad essi afferenti la situazione naturalmente cambia e anche di molto.

Bana Alabed, la ragazzina che ha fatto conoscere il dolore dei cittadini di Aleppo a tutto il mondo attraverso i suoi tweet inviati ai presidenti di tutte le maggiori potenze mondiali, si chiede come le persone possano essere così crudeli da far diventare, per un bambino, nessun posto sicuro e dedica il libro che racchiude la sua storia a tutti i bambini che soffrono a causa di una guerra, per dire loro che non sono soli, purtroppo. In tanti, in troppi soffrono e subiscono le conseguenze di scelte non proprie, non volute e non condivise in nome di una pace che stenta ad arrivare e a causa di interessi che raramente coincidono con quelli di interi popoli e troppo spesso invece con quelli elitari di ristrette cerchie e categorie di persone.

 

Quei terroristi che in altri scenari operativi sparsi per il mondo gli Stati Uniti stavano combattendo, a prezzo di numerose vittime fra i soldati dell’esercito americano e della coalizione internazionale, anche come conseguenza dell’intervento, diretto o indiretto che sia, degli stessi nel conflitto civile rischiavano di prendere il potere in Siria e allora lo Stato Maggiore decise di servirsi dei servizi segreti di intelligence per passare informazioni militari alle forze armate delle altre nazioni impegnate nel conflitto. Con la certezza che i servizi segreti di Assad avrebbero intercettato il movimento di dati e utilizzato il tutto nella lotta contro gli jihadisti. I cablo del Dipartimento di Stato americano, resi pubblici nel corso degli anni da Wikileaks, avrebbero gettato un fascio di luce su un retroscena assai torbido e buio.

Un rischio enorme quindi quello corso dagli americani. Non si può non chiedersi il perché reale del continuo e persistente intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo si prospetti o si profili una qualsivoglia instabilità. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono diventati l’unico polo dominante schierato in campo geopolitico mondiale. L’America è una di quelle nazioni, insieme a tante altre del cosiddetto Occidente, ad aver improntato il proprio sistema economico sulla competitività: non riescono a trovare una sicura e certa stabilità interna, senza ricorrere a nuovi mercati e ad altrettanti investimenti. Lo slogan del ventennio era: “Chi si ferma è perduto!”. Ecco, mai parole furono più adatte a descrivere la situazione di alcune potenze mondiali a ridosso del ventunesimo secolo.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001, da questo punto di vista, sono stati un avvenimento strategicamente molto importante. Hanno decretato l’inizio della «guerra al terrore» che ha significato l’invasione dell’Afghanistan, la guerra ai Talebani, l’invasione dell’Iraq, gli interventi in Libia e in Siria. Operazioni nelle quali ogni mossa è politica, è dettata da convenienze economiche e risponde sempre a chiare regole sociali. Giulietto Chiesa, giornalista e politico italiano, considera il terrorismo islamico un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando. L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetta in questo senso. Ma, una volta abbattuto il Comunismo sovietico, l’Occidente si è ritrovato senza un nemico da combattere. Senza nemici e con un nuovo gigantesco alleato e vassallo non è riuscito a spiegare al mondo intero come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli. Il problema non sarebbe quindi esterno, bensì interno, nel modello di sviluppo scelto. Il piano messo in atto sarebbe stato quello di sostituire il terrore rosso con il terrore verde. Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un’antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Per Foffano, prima di passare all’analisi oggettiva dei fatti, provando conseguentemente a interpretarli sino a giungere a una spiegazione logica e razionale degli avvenimenti, bisogna forzatamente sgombrare il campo da ogni sorta di pregiudizio politico-ideologico, che potrebbe in qualche modo viziare la nostra intrinseca capacità critica. Quello che Chiesa definisce con parole molto più crude Matrix, con riferimento diretto alla omonima produzione cinematografica. L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo. Il mondo reale è altrove però, fatto in un altro modo, è furibondo, è feroce, è senza tregua. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

Anche quanto sta accadendo o è già accaduto in Siria, per fare un esempio, viene tagliato fuori dall’immagine che del conflitto hanno milioni di occidentali indotti a credere che si stia parlando, solo, dell’ennesima lotta contro il terrorismo, di matrice islamica questa volta, necessaria e imprescindibile per la sicurezza e la stabilità del mondo, occidentale naturalmente.


Bibliografia di riferimento:

A. Foffano, “Siria. La guerra segreta dell’intelligence”, Ed. Solfanelli, 2017
P.J. Luizard, “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna”, Rosenberg&Sellier, 2016
B. Alabed, “Caro mondo”, Tre60, 2017
G. Chiesa, “Putinofobia”, Piemme, 2016


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È la fine del ‘sogno americano’? “Trump” di Sergio Romano (Longanesi, 2017)

09 martedì Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Longanesi, monocolooccidentale, recensione, saggio, SergioRomano, Trump

“Trump” di Sergio Romano: è la fine del sogno americano?

Uscito con Longanesi, il saggio di Sergio Romano Trump e la fine dell’american dream sembra raccontare in realtà la fine delle speranze che il mondo occidentale per intero ha riposto nella più grande potenza mai esistita che non dei sogni degli stessi americani, da sempre parti opposte di una nazione al contempo «puritana e liberale, bigotta e spregiudicata, isolazionista e internazionalista, protezionista e liberoscambista».

Si è liberi di pensarla come si vuole ma resta il fatto che il neo-presidente degli Stati Uniti d’America è stato democraticamente eletto con un’elezione in cui a premiarlo è stato proprio l’elettorato, ovvero la parte reale dell’America, disseminata nei cinquanta stati tra praterie, deserti, città e campagne, centri e periferie… non solo geograficamente ma anche socio-culturalmente parlando. I suoi elettori lo hanno votato perché le sue dichiarazioni e le sue promesse «erano esattamente quelle che volevano sentire dal loro presidente».

Il saggio di Romano è una sorta di biografia non autorizzata di Donald Trump come personaggio pubblico attratto dalla politica, anche se restatone formalmente fuori fino al momento della candidatura a presidente. Un libro che ripercorre le tappe che lo hanno portato a diventare prima molto ricco poi molto famoso, poi ancora, credibile agli occhi di una gran fetta degli americani, visti i risultati delle elezioni presidenziali. La parte più interessante del testo, comunque, risulta essere Un proscritto europeo nel quale l’autore elenca una serie di «domande che gli europei dovrebbero fare a se stessi». Ad esempio la prima chiede se sia «ancora utile affidare la propria sicurezza a un consorzio militare in cui il principale socio è, dallo scorso novembre, un personaggio contraddittorio, stravagante e imprevedibile».

“Trump” di Sergio Romano: è la fine del sogno americano?

Interrogativi che, in realtà, bisognava porsi da tempo per eventi e situazioni che con Trump hanno trovato un più ampio margine di dibattito ed estensione ma che prima non erano di certo del tutto assenti. Romano stesso ammette che «esiste una stampa che ha rinunciato a qualsiasi pretesa di obiettività per scalzarlo dal potere», la medesima che in altri punti del libro definisce “la migliore americana”. Mezzi di informazione che hanno inevitabilmente influenzato gli altri nel resto del mondo. È lecito raccontare malefatte e cattive intenzioni ma quando si perde di obiettività non è mai un buon segno per la qualità e la credibilità stessa dell’informazione.

Alcuni esempi.

  • La notizia più clamorosa del viaggio di Trump in Arabia Saudita fu la firma di impegni per la fornitura al Regno dei Saud di armi per la somma di 110 miliardi di dollari. Per correttezza andava sottolineato che «erano trattative avanzate durante la presidenza di Obama». Immediatamente divennero «un tassello della politica estera che il nuovo presidente avrebbe fatto nella regione». Se la trattativa si fosse conclusa durante la presidenza Obama avrebbe ingenerato lo stesso clamore mediatico?
  • Grande eco ha suscitato anche la dichiarazione del presidente Trump di voler costruire un muro lungo la frontiera messicana per fermare gli ingressi irregolari. Poco risalto venne invece dato alla precisazione che, in realtà, il muro esisteva già dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Una sequenza di muri e recinti, fari e sensori. Trump voleva solo «che la cinta fosse completata a spese del Messico».

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“Trump” di Sergio Romano: è la fine del sogno americano?

Il saggio di Romano si presenta al lettore come un lungo articolo di giornale, un reportage di dati e fatti in cui spesso l’autore inserisce, come in un’antica tragedia, i suoi personali cori. Opinioni e considerazioni espresse secondo il suo personale gusto e la sua esperienza o formazione. Nella quasi totalità in opposizione alla figura, all’operato e alle dichiarazioni del presidente Trump.

Un saggio, Trump e la fine dell’american dream di Sergio Romano, che si rivela molto interessante soprattutto per le conclusioni cui l’autore giunge e vuol far giungere il lettore ne Un proscritto europeo. Nella volontà di guardare e far guardare oltre gli eventi e le semplici dichiarazioni, oltre l’informazione o la disinformazione. Nella speranza di raggiungere e coltivare un più elevato spirito critico, arma necessaria per contrastare l’avanzata non solo di singoli personaggi ambigui ma di intere potenze e organizzazioni.


Per la prima foto, copyright: Samantha Sophia.


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